Il ddl sicurezza e i migranti

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Il 18 Settembre 2024 la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge AC 1660; il testo è stato poi trasmesso all’altro ramo del Parlamento, dove è diventato l’Atto Senato n. 1236. Si tratta dell’ennesimo provvedimento sulla «sicurezza», dopo quello del Governo Prodi (2007), e quelli dei Ministri Maroni (2009), Minniti (2017) e Salvini (2018): evidentemente, la «sicurezza» è un genere giuridico-letterario che va per la maggiore nel nostro Paese. Sul fatto poi che norme del genere ci rendano davvero sicuri, è lecito avere più di un dubbio: anzi, proprio l’ossessiva reiterazione di leggi, decreti o «pacchetti» dedicati al tema è una spia dell’inefficacia (o dell’inutilità) delle disposizioni via via emanate.

Quanto al testo in discussione alle Camere, sarebbe forse più corretto parlare di legge «insicurezza»: perché, come è stato scritto, lo scopo principale del ddl sembra quello di impedire la libera manifestazione delle opinioni. Tra norme «anti-Gandhi» (che vietano il blocco stradale, anche pacifico) e provvedimenti contro le occupazioni di case sfitte, tutto sembra pensato per zittire il dissenso, e per fare in modo che il governo di turno possa agire al riparo da qualunque opposizione sociale. Basta guardare alla storia del Novecento per capire che un potere svincolato dal controllo dei cittadini è un potente fattore di insicurezza per tutti (o quasi tutti).

Qui, però, non analizziamo l’intero provvedimento, con le sue numerose disposizioni sui temi più disparati, dal terrorismo alla cannabis light, dall’occupazione «arbitraria» (!) di immobili al contrasto alla criminalità organizzata, dall’accattonaggio alle vittime dell’usura. Ci limitiamo invece a riassumere, in modo necessariamente sintetico, la parte che riguarda l’immigrazione e i diritti dei migranti: un tema che stavolta – a differenza di quanto era accaduto con le precedenti norme sulla «sicurezza» – occupa una posizione di secondo piano, nel senso che compare in non più di quattro o cinque articoli (sui trentotto totali di cui si compone il ddl). Sembra quasi che le misure punitive e restrittive, che per anni hanno avuto come bersaglio privilegiato «gli altri» (i migranti e i richiedenti asilo venuti da altrove), adesso siano rivolte a noi, proprio a «noi», ai cittadini e ai lavoratori italiani. E anche questa, in fondo, è una storia vecchia: da sempre le varie forme di ostilità contro i presunti «diversi» (prima gli ebrei, poi gli «zingari», poi ancora gli «extracomunitari», adesso i profughi e i richiedenti asilo) nascondono una profonda diffidenza nei confronti delle classi popolari, «autoctone» o «forestiere» che siano. Ma non divaghiamo, e veniamo a noi.

Migranti senza telefono

La norma che ha fatto più discutere, e che ha suscitato più scandalo, è contenuta nell’articolo 32 del disegno di legge: secondo questa disposizione, al momento di vendere una sim card le compagnie telefoniche sono obbligate non solo a identificare l’acquirente, ma anche a chiedergli il permesso di soggiorno se si tratta di un cittadino straniero. In questo modo, l’immigrato irregolare non potrà più avere una scheda telefonica propria, e dunque non potrà più chiamare i propri familiari al Paese di origine, né mettersi in contatto con un avvocato se ha problemi legali, e neppure rivolgersi al Pronto Soccorso se ha avuto un incidente o un malore improvviso.

Si tratta di una norma crudele, e tra l’altro priva di una finalità ragionevole e riconoscibile. Cosa si vuole ottenere infatti, impedendo ai migranti di usare il telefono? Si teme forse che lo straniero terrorista possa mettersi in contatto con i suoi complici, e così preparare un attentato o piazzare una bomba da qualche parte? Se questo fosse lo scopo, il governo avrebbe scelto un’arma decisamente spuntata: non è difficile capire che un’organizzazione criminale potrebbe facilmente aggirare il divieto, ad esempio intestando la scheda telefonica a un’altra persona. In ogni caso, non è dato sapere quale sia il reale obiettivo della norma: nel corso del dibattito parlamentare un deputato dell’opposizione (Riccardo Magi di +Europa) ha chiesto al governo un chiarimento in proposito, ma l’Esecutivo non ha risposto, e i parlamentari della maggioranza sono rimasti in religioso silenzio. Bontà loro.

Come spesso accade, poi, la conclamata «cattiveria» delle politiche securitarie si accompagna alla proverbiale incompetenza (e ignoranza) dei leader del centro-destra e dei loro consulenti tecnici: e così, anche stavolta la norma partorita dal furore repressivo del governo Meloni è stata scritta male, fa acqua da tutte le parti, ed è destinata ad avere effetti ben diversi da quelli auspicati dallo stesso governo, e dalla sua maggioranza. Tanto per fare un esempio, secondo le leggi vigenti non sono soltanto gli immigrati «clandestini» a non avere un permesso di soggiorno in tasca: un turista inglese bianco e benestante può entrare in Italia e rimanervi per tre mesi, e non deve chiedere alcun permesso; per i turisti, infatti, il visto sul passaporto è un documento sufficiente per soggiornare legalmente sul territorio. Le compagnie telefoniche dovranno negare anche a questo facoltoso cittadino britannico la possibilità di avere una scheda sim? O dovranno assumere un esperto di diritto dell’immigrazione, che spieghi loro che un visto, in alcune circostanze, ha lo stesso valore di un permesso di soggiorno? Sicuramente Giorgia Meloni, fresca di un cordiale incontro con il premier d’Oltremanica Keir Starmer, non aveva previsto questo sgradevole effetto collaterale.

Bisogna però precisare un punto importante, che nel dibattito di questi giorni è rimasto completamente in ombra: la norma sulle schede telefoniche, indubbiamente odiosa, è però nuova solo in parte: già oggi molte compagnie telefoniche, al momento di vendere una sim, chiedono al cliente il codice fiscale, e il codice fiscale (secondo le linee-guida interne dell’Agenzia delle Entrate) viene rilasciato solo allo straniero regolare.

In qualche modo, dunque, il divieto che si vorrebbe introdurre ex novo esiste già: solo che è affidato non a una vera e propria legge, ma a un insieme di abitudini, di prassi consolidate, e anche di regolamenti amministrativi (ad esempio quello dell’Agcom, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). Questo dovrebbe far riflettere soprattutto le forze del centro-sinistra, che per decenni hanno avallato, e talora attivamente promosso, pratiche di esclusione fondate sul principio «senza permesso di soggiorno, nessun diritto». Bisognerebbe invece ribadire una volta di più che i diritti fondamentali andrebbero definitivamente svincolati dalla regolarità della permanenza in Italia.

Una norma «anti-Gandhi»: sulle «rivolte» nei Centri per migranti

Un’altra disposizione su cui vale la pena soffermarci è quella contenuta nell’articolo 27 del ddl, che introduce il nuovo reato di «rivolta» all’interno di un Cpr (Centro di Permanenza per il Rimpatrio) o di un centro di accoglienza. La norma dice che chiunque, trovandosi in uno di questi «centri», «partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti» è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

Due punti vanno qui evidenziati. In primo luogo il testo mette nello stesso «calderone» le proteste violente, condotte magari con armi improprie e con la volontà di procurare danni alle persone, e gli atti di disobbedienza finalizzati a contestare in modo pacifico i comportamenti illegittimi degli agenti di custodia, degli operatori delle forze dell’ordine o dei dipendenti dell’ente gestore. Poche righe dopo, si precisa infatti che sono ugualmente punibili «le condotte di resistenza passiva che (…) impediscono il compimento degli atti del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». La resistenza passiva, tecnica nonviolenta per eccellenza, resa celebre da Gandhi e da Martin Luther King, viene dunque equiparata all’insurrezione manu militari.

In secondo luogo, dobbiamo ricordare che stiamo parlando di «rivolte» non in luoghi qualsiasi, ma all’interno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, cioè nelle strutture che «servono» (si fa per dire) a trattenere gli stranieri irregolari in attesa di espulsione: come abbiamo spiegato più volte in questo stesso giornale (ad esempio qui e qui), i Cpr sono spazi detentivi di dubbia legittimità costituzionale, sottratti ai normali controlli propri del circuito penitenziario, e di fatto inaccessibili ai giornalisti, agli avvocati e – in qualche caso – persino ai parlamentari. In strutture di questo genere, dove si consumano ogni giorno gravissime violazioni dei diritti umani, la «rivolta» è l’unico strumento che gli internati hanno per far sentire la loro voce, per sollecitare l’intervento della giustizia, per segnalare abusi e violenze fisiche che altrimenti passerebbero sotto silenzio. Invece di interrogarsi sulla legittimità, e persino sull’efficacia, della detenzione amministrativa per i migranti, il Governo inasprisce le misure penali, e in questo modo non fa altro che incrementare il clima di violenza che si respira quotidianamente nei «Centri».

Tra l’altro, il reato di «rivolta» e di «disobbedienza civile» verrà applicato non solo nei Cpr ma anche nei centri di accoglienza, quelli che servono non per eseguire le espulsioni ma per favorire (almeno in teoria) l’inserimento sociale dei richiedenti asilo appena arrivati. Presi spesso (non sempre) in gestione da cooperative o pseudo-associazioni interessate solo a «fare cassa» sulla pelle dei migranti, amministrati da Prefetture che non sanno (e a volte non vogliono) garantire standard dignitosi di ospitalità, i centri di accoglienza territoriale sono attraversati non di rado da tensioni e conflitti tra operatori e persone accolte.

A differenza di quel che accade nei Cpr, però, queste tensioni e questi conflitti sono facilmente risolvibili: come abbiamo cercato di spiegare io e Giuseppe Faso nel nostro Manuale dell’Accoglienza, la professionalità dell’operatore consiste proprio nella capacità di ascoltare i bisogni degli ospiti, istituendo un dialogo quotidiano con loro. Introdurre il reato di «mancata esecuzione degli ordini impartiti» significa vanificare questa professionalità e trasformare l’operatore in un guardiano: la denuncia alla Procura per «inottemperanza agli ordini» si sostituisce così al paziente lavoro di relazione.

La revoca della cittadinanza

Ci soffermiamo infine su un’altra disposizione, introdotta dall’articolo 9 del ddl, che tratta delle ipotesi di revoca della cittadinanza. Il decreto Salvini del 2018 aveva già previsto che lo straniero, dopo aver acquisito la nazionalità italiana (si badi bene: la nazionalità italiana, non il semplice permesso di soggiorno), poteva perderla in caso di condanna definitiva per reati di terrorismo ed eversione. Si trattava, già allora, di una norma di dubbia legittimità, perché si applicava non a tutti i cittadini indistintamente, ma solo agli stranieri che erano diventati italiani. Si istituiva così una vera e propria discriminazione, vietata esplicitamente dalla nostra Carta Costituzionale (che come noto dice, all’art. 3, che «tutti i cittadini (…) sono eguali davanti alla legge»).

Il ddl sicurezza introduce un piccolo «correttivo»: prevede che si possa procedere alla revoca della nazionalità solo a condizione che la persona condannata «possieda un’altra cittadinanza» oppure – e qui c’è un passaggio importante su cui dobbiamo soffermarci – «possa acquisire un’altra cittadinanza». Il senso è chiaro: non è possibile togliere la nazionalità italiana a un individuo che in questo modo diventerebbe un non-cittadino, un cittadino di nessun Paese (in termini tecnici, un «apolide»).

Pur non cancellando l’obbrobrio partorito anni fa dal decreto Salvini, non c’è dubbio che qui il ddl fa un piccolo passo avanti. Ma, come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli. La norma, come abbiamo visto, dice che la nazionalità italiana si può revocare solo se l’interessato «possiede un’altra cittadinanza», oppure se «può acquisirne un’altra». Ma che significa «può acquisirne un’altra»? Per stabilire se una persona «può acquisire» la cittadinanza di un altro Paese, bisogna conoscere le leggi di altri Paesi, e le Prefetture non hanno – mediamente – queste competenze internazionali. E che succede se poi l’interessato, pur potendo in astratto acquisire una cittadinanza, non riesce all’atto pratico ad acquisirla? Come si vede, siamo di fronte – anche in questo caso – a norme mal concepite e mal formulate: buone più a placare i (presunti) furori dell’opinione pubblica, che a governare fenomeni complessi.

 

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Sergio Bontempelli

Sergio Bontempelli è operatore legale, coordinatore degli Sportelli per Stranieri dei Comuni della Provincia di Pistoia e presidente dell’Associazione Africa Insieme di Pisa. Si occupa di immigrazione da molti anni, e ha scritto alcuni testi divulgativi sull’argomento.

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