I viaggi di Cook e la storia dei tatuaggi

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Il tatuaggio è un protagonista dei nostri tempi, con una diffusione che non conosce flessioni, anzi è in progressivo aumento, sia numerico che relativamente alla varietà stilistica dei pattern. Un fenomeno tanto esteso merita una lettura che oltrepassi la valenza puramente estetica che spesso gli viene attribuita. L’esperienza del tatuaggio, che implica la trasformazione personalizzata e permanente del proprio corpo, e dunque del proprio aspetto, è carica di significati, di motivazioni e di scelte simboliche, magari differenti col passare del tempo e tra le varie culture ma leggibili in ogni caso come percorso sociale di comunicazione.

Al tatuaggio saranno dedicati alcuni articoli, dove verrà affrontata la storia di questa pratica, la sua diffusione nel mondo in vari periodi, la frequenza e lo stile nei popoli, l’interpretazione dei significati laddove sia nota. Tuttavia l’analisi storica o etnologica non ha certamente lo scopo di interpretare il fenomeno nella società moderna. Il tatuaggio attuale porta con sé delle forme di consapevolezza che prescindono, almeno in parte, dai significati del passato.

Fino alla fine del ‘700 era sconosciuta la parola tatuaggio, ma questo non significa affatto che la pratica non fosse nota anche da noi. Gli inglesi lo chiamavano semplicemente pricking, pungere. L’introduzione della parola tatuaggio si deve al capitano della Marina inglese James Cook che, nel giugno 1769, a bordo dell’Endeavour, partì alla volta di Tahiti per conto di re Giorgio III d’Inghilterra. La missione aveva lo scopo di registrare il transito di Venere davanti al Sole e tentare di provare l’esistenza della Terra Australis. A Tahiti Cook e il suo equipaggio ebbero modo di entrare in contatto con i nativi polinesiani, e i loro vistosi tatuaggi tradizionali non passarono certo inosservati. I diari e i resoconti di Cook e di Joseph Banks, nella spedizione come naturalista e per la Royal Society di Londra, raccontano di Tahitiani che decoravano i corpi pungendosi la pelle con strumenti appuntiti, fatti di osso o di denti di animali. Sulle incisioni apponevano un pigmento scuro ottenuto dalla carbonizzazione di una pianta. La pratica veniva chiamata dai nativi tattaw ed era tanto diffusa da essere eseguita sui bambini già dai 10 anni in poi. Quando poi l’equipaggio, lasciata Tahiti, ebbe modo di incontrare i Maori della Nuova Zelanda, la curiosità fu irrefrenabile. I Maori infatti usavano tatuarsi l’intera faccia a formare disegni geometrici che nel complesso gli conferivano un’aria terrifica (tatuaggio detto Moko). L’origine, a ben vedere, è allo stesso modo polinesiana, in quanto i Maori sono polinesiani che arrivarono verso il X secolo in Nuova Zelanda, sconfiggendo e annientando i Moriori, gli abitanti originari. Il Moko, il tatuaggio facciale, era praticato per incutere terrore sui nemici, un modo per rimarcare la loro indole di guerrieri.

Il primo incontro europeo col tatuaggio diffuso su grandi zone del corpo avvenne tuttavia a Tahiti. Disegni geometrici e a spirale erano tatuati sulle gambe, sulla schiena e sulle braccia dei nativi, con differenze tra le varie comunità, tra uomini e donne, tra membri di differenti ceti sociali. A volte i disegni erano figurativi, con raffigurazioni di animali, fiori, ecc. La figura del tatuatore era di importanza fondamentale. Non era apprezzata solo la sua abilità ma lo si riteneva depositario di una sapienza spirituale, socialmente riconosciuta. Forse tattaw o tatau era il nome dello strumento usato per pungere o forse era onomatopeico del rumore del martellare sulla pelle; in ogni caso la parola rimbalzò in Inghilterra e divenne di uso comune come tattoo, tradotto in seguito nel francese tatouage, nello spagnolo tatuaje, nel tedesco Tätowierung, nell’italiano tatuaggio, giusto per citare alcune tra le lingue europee.

Da uno dei suoi viaggi, nel 1774 il capitano Cook portò in Inghilterra un giovane polinesiano di nome Mai, chiamato Omai dagli inglesi. Era nativo di Raiatea, nelle Isole della Società della Polinesia, e con i suoi tatuaggi catturò l’interesse generale. Durante il suo soggiorno londinese, incontrò svariate personalità inglesi e girò in lungo e in largo per soddisfare il fascino per l’”esotico” e per il “selvaggio”, tanto caro alla cultura colonizzatrice del tempo. Un paio di anni più tardi fu riportato nel suo paese, dove morì poco dopo. Di lui rimane un famoso ritratto dell’artista Jeoshua Reynolds, che lo dipinse con una tunica lunga a coprire il corpo ma con le mani tatuate bene in vista.

Furono dunque i marinai inglesi al seguito di Cook in Polinesia i primi ad apprezzare il tatuaggio, che cominciarono a chiedere ai nativi di praticarglielo, sprezzanti del dolore che gli procurava. Gli approdi a Tahiti divennero nel tempo più frequenti, così come il numero di marinai che nel tempo si facevano tatuare. La trasformazione avvenuta nella seconda metà del ‘700 nel Regno Unito, in seguito alla rivoluzione industriale, vide la nascita di nuove classi sociali, nonché uno sviluppo delle città e un consistente aumento demografico. Con la produzione industriale aumentarono le esportazioni di merci tramite navi, con viaggi anche molto lunghi verso paesi lontani.

Per i marinai il tatuaggio rappresentò una consuetudine per occupare il tempo, a bordo delle navi o nei porti di approdo. Al ritorno in patria, i marinai frequentavano di norma gli stessi luoghi, taverne, mercati, bische, degli operai delle fabbriche o delle miniere, ai quali mostravano le loro opere disegnate sulla pelle. Si sa che le novità, quando incontrano gradimento, corrono velocissime, e disegnare il corpo con tatuaggi geometrici o simbolici, date e nomi di persone care, cuori infranti o trafitti, ancore, croci, figure di animali e molto altro divenne presto pratica comune non solo tra i marinai.

Tuttavia, dal momento che il tatuaggio andava diffondendosi in maniera più incisiva tra gli avventurieri e dentro le carceri, finì per rappresentare una sorta di marchio sociale dall’immediata riconoscibilità. Ai tatuati erano associate una serie di caratteristiche morali che scatenarono le ire dei religiosi, che li vietavano come peccaminosi. Ma il divieto, come sempre avviene, finisce per amplificare il fenomeno, e il tatuaggio continuò a imporsi sempre di più come fenomeno sociale.

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Maria Gloria Roselli

Curatrice del Museo di Antropologia ed Etnologia dell'Università di Firenze. L'oggetto delle sue ricerche privilegia la storia delle collezioni e dei collezionisti, in modo particolare in relazione con l'Oriente. Si occupa di conservazione, riordino e valorizzazione del patrimonio fotografico storico del Museo, svolgendo ricerche su tecniche e storia dell'archivio del Museo.

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