La dissociazione ecologica di Eugenio Giani, Pileri: “Deluso dalla Toscana del cemento facile”

  • Tempo di lettura:6minuti
image_pdfimage_print

Paolo Pileri ha scritto un libro, “Intelligenza del suolo” (Altreconomia 2022), che passando di mano in mano è diventato una sorta di manuale di conoscenza/azione per attivisti e comitati di base, utile a chiunque voglia agire “per salvare dal cemento l’ecosistema più fragile”, come recita il sottotitolo. Professore di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, Pileri è fra i più attivi e propositivi critici della cementificazione in atto; preme, nei suoi interventi, per cambiare i modi di abitare, di muoversi, di vivere..

Professor Pileri, che sta accadendo in Toscana nella gestione del suolo?

Confesso d’essere particolarmente incattivito con Emilia-Romagna e Toscana. Perché? Perché nel quadro generale di scivolamento verso gli inferi, col cemento che sta erodendo l’Italia, avremmo bisogno di avere alcune Regioni che tirano il freno a mano, invertono la marcia e in modo ostinato mostrano che si può fare altro. Emilia-Romagna e Toscana incarnavano queste speranze. E invece… L’Emilia-Romagna l’abbiamo completamente persa. La Toscana aveva e ha fra le mani la miglior legge di contrasto al consumo di suolo esistente in Italia, la legge Marson, ma cerca di fare di tutto per non applicarla e di conseguenza non esiste un vero dibattito nazionale sul consumo di suolo e le strategie per fermarlo”.

Emilia-Romagna e Toscana sono grandi consumatrici di suolo?

L’Emilia-Romagna, secondo il Rapporto Ispra 2023, è al quarto posto in Italia, con 635 ettari consumati nell’ultimo anno. La Toscana è decima con 238. Ma per me il punto è un altro e cioè avere o non avere sulla scena nazionale delle personalità politiche che nelle riunioni fra Stato e Regioni sono in grado di portare un pensiero diverso. Niente del genere sta avvenendo. E come diceva Hannah Arendt, quando vivi in un paese libero e hai la possibilità di dissentire, se non dissenti stai di fatto cavalcando un tacito assenso”.

Come valuta la reazione politica delle due Regioni alle recenti alluvioni?

Uno zero. In Emilia-Romagna si vede il presidente, fiero di se stesso, che va da Meloni a chiedere interventi governativi, che si dice deluso per la nomina di un militare come commissario, ma continua a promettere che tutto tornerà come prima, che tutti saranno ristorati e tutto sarà ricostruito e rifatto. È subito caduta la possibilità di costruire una narrazione di diverso uso del suolo e di revisione delle politiche urbanistiche del passato. In Toscana poi abbiamo avuto una specie di manifesto alla dissociazione ecologica del pensiero politico”

Cioè?

Penso alla fotografia mostrata sui social dal presidente Eugenio Giani nei giorni dell’alluvione. Ne ho scritto su Altreconomia.it. Si vedeva la piana allagata di Campi Bisenzio, dove emergeva un’unica struttura: un cantiere per un capannone di logistica, cioè un’area da poco impermeabilizzata, un’area che fino al 2021 – basta dare un’occhiata a Google Maps – era completamente libera, agricola e in parte boscata… Se questo accade, se si mostra un’immagine piena zeppa di cemento senza rendersi conto che è proprio il cemento quel che rompe gli equilibri e il funzionamento del sistema ecologico territoriale, ovvero se si denuncia qualcosa mostrando il corpo del reato senza vederlo, vuol dire che culturalmente la tutela del paesaggio non esiste. Finché non ci sarà, mancherà anche l’elaborazione di un’idea di economia e di occupazione alternativa al solito cantiere di cemento. Si possono fare mille cose per occupare le persone nella sostenibilità. Ma non saranno prese in considerazione, finché ci sarà il “cemento facile”. Insomma, per la Toscana ho una profonda delusione, che tuttavia non deve spingerci a mollare l’osso, a smettere di lottare”.

L’opposto della cementificazione è la depavimentazione, una pratica ancora limitata, ma affascinante. Depavimentare è il nostro futuro?

Mah. Qualcuno lo sta facendo, ma è ancora poca cosa. In Italia al massimo qualche ettaro. A Prato, per esempio, c’è un sito sperimentale dell’Università di Firenze. Io stesso, negli incontri pubblici, incoraggio questa pratica, molto provocatoriamente: ragazzi, dico, liberiamo il suolo. Ma depavimentare è tutt’altro che semplice e anche molto costoso. Quando se ne parla, dev’essere chiaro che ogni progetto deve avere una sua borsa finanziaria. Sennò si rischia, come accadde tempo fa a Milano, di attivare piccoli esercizi di depavimentazione usando i soldi degli oneri di urbanizzazione. Cioè, da una parte cementifichi, poi usi una parte dei soldi per liberare suolo in un’altra zona: piuttosto che fare così, meglio stare fermi”.

Una depavimentazione corretta è possibile?

È possibile nell’ambito di un progetto pubblico vero, di ampio respiro, nazionale o almeno regionale. Quando liberi un suolo, la terra sotto è morta o poverissima e va riattivata. Se non hai fretta, puoi innescare la buona vita del suolo con compost e altri interventi, ma poi occorre aspettare qualche decennio. L’alternativa è portare sul posto suolo buono preso altrove, ma questa non è una buona strada, perché vuol dire perdere suolo da un’altra parte: sarebbe il gioco delle tre carte. Per fare un buon lavoro, bisognerebbe individuare i siti dove c’è abbondanza di suolo, con uno spessore alto, e prendere lì il necessario. Bisognerebbe testare miscele suolo compost, etc. Bisognerebbe fare ricerca su questo. Ma le istituzioni non stanno facendo a pugni per finanziare ricerche del genere e pochi stanno facendo studi su questo. La depavimentazione è un tema ancora poco concettualizzato”.

Potrebbe riguardare soprattutto l’ambito urbano?

Potrebbe servire in città e anche fuori, per esempio in certe aree industriali. In situazioni urbane troppo pavimentate, si potrebbe realisticamente trovare il modo di guadagnare spazio per prati e alberi, per realizzare piccole zone verdi, magari non eccellenti dal punto di vista ecologico, ma che sarebbero dei presìdi in città, un segno del fatto che la comunità si propone di fare spazio alla natura. Ma, ancora, ci vorrebbe una volontà politica autentica, la disponibilità a investire denaro”.

Come andrebbe immaginata una transizione ecologica urbana?

Innanzitutto, dobbiamo rendere visibile il suolo, che è uno spessore vitale e non una superficie per appoggiare qualcosa. Quindi bisogna partire da un lavoro culturale disvelatorio. Parallelamente occorrono azioni come la depavimentazione, e anche di rigenerazioni fatte con criterio, di azioni che aumentano il valore ecologico del territorio. Però non è meno importante togliere ciò che esaurisce questo valore ecologico. Non possiamo limitarci a piantare alberi, ammesso che lo facciamo; dobbiamo anche togliere automobili e togliere spazi che loro occupano. Con urgenza. Abbiamo bisogno di ridurre in modo drastico la mobilità veicolare privata in tutte le situazioni in cui possiamo farlo. È un passaggio ineludibile, che implica la rinuncia all’auto per portare i figli a scuola o per fare la spesa se la distanza è breve. Può essere più faticoso, meno comodo, antipatico, ma dobbiamo trovare meccanismi che permettano di ridurre gli spostamenti guadagnando spazio da restituire alla natura, e di spingere la cittadinanza verso stili di vita virtuosi. Ma per raggiungere questo obiettivo, è necessario impostare un programma culturale profondo, perché non bastano gli incentivi, le detrazioni, tutti meccanismi che sono nella logica di mercato. La parola che non vogliamo usare è: limite. Invece, dobbiamo darci collettivamente dei limiti, altrimenti saranno guai”.

The following two tabs change content below.

Lorenzo Guadagnucci

Lorenzo Guadagnucci è stato fra i fondatori del Comitato verità e giustizia per Genova e del gruppo Giornalisti contro il razzismo. Nel 2008 pubblicò "Lavavetri" (Terre di mezzo). I suoi ultimi libri: "L'eclisse della democrazia" (con Vittorio Agnoletto, Feltrinelli 2021), "Camminare l'antifascismo" (Gruppo Abele Edizioni 2022)

2 commenti su “La dissociazione ecologica di Eugenio Giani, Pileri: “Deluso dalla Toscana del cemento facile””

  1. Tutto molto condivisibile, il suolo non è facilmente rinnovabile e perderlo a 2m2 al secondo in Italia non è accettabile. Occorre ragionare su rigenerazione che implica la ricolonizzazione (il suolo ospita il 60% di specie della terra!) ma anche su pavimentazioni (veramente) drenanti e movimentazioni terra (es i vigneti) che preservino almeno lo strato superficiale del suolo che è il più ricco di vita. Consiglio a chi interessato all’ argomento di seguire i lavori del centenario della fondazione della International Union of Soil Science che si terranno proprio a Firenze dal 19 al 21 maggio prossimi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Captcha *