Il contesto italiano: identità nazionale, colonialismo e immigrazione
A partire dalla dissoluzione dell’impero italiano in Africa e nel corso dei trent’anni successivi la classe dirigente e i maggiori esponenti politici operano affinché vengano occultate le responsabilità coloniali italiane. Alla società civile, già largamente influenzata da questo tipo di retorica culturale, viene offerto un revisionismo storico che deresponsabilizzava la Penisola da qualsiasi azione e imposizione violenta sui colonizzati e sulle terre espropriate, ergendo l’Italia a vittima ferita e penalizzata da decisioni europee.
Negli ultimi decenni molti studiosi si sono battuti nel tentativo di scardinare il mito degli “italiani brava gente”, proponendo autorevoli ricerche che mostrano quanto il colonialismo italiano fosse tutt’altro che mite e tollerante. La necessità di superare il revisionismo storico e la crescente attenzione verso questi ambiti di ricerca hanno messo in luce il portato criminale, l’assetto razzista e paternalista delle amministrazioni coloniali, il processo di autorappresentazione e formazione dell’identità nazionale italiana basato sul progetto coloniale.
Ancora prima che la Penisola venga unificata il potere centrale pone le fondamenta per la costruzione dell’italianità attraverso il confronto con l’alterità; prima interna, il meridione, e successivamente esterna, con il confronto con culture e popoli non occidentali. Dunque il razzismo, nonostante la narrazione autoassolutoria, costituisce fin dall’inizio un elemento centrale nella costruzione dell’identità italiana. Di conseguenza i principi e l’organizzazione intorno ai quali viene fondata l’Italia come nazione sono pregni di concetti come razza, razzismo e razzializzazione.
Prima di indirizzare lo sguardo paternalistico e denigratorio verso l’alterità africana però, europei e italiani settentrionali elaborarono procedimenti materiali ed epistemici sul meridione. Durante l’ottocento viene costruita un’immagine del Mezzogiorno come rappresentante dell’alterità rispetto al progresso e alla modernità europea. La realizzazione di un’immagine dell’Italia del sud pittoresca e primitiva si radica a cavallo tra Diciottesimo e Diciannovesimo secolo tramite il continuo incontro di pregiudizi e stereotipi diffusi dall’elites europee nel corso e dopo il Grand Tour. Il sud della penisola viene visto dalla classe dirigente dell’Europa come un vero e proprio “paradiso abitato da diavoli”. Allo stesso modo in cui l’Occidente elabora l’orientalismo costruendo precise rappresentazioni per soggiogare popoli e culture diverse, l’Italia e l’Europa costruiscono un’immagine in negativo del meridione per poterlo sottomettere e inglobare. Il Risorgimento italiano garantisce simultaneamente la liberazione dal giogo esterno e l’inizio della colonizzazione interna. In poche parole, quello che subiscono le popolazioni del Mezzogiorno mentre pezzo dopo pezzo vengono annesse al nascente stato italiano somiglia sorprendentemente alle azioni e procedure riservate ai popoli eritrei, somali, etiopi e libici nel corso del colonialismo italiano. Partendo dalla dipendenza economica fino al disprezzo nei confronti dei valori, degli stili di vita e delle culture appartenenti al Sud del mondo, passando per la spietata repressione durante l’annessione delle terre, il colonialismo italiano interno ricalca quello esterno e occidentale.
Dopo circa un ventennio dall’unificazione, il lavoro di razzializzazione delle genti meridionali dà i suoi frutti, permettendo all’Italia di avvicinarsi agli stati incarnanti la modernità europea. Negli anni Ottanta dell’Ottocento però la monarchia italiana deve andare oltre, ridimensionando le questioni interne, per spostare l’attenzione su altri tipi di alterità e potersi unire allo scramble for Africa. Da quel momento, in modo analogo alla costruzione dell’inferiorità degli abitanti del Mezzogiorno, la modernità, la civiltà e il progresso italiano vengono contrapposti all’arretratezza, all’inciviltà e alla barbarie africana. Aggettivi utilizzati fino a quel momento per caratterizzare i nativi meridionali vengono adesso semplicemente traslati verso l’esterno per descrivere i nativi africani. Gli oziosi, gli sporchi, gli ignoranti divengono gli eritrei, i somali, i libici e gli etiopici.
Fino agli anni Sessanta del Novecento, periodo in cui molti stati africani raggiungono l’indipendenza liberandosi in parte dal giogo occidentale, lo sterminato Continente viene percepito dall’esterno come spazio privo di storia. La visione etnocentrica ed eurocentrica della storiografia dominante lega l’interpretazione di eventi, progresso e civilizzazione dei popoli e dei nascenti stati africani all’arrivo e all’operato dell’Occidente. Il processo di decolonizzazione però permette l’avvento di cambiamenti rivoluzionari nell’approccio metodologico alla storiografia africanista: molti studiosi, africani e non, iniziano a interessarsi profondamente a meccanismi culturali, politici e sociali delle realtà africane pre-coloniali. Da questo momento inizia a indebolirsi l’idea cristallizzatasi nel tempo di un’a-storicità e un presunto immobilismo africano, che legava gli studi a una prospettiva antropologico-eurocentrica; al suo posto si moltiplicano e rafforzano le voci e le prospettive sulla storia del Continente. Finalmente gli storici africanisti acquistano importanza e vengono riconosciuti sul piano internazionale come studiosi autorevoli; si sviluppano nuovi metodi storiografici più indicati allo studio delle fonti africane e iniziano a essere riconosciute, come documenti attendibili, le fonti orali: saperi, conoscenze, storie tramandate di generazione in generazione attraverso la narrazione.
La spinta innovatrice, che caratterizza la fine dell’occupazione straniera e l’avvento delle indipendenze africane, non determina però la decostruzione delle rappresentazioni sul Continente. In particolare l’Italia, a differenza di altri stati europei che affrontano e riconoscono parte delle responsabilità coloniali aprendosi a un’ampia riflessione sul passato imperialista, si sottrae, favorendo la rimozione delle colpe e incentivando la falsificazione della memoria degli eventi che hanno percorso l’occupazione; di fatto il Bel Paese ostacola la ricerca storica relativa al periodo coloniale.
Come già esposto in precedenza, negli anni dello Scrumble for Africa l’Italia è uno stato-nazione appena nato, ancora fragile sotto vari punti di vista, in particolare il senso di identità nazionale dei suoi cittadini. La strategia che il giovane Stato tenta è quella di costruire parte dell’italianità edificando un’alterità coloniale, un’alterità oltremare, quella africana. Per farlo crea, alimenta, rafforza codici narrativi e simboli. L’impresa coloniale italiana, che si articola tra il regno umbertino e la dittatura fascista, si nutre per la sua riuscita di immagini forti e trainanti, che stimolino mobilitazione e consenso. L’Italia necessita di forgiare una “coscienza coloniale” (cosa che per altro non riesce a realizzare), di elaborare rappresentazioni e una retorica capaci di cancellare l’alterità interna, in favore di un’alterità esterna costruita ad hoc: l’Atro coloniale.
Questo processo provoca la progressiva “scomparsa” dell’Africa “reale”, sostituita da un’Africa-icona, stereotipata e patinata oppure ancestralmente feroce, a seconda dei bisogni dello Stato, delle esigenze e delle carenze identitarie del momento. Le campagne coloniali infatti sono accompagnate dalla realizzazione di una vera e propria produzione iconografica. Le prime foto scattate e riportate in patria dai soldati hanno il preciso fine di mostrare le vittorie italiane; i nativi compaiono solo come figure sullo sfondo. Il fulcro delle immagini non sono né l’Africa, né tantomeno gli africani, bensì i soldati italiani. Allo stesso modo in cui i briganti (o resistenza) nel meridione venivano rappresentati, in pose artefatte, rigidi e in soggezione, vengono immortalati i nativi eritrei, somali, libici. Per ribadire il concetto: Il periodo che compone la prima guerra d’Africa è proiettato a livello ideologico come una dilatazione della retorica iconografica del Risorgimento.
È già in questa fase inoltre che l’Italia mette in pratica una metodologia che tanto utilizzerà nel suo futuro repubblicano: la rimozione di eventi storici riguardanti le azioni coloniali. Il primo esempio fra i più eclatante è la battaglia di Adua del 1896, quando l’esercito italiano sbaragliato sul campo della resistenza etiope fallisce miseramente il tentativo di assoggettamento del Regno del Negus; la reazione dell’Italia umbertina all’umiliante sconfitta è quella di tentare di cancellarne e falsarne la memoria. Nel periodo successivo, durante gli anni della dittatura fascista, il regime prosegue nel distorcimento del medesimo evento, elaborando una memoria-vendetta con l’obiettivo di incentivare mobilitazione e consenso: vendicare la sconfitta tramite l’assoggettamento dell’Etiopia.
La battaglia di Adua sancisce dunque uno spartiacque tra le prime rappresentazioni e narrazioni degli africani, dipinti come sudditi fedeli, pacati selvaggi da civilizzare, e la successiva costruzione di un immaginario che li delinea invece come esseri vili e feroci, infidi e primitivi traditori.
Con l’avvento del fascismo, tramite una costante azione propagandistica e un forte coordinamento centrale, viene completata l’immagine di un’Africa artefatta, strumento efficace per il mantenimento del potere e dell’occupazione coloniale. Dal 1925 al 1935, anno della conquista dell’Etiopia, l’Italia fascista plasma la sostanza di un immaginario coloniale che persiste tutt’oggi. La rappresentazione dell’alterità africana viene progressivamente adattata a realtà virtuale, costruita, “inventata”; l’Africa come una vetrina, da poter esporre nei musei e alle fiere. L’Africa-icona che presta servizio all’Italia imperiale, la quale ritrova sé stessa e il suo senso di identità nella creazione di un’alterità, fatta di stereotipi e miti che ancora oggi attanagliano il senso comune degli italiani “brava gente”.
Il mancato dibattito sul colonialismo mantiene e alimenta nel tempo saperi e credenze, non permette lo sviluppo di un soddisfacente pensiero critico da parte della società civile, influenza le scelte politiche nei confronti delle ex-colonie, Eritrea, Libia, Somalia ed Etiopia, che determinano inadempienze e ritardi nel tentativo di risarcire, almeno in piccolissima parte, gli efferati crimini compiuti durante l’occupazione. Insomma la classe dirigente della neonata Repubblica si sottrae all’elaborazione di un dibattito pubblico sulle responsabilità del colonialismo. A rafforzare il radicamento di miti e saperi falsati sono gli avvenimenti storici: l’Italia rinuncia al suo impero coloniale firmando il Trattato di Parigi del 1947. Il mancato processo di decolonizzazione attraverso guerre coloniali in cui la periferia si ribella alla metropoli determina una percezione atipica del colonialismo italiano, sia nel dibattito pubblico nazionale, in cui non si sviluppa fino a tempi recenti una soddisfacente analisi in merito, sia nel dibattito internazionale ed europeo. L’Italia rinuncia al dominio politico delle colonie in quanto il regime fascista è fra i perdenti della Seconda guerra mondiale e di conseguenza gli italiani non assistono a guerre per l’indipendenza di luoghi sotto il diretto controllo del loro Stato. Il risultato è la mancata formazione di una coscienza critica e di un dibattito pubblico in merito alle responsabilità coloniali e post-coloniali della Penisola.
Fortunatamente, a partire dalla fine degli anni Settanta, gli studi sul colonialismo italiano iniziano a progredire, divenendo un tema sempre più rilevante per compiere ricerche sul passato e il presente degli stati africani coinvolti e dell’Italia. Studiosi emeriti come, Enrico Serra, Giorgio Rochet, Alessandro Triulzi, Itala Vivan, Angelo Del Boca elaborano importanti ricerche in merito. Grazie ai loro studi e alle loro opere questi autori contribuiscono alla formazione di nuovi metodi di ricerca che offrono prospettive alternative per interpretare il colonialismo italiano e di conseguenza smascherare le colpe e i crimini dell’Italia, giolittiana, fascista e repubblicana. Anche se tutt’oggi, nonostante gli sviluppi e l’attenzione crescente a questi temi, i risultati sono parziali e leggende e rimozioni caratterizzano ancora il senso comune della società, come il mito dell’italiano più umani, tollerante con i nativi rispetto ai coloni provenienti da altri stati europei. Lo storico Angelo Del Boca sostiene che la volontà della classe dirigente italiana di occultare la violenza diffusa e capillare dell’esercito e delle amministrazioni coloniali italiane derivino dal bisogno di riabilitare l’immagine nazionale dopo la dittatura fascista. Il risultato, come già ribadito più volte, è rappresentato dalla rimozione storica di eventi atroci e di usurpazione di materie prime, libertà individuali e collettive. Diviene dunque ancora più importante raccontare la cruda realtà dei fatti, diventare testimoni ogni qualvolta sia possibile per permettere il radicamento di una memoria storica veritiera. L’Italia non è mai stata meno violenta degli altri imperi coloniali nel trattare le popolazioni indigene e, anzi, probabilmente la sua violenza, prendendo in analisi la brevità dell’occupazione italiana, è stata molto più efferata che in altri contesti. Riporto alcuni agghiaccianti dati e fatti che hanno caratterizzato le politiche italiane in Africa: tra il 1911 e il 1932 l’esercito e l’amministrazione coloniale italiani uccidono circa 28.000 libici; e ancora, in soli sei anni di occupazione, tra il 1935 e il 1941, vengono uccisi tra i 300.000 e i 400.000 etiopi. Un eccidio. Nel corso dell’occupazione l’Italia costruisce un numero ingente di campi di concentramento in Somalia, Eritrea e Libia all’interno dei quali non vi è alcuna garanzia di sopravvivenza. Nel 1937 l’amministrazione coloniale italiana in Etiopia conduce un’operazione, definita poi “il massacro di Debra Libanòs”, come rappresaglia al fallito attentato al generale Graziani (anche detto Macellaio del Fezzan); tra il 21 e il 29 maggio vengono trucidate 1200 persone, tra preti e diaconi della Chiesa Copta.
Negli anni Novanta, con un discreto ritardo rispetto ad altri stati europei si sviluppa in Italia una valida letteratura post-coloniale; il tema della cittadinanza diviene un ambito importante da indagare. Lo ius sanguinis rappresenta un esempio mirato che svela quanto il passato coloniale italiano sia connesso alle scelte politiche attuali. Attraverso queste ricerche si comprende facilmente come il percorso legale per il conferimento della cittadinanza sia ancora impantanato in un’idea ambigua di italianità basata su principi razziali di tipo biologico. Gli studi sul razzismo italiano permettono di riconsiderare le radici imperiali e coloniali del razzismo e di mostrare come il concetto di razza sia ampiamente legato a processi culturali e sociali di razzializzazione, sviluppatisi nel corso di precisi momenti storici, spesso per rafforzare l’identità interna, grazie all’utilizzo di convenzioni narrative specifiche all’interno del discorso mediatico e politico. Le condizioni delle comunità immigrate in Italia sono ancora oggi fortemente influenzate da questi processi, come allo stesso tempo lo sono i concetti su cui si basano l’idea di italianità e la concezione di appartenenza nazionale. La xenofobia di oggi è profondamente connessa al mancato impegno e alle insolvenze europee di indagare un passato coloniale, ancora radicato a livello inconscio nelle menti dei cittadini del vecchio Continente; un passato ancora presente nel quale i concetti di imperialismo e colonialismo rappresentano congiunzioni tra le idee di nazione e quelle di cultura, identità, modernità e progresso. Comprendere quanto il razzismo e la razzializzazione siano componenti strutturali degli stati-nazione odierni è il primo passo per cambiare punto di vista e avere gli strumenti per analizzarli in senso critico.
Lo Stato è un artefatto sociale nel quale si incarnano le rappresentazioni e le pratiche di tutti i giorni, il luogo dove gli attori istituzionali si incontrano e agiscono modificando il sistema attraverso strategie discorsive e politiche. Molte ricerche empiriche su istituzioni locali italiane per esempio mostrano come fattori relazionali e contestuali tra i lavoratori nell’ambito dell’accoglienza e gli utenti stranieri possano alimentare processi discriminatori nei confronti di questi ultimi. Le politiche pubbliche, in un ottica foucaultiana di potere, vengono disvelate come costruzioni simboliche e discorsive.
Le ricerche condotte in questo ambito a partire dagli anni Novanta evidenziano come i processi tramite i quali le policies ridefiniscono valori e norme sociali rappresentino “tecnologie di potere”, attraverso cui veicolare costrutti simbolici, ideologie, credenze e percezioni.
Dunque oggi, anche in relazione alle scelte politiche passate e a una memoria collettiva falsata, diviene semplice incanalare nell’immigrazione la rabbia e le frustrazioni sociali; la propaganda e le scelte politiche, insieme all’azione mediatica attuale, alimentano e beneficiano spesso di una visione distorta del migrante, inteso come concetto oltre che come singolo individuo, che diviene il capro espiatorio di molti problemi, come la mancanza di lavoro, la povertà sociale, l’aumento del crimine e del degrado.
Per concludere riporto un fatto avvenuto nel sud Italia che penso possa fungere da esempio calzante e rafforzativo per comprendere l’analisi finora condotta. Nella contemporaneità il sud d’Italia conserva alcune delle caratteristiche imposte precedentemente e durante l’azione coloniale interna. Nel corso del tempo si mantiene come luogo di passaggio per coloro che possiamo definire “soggetti tradotti”, intendendo il modo in cui l’epistemologia occidentale ha costruito e poi imposto un’immagine stereotipata e un ruolo pre-determinato agli abitanti del meridione durante il risorgimento, a coloro che rientravano nella definizione di alterità africana in epoca coloniale e oggi, nel pieno del neocolonialismo, ai migranti provenienti dal sud del mondo, in particolare dall’Africa.
Dunque, un fatto significativo che chiarifica il suddetto fenomeno e che negli ultimi decenni è riuscito a scuotere almeno in parte l’opinione pubblica, è rappresentato dal sistema di sfruttamento sviluppatosi intorno a Rosarno, paese della Calabria divenuto dagli anni Novanta luogo di attrazione forzata per lavoratori di origine straniera, impiegati –con salari da fame- come braccianti nella raccolta di agrumi e non solo. Questi lavoratori, originari in maggioranza da Stati dell’Africa, subiscono la miseria di un impiego massacrante e l’instabilità di una vita ai margini, dominata da sfruttamento e violenza. In particolare tra il 1999 e il 2010 la violenza e gli abusi nei loro confronti da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso raggiunge l’apice: nel 2010 Ayiva Saibou, giovane tongolese, viene ucciso da un gruppo di giovani del posto che tentano di impedire un’insurrezione dei braccianti contro le condizioni di lavoro semi-schiavistiche; subito dopo scoppia effettivamente la rivolta. Osservando gli avvenimenti e seguendo un’analogia, i migranti africani si oppongono e lottano contro la condizione di sfruttamento e dominio, così come più di un secolo prima avevano fatto i contadini siciliani contro il nascente regno d’Italia. Dopo pochi giorni di protesta i ribelli vengono fermati dalla polizia e cacciati da Rosarno e dalla Calabria; una reazione istituzionale che ha le caratteristiche di un pogrom. Ma l’atto di rivolta diviene simbolo di una forza collettiva che i braccianti africani mettono in atto contro un evento di violenza individuale; diviene simbolo di nuove possibilità di lotta politica nell’Italia del sud.