La letteratura Working Class nell’America degli anni ’30

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Quando si pensa agli anni Trenta del Novecento, un decennio tra i più difficili della storia degli Stati Uniti sul piano economico e sociale, si tende a collegare la “grande depressione” che lo ha caratterizzato al crollo di Wall Street del ‘29 e alla crisi finanziaria che ne seguì.

Certamente il crollo della borsa, con il tristemente noto black tuesday – tutto precipitò martedì 29 ottobre – ebbe un effetto devastante sull’economia, e non solo statunitense. Perché la globalizzazione ha anche questi effetti: come le pedine di un domino, le crisi si ripercuotono a catena fino a far cadere l’intera filiera.

Si chiudeva, in quel fine ottobre, un boom speculativo che aveva portato centinaia di migliaia di statunitensi a investire pesantemente nel mercato azionario. Quando Wall Street in quel giorno chiuse con una perdita di circa10 miliardi di dollari, fu un colpo durissimo non solo per la grande finanza, ma anche per la piccola e media borghesia che aveva basato l’economia familiare su prestiti e ipoteche con le banche e che si ritrovò a non avere più niente, anticipando su larga scala e con le dovute varianti quello che abbiamo visto accadere nel 2008.

Ma questa è stata solo una delle cause del disastro, la più nota. Altri comparti dell’economia entrarono in crisi, tanto da poter dire che in questi anni il sistema capitalista stava mostrando tutte le sue debolezze strutturali, causate dalla rincorsa inarrestabile e obbligata al profitto e dallo sfruttamento intensivo di qualunque tipo di risorse.

Infatti anche il settore primario, lagricoltura e l’allevamento, pilastri dell’economia statunitense, aveva fatto il “passo più lungo della gamba”; negli anni precedenti si era fatto ricorso ad uno sfruttamento scriteriato del suolo non alternando le varie colture e per di più estendendo a dismisura le aree destinate agli allevamenti intensivi di bestiame.

Il risultato fu che in vastissime aree centrali non c’era più erba, ma solo grano. La scomparsa dell‘erba, fondamentale per l’idratazione della terra, causò l’impoverimento nel suolo e, complice anche un periodo di siccità, fece sì che in immense distese di stati come Kansas, Oklahoma, Colorado, Texas e New Mexico, quella che prima era terra fertile in poco tempo divenne polvere. Una fascia enorme di territorio chiamata non a caso Dust Bowl, la “conca di polvere”.

Quando poi sopraggiunsero le stagioni dei temporali, tali ingenti ammassi di polvere vennero trasportati dal forte vento, generando colossali nubi nere (tempeste passate alla storia come le black blizzard) che nel giro di una notte erano capaci di sommergere intere cittadine, dalle grandi pianure centrali verso est, fino a Chicago e all’oceano Atlantico.

Nel periodo di tempo tra il 1932 e il 1939 furono più di 300 le grandi tempeste di sabbia che misero in ginocchio intere popolazioni. Così milioni di braccianti e agricoltori si trovarono senza nulla da coltivare o allevare, e tanti di questi disperati finirono per lasciare la casa e spostarsi in altre città o addirittura cambiare Stato. Molti dei “reduci della Dust Bowl” partirono per la California, dove le prospettive di vita pareva che fossero migliori, e dove il sogno di poter ancora coltivare un pezzo di terra teneva in vita la speranza di famiglie che spesso non arrivavano a destinazione.

La situazione era disperata: un terzo degli abitanti degli USA era disoccupato. Un terzo aveva lavori saltuari. C’era una fame endemica, decine di migliaia di senza casa migravano in cerca di lavoro, uno qualsiasi pur di non morire di fame. Lo sfruttamento del lavoro era estremo, con una offerta di mano d’opera praticamente inesauribile.

Fu un decennio di miseria e sopraffazione, ma anche di rabbia e di reazione, che vide montare un’ imponente ondata di attivismo politico e sociale da parte della Working Class.

Il capitalismo sembrava vacillare, il nazifascismo era in ascesa in Europa, e i principi del comunismo soppiantarono i più moderati ideali socialisti e fecero presa sulle classi più povere. Scioperi, proteste, manifestazioni, azioni di massa anche violente infiammavano città e villaggi. Un clima che emerge bene nel singolare e interessante Dynamite, storie di violenza di classe in America, dell’immigrato sloveno Louis Adamic, un testo prezioso curato e tradotto per la prima volta in edizione integrale da Andrea Olivieri per Alegre.

E’ in questo contesto che emergono inedite forme di letteratura working class, con molteplici categorie di lavoratori e lavoratrici che esprimono in un linguaggio spesso colloquiale la loro condizione, ma soprattutto il bisogno e la voglia di riscatto.

Chi scriveva era diverso per razza, genere, cultura e religione: mezzadri neri, contadini, migranti del Dust Bowl, lavoratori nell’industria automobilistica di Detroit e del legname per costruzioni, donne dell’industria conserviera e raccoglitrici nei campi, minatori. Voci non solo del proletariato industriale di cui ancora si sa poco, ma numerosissime, come testimonia l’Antologia American Working Class Literature, pubblicata nel 2007 dalla Oxford Univ Press, che propone brani di più di 150 autori e autrici.

La loro scrittura rappresentava l’intera gamma di generi letterari: narrativa, poesia, teatro, memorie, reportage, oratori, manifesti. Lettere, storia orale, testi di canzoni. E altre forme di espressione ibride, difficilmente classificabili.

Alcuni sono poi diventati noti, pubblicati e tradotti in altre lingue, come Upton Sinclair, Dos Passos, Steinbeck, Muriel Rukeyser, Tillie Olsen, ma molti e molte restano del tutto sconosciuti. Erano scrittori e scrittrici che facevano emergere il costo umano e sociale della great depression, criticavano il sistema che l’aveva prodotta, e in modo anche molto esplicito invocavano un cambio radicale.

Molti di loro vennero pubblicati nella rivista mensile New Masses, uscita a New York tra il 1929 e il 1934 e sostenuta dal partito comunista, con l’obbiettivo di creare nuovi lettori e anche nuovi scrittori. Nascono riviste come Blast, Dynamo, Challenge, Anvil: Stories for Workers

Sono testi in cui la classe si intrecciava alla razza e al genere, come scrive Paula Rabinowitz in Women’s Revolutionary Fiction in Depression America, “la narrativa rivoluzionaria femminile degli anni ’30 racconta la classe come un costrutto fondamentalmente di genere e il genere come un costrutto fondamentalmente di classe”.

Tra i molti esempi di questa letteratura proletaria citiamo le “Voci dagli Appalacchi”, le cui poesie e canzoni erano scritte prevalentemente da donne, mogli e madri di minatori che morivano o rimanevano menomati in un altissimo numero di incidenti. Tra queste Aunt Molly Jackson, ostetrica, organizzatrice sindacale, figlia, moglie e madre di minatori di carbone della Contea di Harlan nel Kentucky, dove vi fu uno sciopero represso duramente.

Sarah Ogan Gunning, del Kentucky, anche lei figlia e moglie di minatori, il cui figlio muore di fame e i cui canti parlano di miseria, morte, sfruttamento. Florence Reece che incita i minatori a lottare per paghe migliori e orario ridotto, e su un pezzo di carta strappato da un calendario scrive “Which side are you on”: “Svegliatevi, svegliatevi, lavoratori. Cos’è che vi fa dormire in modo così profondo?..Stanno venendo per dar fuoco alle vostre case, arrivano con fucili e dinamite per cercare di uccidervi mentre dormite, voi che avete scioperato a Harlan”.

Anche il tema razziale si intreccia a quello di classe. Richard Wright, afroamericano nato in una piantagione in Missisipi, corrispondente da Harlem per il partito comunista, scrive poesie, racconti come Uncle Tom’s Children, che raffigurano la vita dei neri e l’autobiografia Black Boy.

Sono voci di provenienze diverse: Pietro Di Donato, nato da immigrati italiani approdati nel New Jersey, a 12 anni cominciò a lavorare nell’edilizia, dopo che il padre era stato ucciso in un incidente sul o meglio dal Lavoro. Nel racconto Geremio fa rivivere in modo molto efficace la scena dell’incidente della squadra di operai, tutti italiani, travolti dal crollo dell’impalcatura su cui lavoravano (ci ricorda qualcosa accaduto proprio qui a Firenze il 16 febbraio nel cantiere Esselunga di via Mariti). Il lavoro stesso diventa un mostro rapace che trae profitto da tutto, anche dalla mancanza di sicurezza di impalacature malfatte.

In Blood on the Forge William Attaway fa rivivere quel che accadde durante il Great Steel Strike, il grande sciopero dei lavoratori dell’acciaio del ‘19. Una restrospettiva scritta alla fine degli anni ‘30 in cui emergono gli eventi principale della storia dei lavoratori dell’acciaio di quegli anni, visti dalla prospettiva di diverse esperienze e provenienze, gli immigrati dall’Europa dell’est e gli afroamericani degli Stati del sud che venivano trasportati a Pittsburgh in camion per sostituire gli operai in sciopero.

Meridel Le Sueur, giornalista, attivista, comunista animatrice di scioperi, amica della radicale Emma Goldman, scrive per riviste come The Workers e New Masses.

Jack Conroy, originario del nord del Missouri, in quell’area denominata “Monkey Nest Coal Camp”, in una comunità di minatori di carbone descritta magistralmente nel romanzo autobiografico The Disinherited (1933). Si unisce ai Rebel Poets, un gruppo di scrittori in collegamento con The Industrial Workers of the World, diventa editor della rivista The Anvil dal 1933 al 1936, e in quel ruolo invita a pubblicare le loro opere scrittori working class tra cui Sanora Babb, Joseph Kalar, and Richard Wright.

E poi ancora Joseph Kalar, del Minnesota, figlio di immigrati sloveni e lavoratore delle cartiere che scelse di pubblicare le sue poesie solo su riviste operaie. Kenneth Patchen, originario della zona industriale Mahoning River Valley in Ohio, che nel 1936 con Before the Brave fu nominato “poeta proletario dell’anno” dalla casa editrice Random House. Tom Kromer che in Waiting for Nothing racconta la vita da disoccupato negli anni della grande depressione. Sanora Babb il cui romanzo, Whose Names Are Unknown, è ambientato durante il disatro delle tempeste di sabbia nelle grandi pianure che costrinse gli agricoltori a migrare verso la California.

Decine e decine di voci ignorate dall’industria editoriale del tempo -e non solo – la cui scrittura era atto politico, la cui sofferenza diventava volontà di riscossa e creazione di un immaginario in cui la Working Class si poteva riconoscere come parte viva, attiva di una società da cambiare. E che coglieva l’invito di Mike Gold, editor della rivista New Masses, che nell’editoriale “Go Left, Young Writers! scriveva: Non siate passivi. Scrivete. La vostra vita in miniera, stabilimento, fattoria è di interesse assoluto nella storia del mondo. Parlatecene con lo stesso linguaggio che usate nello scrivere una lettera. Potrebbe essere letteratura. Spesso lo è. Scrivete. Lottate.

Un invito valido anche oggi che è risuonato nelle tante voci che hanno animato i tre giorni del Festival della letteratura Working Class alla GKN di Campi Bisenzio. Perché. Come si è detto “La classe può ritornare al centro della narrazione. Può prendere parola, e anche la penna.”

*L’articolo riprende l’intervento introduttivo alla sessione “La letteratura proletaria degli anni ’30 in America” al Festival della letteratura Working Class tenutosi dal 5 al 7 aprile alla GKN di Campi Bisenzio.

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Ornella De Zordo

Ornella De Zordo, già docente di letteratura inglese all'Università di Firenze, e attiva per anni nei movimenti, è stata eletta due volte in Consiglio comunale - dal 2004 al 2014 - per la lista di cittadinanza 'perUnaltracittà', portando dentro il palazzo le istanze delle realtà insorgenti e delle vertenze antiliberiste attive sul territorio. Finito il secondo mandato di consigliera di opposizione ai sindaci Domenici e Renzi, prosegue con l'attività di perUnaltracittà trasformato in Laboratorio politico, della cui rivista on line La Città invisibile è direttrice editoriale.

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