Da due settimane le proteste degli agricoltori stanno mettendo in tensione la prassi della transizione ecologica in Europa. La mobilitazione, partita da Germania e Francia ed estesasi ben presto ad altri paesi del continente, è portata avanti da lunedì 29 gennaio anche in molte regioni italiane, tra cui la Toscana. Proprio in questi giorni, di fronte all’assenza di risposte soddisfacenti da parte delle istituzioni, la protesta rischia di entrare nel vivo del conflitto politico.
La scintilla su cui si è accesa l’ondata di proteste, è noto, è costituita dalle ultime riforme varate dalla Commissione Europea in materia di Politica Agricola Comune (PAC), all’interno del piano di ristrutturazione economica denominato Green Deal. Alla base, tuttavia, di queste proteste, vi sarebbero decenni di crisi del settore primario, costruita e riprodotta dalle stesse istituzioni che tentano parallelamente di gestirne contraddizioni e, da un paio di settimane, nuove opposizioni.
Attraverso una prospettiva storica di lungo periodo, possiamo affermare che la crisi dell’agricoltura europea abbia avuto inizio con l’avvento della “rivoluzione industriale”, dapprima avanguardia dello sviluppo capitalistico, poi tendenza globale nell’Occidente dalla seconda metà del XIX secolo, infine, a partire dagli anni ’70 in questi stessi paesi, componente tra le altre nei processi di valorizzazione che hanno conosciuto nel frattempo nuove frontiere, una su tutte, in quel periodo, quelle che segnavano il mondo della finanza.
Lo stesso processo di industrializzazione, mentre chiamava in città milioni di persone dalle campagne o da altri paesi con la promessa di una vita migliore, togliendo quindi forza lavoro alla produzione agricola internazionale già in difficoltà, fabbricava contemporaneamente i mezzi tecnologici per poter garantire non solo gli stessi, ma livelli di produzione ancora maggiori rispetto al passato. Questo, si intende, a parità di quantità di lavoro erogata da agricoltori e allevatori e al prezzo di una devastazione ecosistemica di cui proprio in quegli anni si cominciavano a conoscere gli effetti deleteri per la vita dell’umanità sulla Terra.
Fatto sta che tra sfruttamento dei dipendenti, auto-sfruttamento da parte di molti titolari di azienda (soprattutto piccole) e devastazione ambientale, negli anni ’70 l’Europa è arrivata ad annoverare livelli di produzione alimentare che avrebbero permesso una potenziale autosufficienza. Tuttavia, anche a fronte di una forza lavoro ormai allo stremo delle energie individuali e collettive a disposizione, e della crescente consapevolezza sull’importanza di tutelare il nostro ecosistema, la produzione ha dovuto continuare ad aumentare.
Questo è accaduto per due ordini di motivi, strettamente interrelati: ragioni di mercato, in cui le grandi aziende hanno molto potere, e l’interesse di far crescere i profitti anche cercando di conquistare fette di mercato estero (cfr. abolizione del “dumping economico”, tra le rivendicazioni degli agricoltori); ragioni geopolitiche, dal momento che un’elevata produzione garantiva tra le altre cose maggior potere politico statale (sempre all’ordine del giorno, ma a maggior ragione nel coevo clima di Guerra Fredda).
Perché il settore primario potesse garantire almeno la sussistenza dei lavoratori, e quindi la riproduzione sociale del settore stesso, l’allora Comunità Economica Europea ha garantito fin dagli anni ’60 un sistema di sussidi che coinvolge da allora un’elevatissima percentuale del credito pubblico concesso dalla CEE ai vari Paesi aderenti.
Senza perderci in dettagli per noi trascurabili in questa sede, sia sufficiente assumere che l’economia del settore primario è regolata, a detta degli agricoltori – riuniti all’inizio di febbraio del 2024 a Valdichiana (Bettolle, SI) – in alcune sue fasi in maniera molto rigida, e in altre in maniera molto lassa. È molto rigida nell’imporre alle materie prime e ai prodotti agricoli le forbici di prezzo stabiliti dalle Camere di Commercio (gli agricoltori toscani fanno riferimento a quella di Bologna); è molto lassa nel controllo dei prezzi quando il prodotto passa agli intermediari (grossisti, supermercati ecc.). In questi passaggi si perderebbe insomma quasi tutto il valore pagato dal consumatore, e mai recuperato dai produttori.
Questo scenario generico, valido su scala continentale, si inserisce tuttavia in un mercato globale, fatto di importazioni ed esportazioni da cui dipendono anche i prezzi dettati dalle Camere di Commercio. Le importazioni riguardano tendenzialmente merci a basso costo, reso possibile dai bassi salari riconosciuti ai lavoratori locali e, tendenzialmente, ad un uso più invasivo di prodotti chimici sui terreni o direttamente sulle coltivazioni (quindi da un minor investimento in termini di tutela della natura e della salute dei consumatori). Le esportazioni mirano invece tendenzialmente a conquistare nuove fette di mercato estero, per i motivi di cui sopra.
Per fare qualche esempio delle ricadute di questi meccanismi, basti pensare che fa parte della normalità – si lamentano gli agricoltori – l’importazione di prodotti a basso costo proprio nei periodi della raccolta in Italia di molti cereali. Questo meccanismo farebbe calare temporaneamente anche il prezzo dei cereali coltivati in Italia, perché il mercato in cui vengono venduti è lo stesso. Dall’altro lato, abbiamo già accennato anche all’ingiustizia e alla rabbia provata nei confronti delle grandi aziende e dello Stato, co-implicati nella pratica del dumping, associata nell’ambiente ad una sorta di “concorrenza sleale”: lo Stato fornisce loro dei fondi per poter abbassare i prezzi di vendita e poter in questo modo competere nel mercato globale.
In questi giorni, mentre continuano le proteste in tutta Europa e in migliaia si spingono fino a Bruxelles, i trattori italiani stanno invece raggiungendo Roma, centro del potere statale, i cui interpreti sono ritenuti i primi responsabili, complice Coldiretti, di una situazione non più sostenibile.
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