Anatomia della costruzione nel contesto europeo
Nel 1884 la Convenzione di Berlino dà formalmente il via alla spartizione del Continente africano. Diviene prassi accettata e legittimata quella di soggiogare popoli, controllare territori sfruttandone le risorse e imporre sistemi politici stranieri: ha inizio il colonialismo europeo. In meno di un secolo un enorme continente viene colonizzato, assoggettato e trasformato sulla base dei saperi e dell’organizzazione politico-economico-istituzionale dagli imperi occidentali del tempo, e successivamente, liberato, decolonizzato ma comunque per sempre legato ai saperi e all’organizzazione politico-istituzionale occidentale, costretto a una condizione subalterna a livello di politica ed economia internazionale.
Nonostante la brevità del momento insomma l’impatto del colonialismo è devastante da moltissimi punti di vista, e lo è anche, se non soprattutto, per il bagaglio di conoscenze che si trascina dietro, che determina e impone la creazione di concezioni del tutto nuove sulle tradizioni e le culture africane. Questo complesso di discorsi relativi al Continente, sviluppatosi precedentemente e radicatesi durante il colonialismo, rappresenta quella che il filosofo congolese Valentin Mudimbe in L’invenzione dell’Africa definisce la “biblioteca coloniale”, intendendo appunto l’insieme delle conoscenze sull’Africa, filtrate da una lente europea, spiccatamente colonialista e imperialista, che alimenta e mantiene le convinzioni di superiorità del sapere e delle culture occidentali.
Per comprendere la formazione della cosiddetta invenzione dell’Africa, come surrogato dell’Occidente, bisogna andare indietro nel tempo ed analizzare la costituzione e il modellamento dell’epistemologia occidentale durante l’illuminismo. Il Settecento è il periodo in cui si consolidano il metodo scientifico, la sua applicazione e la concezione di progresso e civiltà come fatto lineare, secondo una scala di valori che si basa rigorosamente sul sapere eurocentrico. È in questa fase storica che vengono elaborate le prime teorie pseudo-scientifiche, le quali affermano l’esistenza di diverse razze umane, poste su una scala gerarchica, al cui vertice vi sono ovviamente i bianchi, cristiani e civilizzati e alla cui base vengono posti i neri, pagani e selvaggi. Da qui in avanti il concetto di razzismo viene legittimato e applicato, sostenuto da prove che all’epoca vengono considerate leggi scientifiche.
All’interno di questa cornice la Chiesa rappresenta una dimensione determinante all’avvento e al successo del progetto coloniale. La morale cristiana e la conseguente opera missionaria si offrono come giustificazioni convincenti e come apripista alla “necessaria” violenza della dominazione straniera sui territori dell’Africa.
Nel corso del Settecento un gran numero di esploratori occidentali partendo dalle zone costiere, già in precedenza battute, si inoltra verso le terre interne al Continente; i viaggiatori riportano in patria resoconti e dettagliati diari dei loro viaggi. Questi reportage non fanno altro che alimentare e cristallizzare l’insieme di credenze che si stavano formando in Madrepatria su ciò che rappresentava e doveva rappresentare l’alterità: l’opposto di ciò che era europeo e per questo sbagliata, inferiore, indegno. Gli avventurieri svolgono dunque una doppia funzione: tratteggiano le mappe dei territori che esplorano (successivamente determinanti per l’usurpazione coloniale) e delineano un’immagine dell’Africa esotica e infida, una terra vergine da penetrare, abitata da popoli barbari, da selvaggi inconsapevoli. È proprio attraverso l’insieme di questi scritti che si consolidano quei miti che legittimano la futura conquista.
Un altro elemento determinante per spiegare come il colonialismo europeo sia riuscito a trasformare e organizzare aree del mondo non europee in costrutti sostanzialmente europei è la dimensione economica.
Lo stretto legame economico con il mondo occidentale inizia nel 1500, quando i primi cercatori d’oro e le prime compagnie commerciali si insediano in Africa. Da quel momento, nel corso dei secoli successivi l’Europa assoggetta con prepotenza utilitaristica il Continente al sistema capitalista, sfruttando e deturpando le sue ricchezze. Negli anni Sessanta del Novecento le lotte per l’autodeterminazione, la decolonizzazione e il raggiungimento dell’indipendenza dal giogo coloniale (anche se purtroppo ancora parziale) garantiscono all’Africa di entrare all’interno della comunità internazionale, ma la posizione di totale subalternità che l’Europa aveva costruito per lei, non muta. Gran parte del mondo tutt’oggi, in particolare l’occidente, continua a considerare il Continente come luogo privo di un background storico solido, incapace di attuare e mantenere progetti di sviluppo sostenibile o di assicurare la conservazione di sistemi di governo democratici, afflitto da costanti guerre ed esposto a catastrofi naturali ed epidemie.
Per meglio comprendere la rilevanza della dimensione economica all’interno del colonialismo, è bene andare più a fondo nell’analisi, facendo un focus sulla seconda parte del XIX secolo, quando si è realizzata la coesistenza tra l’ideologia imperialista e lo svilupparsi di processi economico-politici finalizzati all’ampliamento del controllo di nuovi spazi su cui poter espandere il modello economico capitalista. Nell’opera Imperialism del 1902 lo studioso leninista J. A. Hobson teorizza una relazione diretta tra la corsa per la spartizione del Continente e la naturale necessità di espansione e ottenimento di profitti sempre più elevati del sistema capitalistico.
Secondo Valentine Mudimbe, per risultare efficace il colonialismo ottocentesco ha dovuto elaborare un corpus di conoscenze sui mezzi di sfruttamento delle terre colonizzate. Inoltre ha dovuto progettare una specifica tecnica empirica per realizzare il rapporto di subalternità necessario a garantire il pieno controllo delle colonie, attraverso quattro postulati politici fondamentali: la completa priorità alla rivoluzione industriale su quella agricola; la promozione di tutti i settori dell’industria, preferendo quella bellica; la predilezione per le importazioni a discapito del sistema economico nel suo insieme; la promozione del settore dei servizi. Questo complesso di politiche ha messo in moto il processo di sottosviluppo e dipendenza generatosi ovunque il colonialismo si sia affermato. Come la definisce il filosofo congolese, la struttura colonizzatrice ha provocato la costruzione di culture, società ed esseri umani marginali. Questo è avvenuto seguendo la concezione filosofica occidentale che concepisce la realtà in termini dicotomici, producendo opposizioni paradigmatiche quali, il concetto di tradizione in antitesi a quello di modernità, il sistema di trasmissione orale in opposizione a quello scritto e stampata, e ancora, la completa differenza tra comunità agricole e consuetudinarie e organizzazioni economiche altamente produttive. Ma l’applicazione del sistema di pensiero dicotomizzante, che ha l’obiettivo primario di trasformare le strutture “primitive” africane in moderne istituzioni occidentali e i suoi abitanti da “bruti selvaggi” in cittadini civilizzati, provoca risultati imprevisti: l’originarsi di spazi intermedi che producono marginalità. Il modello capitalista, enfatizzando la formazione di tecniche di cambiamento economico, suppone che attraverso la sua applicazione si possa passare da una condizione, concepita in termini occidentali, come arretrata e primitiva, a una condizione di progresso e civiltà, senza prevedere che l’applicazione di un sistema estraneo, impiegato in contesti organizzati in modo totalmente differente da quello europeo, possa provocare l’originarsi di uno spazio intermedio in cui gli eventi economici e quelli sociali definiscono il livello di marginalità. Un esempio concreto per rendere più chiaro il concetto: la trasformazione economica da sistema di produzione locale e tradizionale a produzione industriale, basata su una nuova divisione del lavoro, dipendente dai mercati internazionali, ha determinato la progressiva distruzione dei settori tradizionali dell’agricoltura e dell’artigianato africani, condannando il continente alle dipendenze dell’economia internazionale.
Per mezzo degli elementi sopra descritti si origina l’immensa giustificazione che il Vecchio Continente adotta per assicurarsi una completa libertà d’azione, svincolata da ogni confine etico, di usurpazione violenta delle terre e controllo sulle persone che le abitano. L’idea che sta alla base della suddetta giustificazione è una condizione “naturale” di superiorità evolutiva che i popoli caucasici e cristiani, rappresentanti della modernità, possiederebbero rispetto ai primitivi e pagani popoli africani; questi ultimi, oltretutto, secondo la morale cristiana, beneficeranno della sottomissione potendo essere “salvati” attraverso la conversione al cristianesimo e l’imposizione di un sistema di organizzazione sociale e politico di stampo europeo.
Gli europei, insomma, durante l’esplorazione dell’Africa e il successivo dominio, non fanno altro che ricalcare e applicare concezioni e conoscenze che si limitano al punto di vista occidentale. Si tratta di una metodologia che l’occidente ha sempre utilizzato per definire l’Altro straniero, l’Altro da colonizzare. Attraverso l’epistemologia europea è stato costruito anche il concetto di orientalismo, che Edward W. Said, accademico, scrittore, attivista politico, critico letterario americano-palestinese, definisce come un’idea, un costrutto culturale occidentale, che esiste a prescindere da ogni analogia o assenza di conformità con l’Oriente “materiale”. Il costituirsi e lo svilupparsi di idee, culture e fatti storici non possono essere compresi pienamente se non si tiene conto dei rapporti di forza in essi sottesi. Dunque di fatto, la relazione tra Occidente e Oriente è una questione di egemonia, di dominio, di contorte e stratificate forme di potere. L’Oriente è stato orientalizzato non soltanto perché lo si è trovato “orientale”, riferendoci al senso che tale aggettivo possedeva per gli europei del tempo, ma specialmente perché si è avuta la possibilità di renderlo orientale; non attraverso il consenso dei suoi popoli, ma appunto per mezzo del complesso di forze che caratterizzavano il rapporto tra il mondo occidentale e quello orientale, e il discorso che si andava costituendo di conseguenza su quest’ultimo.
È però importante precisare che l’insieme dei saperi che formano il concetto di orientalismo non sono affatto un complesso di miti e bugie, ma neanche l’insieme di fatti oggettivi, bensì sono e rappresentano l’espressione del dominio euroamericano, del rapporto di potere tra i due mondi. Esso non è frutto dell’immaginazione europea sull’Oriente, ma di un preciso corpus teorico e pratico nel quale, nel corso del tempo, l’Occidente ha compiuto un ingente investimento materiale, fino al punto in cui l’orientalismo è entrato così profondamente nella coscienza, prima europea e poi americana, da diventare l’unico sistema di conoscenza attraverso cui gli occidentali leggevano l’Oriente. Il perdurare e la forza di questo sapere, cristallizzatosi nel tempo, è stato possibile grazie alla realizzazione dell’egemonia culturale, compiuta in primis attraverso il colonialismo. L’epistemologia europea si struttura, si consolida e fortifica anche grazie al concetto di orientalismo, che permette la costruzione di un’idea di Europa concepita come un “noi”, in antitesi alle altre culture e agli altri popoli non europei, concepiti come “altro da noi”. Lo scienziato, l’esploratore, il missionario, l’umanista, il comandante o il mercante potevano andare in Oriente o semplicemente raccogliere su di esso ogni genere di informazione senza trovare ostacoli alla proiezione e al consolidamento del bagaglio di saperi e preconcetti che già possedevano su di esso. In questo modo è stato possibile alimentare l’idea di superiorità europea rispetto a quell’alterità definita come immanente, inferiore, selvaggia.
La concatenazione dei fattori sopra descritti rappresenta parte della spiegazione del perché tutt’oggi i saperi sull’Africa subiscono ancora l’appiccicosa etichetta di “Altro”, inteso come qualcosa di diametralmente opposto a ciò che è europeo.
Sebbene il colonialismo occidentale si sia trasformato, acquisendo forme spesso più subdole dell’imperialismo di un tempo, e dagli anni Sessanta molti studiosi, in particolare nell’ambito delle discipline storiche e antropologiche, si siano dedicati all’elaborazione e alla valorizzazione di nuovi metodi di indagine per il riconoscimento accademico del valore delle culture e della storia del continente africano, lo stigma dell’alterità continua a tormentare gli abitanti dell’Africa, coloro che vi sono nati o vi discendono. Nel corso del tempo molte delle rappresentazioni nate prima e durante l’epoca coloniale si sono cristallizzate nell’immaginario collettivo della contemporaneità. Nonostante il raggiungimento dell’indipendenza e il riconoscimento internazionale di una potenza identitaria, riscontrabile nei movimenti che hanno supportato l’emancipazione, come la negritudine, il panafricanismo, e il nazionalismo africano, l’Africa e gli africani rimangono ancora legati all’immagine distorta che la tratta atlantica e il colonialismo hanno costruito per loro.
Il raggiungimento dell’indipendenza nazionale non è bastato per demolire le idee e i pregiudizi germogliati e radicatisi nel tempo, che alterano l’immagine del Continente rendendolo fruibile, mera merce agli occhi del mondo occidentale.
Oggi senegalesi, kenioti, ivoriani, eritrei, somali, ghanesi, camerunensi, nigeriani e via dicendo subiscono lo stesso stigma. E in modo ancora più accentuato lo subiscono coloro che partendo dalla terra d’origine e giungendo in Europa, rientrano nel travagliato concetto di migrante. La persona proveniente dall’Africa non solo rientra in quell’immaginario collettivo costruito dall’occidente, ma la sua posizione e il suo ruolo sociale vengono aggravati materialmente dalle politiche pubbliche, dal sistema mass-mediatico e dalle pratiche discriminatorie concretizzate all’interno delle istituzioni.
Concludo riportando una citazione del filosofo e docente sudcoreano Byung-Chul Han, il quale in L’espulsione dell’Altro sostiene la quasi totale scomparsa nel mondo globalizzato occidentale dell’alterità come enigma, dell’Altro come mistero; «L’altro è ora interamente sottomesso alla teleologia dell’utile, del calcolo e della valutazione economica. È diventato trasparente, degradato a oggetto economico. L’Altro come enigma si sottrae a ogni sfruttamento». Secondo Han sono proprio i rapporti neoliberisti di produzione a causare un’espansione patologica dell’io che viene efficacemente utilizzata per incrementare la produttività. L’Altro africano è stato costruito e tutt’ora si costruisce attraverso l’epistemologia occidentale come Altro inferiore.