Lunedì 11 febbraio, in tarda mattinata, alcuni portavoce degli agricoltori in protesta sono stati ricevuti dal sottosegretario al “Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste” Patrizio La Pietra e hanno conquistato valide promesse. Nel frattempo, continuano le proteste in Italia (Padova, Modena, Imola, Roma, Caserta ecc.), in Europa (Belgio, Italia, Spagna, Francia, Germania, Polonia) e si estendono in questi giorni fino in India (per altri ma simili motivi, che qui non possiamo affrontare).
Nel pomeriggio, al presidio di Riscatto Agricolo sulla Nomentana, si capisce subito che si tratta di un giorno di festa: l’impegno preso dal Ministero è senza dubbio una tappa fondamentale per la conquista dell’agricoltura italiana da parte dei titolari e lavoratori di piccole e medie imprese: azzeramento, per due anni, dell’Irpef per le imprese con reddito annuo inferiore ai 10.000€, dimezzamento, sempre per due anni, per quelle con reddito da 10 a 15.000€ (punto 4 delle rivendicazioni) e l’istituzione di un Tavolo di coordinamento per il lavoro in agricoltura.
Tuttavia, dopo venti e più giorni di assemblee, presidi e blocchi stradali, non può essere considerato il giorno della vittoria. I discorsi attorno alle attuali, nuove prospettive della mobilitazione, su questo, convergono: la battaglia è appena iniziata.
Quasi tutti i punti del programma avanzato da Riscatto Agricolo rimangono fuori persino dalla discussione con le istituzioni: 1) la “riprogrammazione del Green Deal” è tuttora sottoposta ad una dialettica tutta politica e non mediata su scala europea; 2) lo stop alle “importazioni di prodotti agricoli da paesi dove non sono in vigore i nostri stessi regolamenti produttivi e sanitari”, che metta in discussione la prassi di una globalizzazione nelle mani degli attori più forti sul mercato; 3) l’eliminazione dell’obbligo (ma non del diritto) al riposo dei terreni, che chiede a gran voce una fine delle retoriche e delle politiche di stampo assistenzialistico imposte da istituzioni (su scala nazionale e continentale) e sindacati da “almeno trent’anni” (dicono gli agricoltori), e spinge per un reale riconoscimento del valore del lavoro (ma non dello sfruttamento) degli agricoltori e dei terreni; 5) mancano le agevolazioni per l’acquisto di carburante agricolo, anch’esso, come le materie prime, sottoposto a massicci processi di speculazione finanziaria che ne fanno gonfiare il prezzo contestualmente alla sua produzione e distribuzione; 6) latitano “regolamenti stringenti che contrastino l’ingresso sul mercato di cibi sintetici”, che ad oggi permettono sì la sopravvivenza del mercato, ma non la vita dignitosa dei lavoratori e dei consumatori (concorrenti o interni) alle estremità della filiera, né del nostro ecosistema; 7) la “riforma dell’aliquota IVA applicata […] su alcuni prodotti alimentari primari”; 8) una migliore gestione della fauna selvatica (con modalità non precisate); 9) l’abolizione della “pratica del dumping economico per i prodotti agricoli e alimentari”, in grado di mettere in crisi sia i più importanti meccanismi capitalistici del settore su scala internazionale, sia il concetto stesso di Stato-nazione, che necessita di conquistare fette di mercato estero per aumentare la propria potenza sullo scacchiere geopolitico e per scaricare all’esterno dei confini le contraddizioni emergenti internamente (un po’ come avvenuto per il settore industriale a partire dagli anni ’60 e ’70); 10) la riqualificazione delle figure dell’agricoltore e dell’allevatore, partendo con progetti nelle scuole.
C’è chi propone, parallelamente ad una parziale smobilitazione, il mantenimento del presidio e la creazione di un unico sindacato autonomo, di settore, su scala nazionale (che ricorderebbe l’esperienza della Federazione Lavoratori Metalmeccanici negli anni ’70), per unire le forze, sì, ma anche per evitare di lasciarle in mano ai “soliti sindacati”, che avrebbero da tempo dimostrato il loro fallimento.
E c’è invece chi valuta le poche promesse fatte finora come una tattica messa in campo dal governo per prendere tempo, per placare il fuoco della protesta, per ristabilire un clima politico propedeutico a lasciare il sistema sostanzialmente immutato, e che spinge quindi per uno scontro immediato, sulle ali dell’entusiasmo.
Possibile, ma forse controproducente nominare i soggetti e le rispettive posizioni in questa fase confusa, dove all’interno degli stessi gruppi che hanno preso forma ritroviamo sensibilità politiche affatto omogenee, fatte di sfumature necessariamente legate alle identità e alla contingenza. Queste informazioni sono salde in mano agli attori protagonisti, e tanto deve bastare, per noi che ne scriviamo dall’esterno.
Ecco allora che la natura della protesta degli agricoltori, irriducibile all’esposizione dei tricolore o all’ostentazione del mezzo-trattore, manifesta chiari segnali di un’emergente autonomia, ovviamente non proletaria, ma certamente operaia. Le categorie del Novecento sono crollate da tempo sotto i colpi della ristrutturazione economica degli ultimi cinquant’anni: gli incentivi alla creazione di una “proprietà individuale diffusa” dei terreni (un discorso simile potrebbe essere fatto per l’abitare…) hanno infatti completamente destrutturato la composizione di classe su cui era stato possibile costruire il conflitto fino ad allora.
Ad essersi sedimentata, al contrario, è stata la nuova classe dei capitalisti che hanno avuto l’ardire di investire nel mondo della finanza nel periodo della sua esplosione su scala globale. In questo campo, spiega Alessandro Volpi, economista e docente all’Università di Pisa, ultimamente si scommette al rialzo, anche facendo leva sulle incertezze dovute alla guerra in Ucraina, attraverso pacchetti finanziari (i “derivati”) giocati sui passaggi intermedi della filiera alimentare che va dal produttore al consumatore. Qui verrebbe “rubato” il valore dei prodotti.
Insomma: produttori e consumatori pagano ogni giorno i profitti dei manager finanziari e dei supermercati (che non a caso continuano a moltiplicarsi, consumando suolo e uccidendo, oltre agli operai – come accaduto al cantiere Esselunga di via Mariti a Firenze – quel poco di economia al dettaglio che attraversa i quartieri).
Ecco, ora produttori e consumatori questo valore vogliono recuperarlo, che sia attraverso la mobilitazione organizzata oppure attraverso l’“esproprio” diffuso che vede molti nuovi giovani sperimentare la pratica del furto al supermercato, a volte più “per principio”, o al limite per il semplice divertimento della sfida, che per vere urgenze di tipo materiale.
Oggi la realtà ci racconta che il conflitto parte da qui, e sfugge per ora sia ai tentativi di strumentalizzazione o di “mettere il cappello” da parte di politicanti e partitini, sia alle proiezioni nostalgiche dei compagni ancora scottati dal 2001 e fermi su posizioni di retroguardia, fatta spesso di sole opinioni proprio perché sganciate dalla realtà. E allora i dipendenti? E le migliaia di lavoratori migranti “importati” e sfruttati ogni anno nelle campagne, specialmente nei periodi della raccolta? Possiamo ipotizzare una convergenza di intenti che avvicini, in maniera leninista, queste due soggettività in una (temporaneamente) unica lotta per il futuro dell’agricoltura? La nostra ipotesi è che sì, questo potrebbe darsi.
Ma la vera domanda è: ha senso, oggi, operare questo tipo di speculazione tutta teorica, sganciata dal conflitto reale? La nostra ipotesi, stavolta, è che no, probabilmente di senso non ne avrebbe. Nell’attesa (ma non nell’attendismo) dell’espressione di eventuali mobilitazioni di questo tipo, ci manteniamo coi piedi per terra, per poter meglio sognare.
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