Città antica e luoghi di particolare interesse vengono sussunti dall’industria turistica nel ciclo di creazione del profitto o accaparrati dalla rendita del capitale finanziario-immobiliare multinazionale. Il processo produttivo (distruttivo) assume città e luoghi come materia prima da manipolare insieme alla trasformazione dei turisti in avidi e attoniti consumatori, clienti passivi di una offerta in espansione. Analisi molto accurate, anche in questa rivista, hanno approfondito gli effetti distruttivi dello sviluppo dell’industria iperturistica (si vedano Firenze fabbrica del turismo, edizioni perUnaltracittà, 2019, e i recenti lavori di Ilaria Agostini su “La Città invisibile”). Qui vorrei ripercorrere il tema delle origini, delle condizioni culturali che hanno dato luogo alla dismisura di questa industria per tentare una via d’uscita dalla esasperata cultura dell’immagine e del simulacro e dalla crisi della vita urbana, dello spazio e del tempo che ne è conseguita.
Nel piccolo e denso Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo di Fredric Jameson (Garzanti, 1989) si ritrovano, a distanza di anni e con l’acutezza di allora, i tratti generali del mondo in cui ci troviamo. “È successo che oggi la produzione estetica si è integrata alla produzione di merce in generale: la frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto (e aggiungo, attraente) […] assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una funzione e una posizione strutturali sempre più essenziali” (p. 14), inclusi tutti gli oggetti e i derivati che hanno a che fare col turismo, a partire dai pacchetti vacanze delle agenzie e tutto l’armamentario dedicato alla cattura del tempo libero. L’estetizzazione che è seguita alla critica e alla crisi della modernità avanzata ha comportato l’appiattimento fino alla rimozione dei contenuti; l’esaltazione degli aspetti visivi deliberatamente superficiali ma ben confezionati, all’ultimo grido della tecnica, luccicanti, dispensatori di piaceri naturali, espressioni di uno stato euforico che si riverbera nel quotidiano fino all’incessante sottofondo “musicale” di ogni locale pubblico. Parole come “eventi” (un tempo denotanti rarità) ed “eccellenze” riempiono il linguaggio e la vita comuni insieme ai superlativi per commentare o incentivare ogni esperienza, specialmente quelle da mercato turistico: incontaminato, assoluto, incantevole… (ma nella pubblicità usati perfino al quadrato: “intimissimi”). Il tempo libero, duramente liberato dal tempo di lavoro, è stato divorato dal facile e attraente tempo di consumi confezionati dai vari comparti della grande industria turistica.
Il sogno prometeico di libertà, giustizia e uguaglianza della modernità si è dissolto insieme alla speranza di un mondo migliore. Nella società dell’immagine e del “simulacro – copia identica di un originale mai esistito –” (p. 38) l’inautentico si fa avanti anche senza ironia e senza storia perché in questa cultura glamour non ci sono alternative al pastiche di un passato stereotipato consistente nel “saccheggio indiscriminato di tutti gli stili del passato […] e più in generale ciò che Henri Lefebvre ha chiamato il primato crescente del neo” (p. 38). “Ma questa stessa maniera accattivante della nuova estetica è emersa come un elaborato sintomo del declino della nostra storicità, della nostra possibilità (vissuta) di esperire la storia in modo attivo” (p. 44), “una situazione in cui noi sembriamo essere sempre più incapaci di fornire rappresentazioni adeguate della nostra attuale esperienza” (p. 45). Insomma, nella cultura postmoderna, dove domina la piattezza estetizzante, la mancanza di profondità votata a “un nuovo tipo di superficialità […] forse la caratteristica suprema di tutto il postmoderno” (p. 24) l’autore ci avverte essere “mondiale e tuttavia americana. È l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell’America (USA) nel mondo: in questo senso, come per l’intera storia di classe, l’altra faccia della cultura è sangue, morte, tortura e orrore.” Scritto nel 1989 con impietosa semplicità (la memoria del Vietnam era ancora vivissima) ci parla oggi della nostra insopportabile attualità.
Veniamo al turismo nella più recente dimensione iperturistica. Secondo Rodolphe Christin, Zygmunt Bauman, ne La vita in frammenti, “vede nel turista una figura emblematica di quella che chiama postmodernità” (Christin, Turismo di massa e usura del mondo, eléutera, 2019, p. 51). L’estetizzazione della vita quotidiana nelle società sviluppate è, secondo lui, una delle conseguenze della diffusione, in tutta la società, dell’immaginario turistico: “L’intera struttura del mondo del turista poggia esclusivamente su criteri estetici, gli scrittori (e aggiungerei i registi) sempre più numerosi che si soffermano sull’estetizzazione del mondo postmoderno a discapito delle sue altre dimensioni tra cui quella morale, descrivono quel mondo, in maniera talvolta inconscia, dal punto di vista del turista; il mondo estetizzato è un mondo abitato da turisti”, che tuttavia sono solo i destinatari della grande macchina fatta per muovere sogni e desideri e per renderli acquistabili; quella magia visiva che esalta paesaggi, villaggi, città antiche e spazi paradisiaci. Dentro, la grande contraddizione: distrugge ciò che reclamizza, contribuisce al disastro ambientale che dobbiamo fingere di non vedere (malgrado l’evidenza di video, foto, denunce). Si pensi alle Grandi Opere Inutili cui l’industria turistica fa da pretesto e sponda; all’ingolfamento mattutino dei Centri Storici, prodotto dagli automezzi di approvvigionamento e dal crescente abuso di van e di monopattini elettrici; all’uso smodato delle risorse elettriche e idriche e all’abnorme produzione di rifiuti; alla cementificazione di paesaggi di grande pregio naturalistico e storico per offerte mirate a ricchi utenti e a rendite rapinose ma sicure. Sappiamo con buona approssimazione che i consumi del lusso, che prevale nei centri storici, sono 15-20 volte superiori al normale uso sociale. Consumo di suolo e distruzione di territorio sono l’esito scellerato ogni volta che un gruppo finanziario, pilotato da amministratori infedeli, sceglie la vittima.
Oggi sono i padroni del mondo (BlackRock, Vanguard, State Street e sottoinsiemi) a muovere i sottostanti operatori di questo “mercato contraffatto della storia e della natura” (G. Attili, Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni, Quodlibet, 2021) che genera desiderio attraverso l’iconizzazione spettacolare, attraverso le immagini sterilizzate di “quadri viventi”. La parodia della storia, avendo estromesso il divenire, la profondità di ciò che si osserva, rende le città antiche merce da consumare in fretta per lasciar spazio al prossimo turno e soddisfare nuovi appetiti.
Come opporsi. Credo che l’abbuffata di inautenticità e l’iper-estetica che ha investito i corpi (chirurgia plastica, tatuaggi ecc.), la comunicazione, gli oggetti, i comportamenti (iperturismo) debba essere compresa e schivata; è necessaria l’insubordinazione a tutto ciò che ci viene in automatico. Se l’arte è morta, come hanno sostenuto grandi autori del moderno avanzato, non ci interessano i sistemi surrogati e pubblicitari; bisogna riconoscere i messaggi più o meno subliminali che provengono dal potere, ricuperare quella capacità critica annullata dalla cultura dell’apparenza.
1) Occorre ancora e di più, difendere il suolo, l’erba, gli alberi, il paesaggio, la storia, gli ecosistemi; mai barattarli con promesse di “rigenerazione” o “sviluppo” turistico. È meglio un edificio invecchiato che i dieci, venti altri edifici che gli si costruiscono intorno quando si “recupera” o peggio si “rigenera” con strade, stradelli, parcheggi, piscine, tennis e campo da golf. È solo cancellazione di beni storico/naturalistici ereditati, di interesse ambientale universale, irriproducibili, che si trasformano in beni “esclusivi”, “fastosi”, immancabilmente “unici”, come mille altri che si sono accaparrati siti rari ridotti al sempre uguale tedioso stile vacanza standard d’alto bordo. La perdita di ricchezza umana e di vita del pianeta causata da questa economia è sempre molto superiore a quello che ci si immagina.
2) Anche se la città antica è stata venduta ai fondi di investimento, è giusto tentare di salvare ciò che rimane di questo patrimonio: anche solo dalle sue spoglie maltrattate dalla postmodernità neoliberista possiamo imparare a fare città in quella che appare una sconclusionata periferia. Occorre prima di tutto respingere gli attacchi tecnocratici dei fautori della smart city che pianificano in termini di assi di scorrimento, di poli monofunzionali e di “cittadelle” del privilegio. Contemporaneamente lo studio della forma dei vuoti farà emergere l’invisibile continuità e forse la varietà potenziale di uno spazio disordinato e banale, che metteremmo in tensione con l’ordine antico del territorio sottostante di cui restano tracce disperse, per far immaginare nuove relazioni reali o trasferibili in scale diverse, spaziali e a un tempo allegoriche. Si può allora pensare che una parte del popolo di questa periferia, da troppo tempo escluso (a Firenze l’ultima grande partecipazione risale al triennio ’66-’69), entri nel progetto del proprio – oggi – scarno habitat, desiderando trasformarlo in un sistema di luoghi capaci di qualità estetica e simbolica. Luoghi non subordinati a quelli della città storica, con una propria complessità, qualità e autonomia, concorrenti verso una liberatrice dimensione urbana e metropolitana. Dove la solitudine e l’afasia dell’individualismo sociale diffuso si sciolga in una molteplicità di occasioni che distraggano da programmi turistici coatti e ripetitivi, rassicuranti, in compagnia, senza impegno e senza fatica mentale, ma alla fine con una soddisfazione molto molto controllata.
Lo scritto che qui pubblichiamo riprende i temi trattati dall’autore alla presentazione di “Recinti urbani” di Francesco Cerrone, organizzato da “La radice delle idee” A.C.L.I. e Lucca Film Festival, Lucca 29 settembre 2024

Roberto Budini Gattai

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Analisi molto interessante, esame degli esiti purtoppo esatta. Aggiungo un esempio che conosco da vicino: la distruzione delle 5Terre nello spezzino per mano-inizialmente- del sindaco di Riomaggiore, grande pubblicitario della bellezza dei luoghi e primo presidente del Parco Nazionale delle 5Terre, portate progressivamente allo sfacelo. Overtourism, nuove costruzioni anche nei luoghi devastati da una frana che ha prodotto anche morti (2011 Vernazza) hanno reso i paesi inabitabili da chi li frequentava dalla metà del secolo scorso per fare trekking e vi soggiornava nel rispetto degli usi locali. Esempio clamoroso il disastro della Via dell’Amore, chiusa ripetutamente per frane (due turiste morte per frana fra Riomaggiore e Manarola circa 12 anni fa), riaperta con grande spolvero pochi mesi or sono dopo un decennio di chiusura, chiusa nuovamente in questi giorni per l’ennesima frana. Costi delle opere di “ripristino” rilevantissimi. La speculazione edilizia non cessa, i paesi sono quadruplicati con nuovi edifici e strutture ricettive. Le 5Terre non esostono più.
Grazie dell’esempio circostanziato, che meriterebbe un articolo da pubblicare! Se vuoi, lo pubblicheremmo molto volentieri. Facci sapere!