Continuiamo a parlare di scuola e percorsi formativi all’interno del carcere con Claudio Pedron, insegnante di Lingua Italiana, referente per il CPIA1 di Firenze all’interno del carcere di Sollicciano. Per capire cosa significa insegnare in carcere e quali criticità è necessario affrontare, Pedron comincia raccontando le specificità professionali e relazionali che guidano i percorsi formativi. Un cambiamento forte è avvenuto da quando è stata equiparata la scuola interna a quella esterna, cioè con gli stessi percorsi, gli stessi orari. “Questo può funzionare, io credo però che sia importante anche una formazione specifica, legata al mondo carcerario. Alcuni di noi hanno frequentato corsi specifici di preparazione all’insegnamento in carcere e nel tempo abbiamo seguito corsi di formazione, a volte organizzati anche da noi, specifiche per i nostri bisogni, per cercare di affrontare problematiche particolari. Ad esempio per quando riguarda gli studenti stranieri, è importante individuare i vari tipi di problematiche, linguistiche, culturali e psicologiche per prepararci al confronto anche sul loro modo di affrontare la vita detentiva. Va benissimo che arrivi l’insegnante da fuori, in particolare per le scuole superiori, che entra in classe, fa lezione e se ne va, questo però non basta nel creare il percorso verso l’uscita. Gli insegnanti devono sviluppare la capacità di coinvolgere e di predisporsi all’ascolto dei bisogni e delle difficoltà individuali. Poi conta molto l’apporto dello psicologo, dello psichiatra. A volte ci dicono: voi siete missionari; per niente, io sono un professionista che ha fatto una scelta, perché io ho fatto la scelta di insegnare in carcere e anche alcune delle mie colleghe hanno fatto lo stesso, coscienti di questo ma non missionari, altrimenti passa questa inutile idea del buonismo totale. No, a volte siamo anche duri, quando serve essere duri, c’è un confronto continuo, una dialettica, perché comunque abbiamo a che fare con degli adulti, che devono confermarsi. Si, perché si deve tener conto che il carcere infantilizza. In primo luogo, anche se le cose stanno un po’ cambiando, la maggioranza di coloro che si occupano di tenere l’ordine, la sicurezza interna, cioè gli agenti, diciamo al 95%, sono maschi, mentre la maggioranza di chi gestisce la parte trattamentale e quindi gli FGP, i Funzionari Giuridico Pedagogici, sono donne, e succede che, in alcuni casi, il detenuto ne semplifichi il ruolo e le veda come fossero la zia o la mamma, la persona che può risolvere ogni loro problema e questo non può funzionare bene. Poi la detenzione, per sua natura, disabitua ad autogestirsi”.
Un problema, questo, che talvolta è alla base delle paure che colpiscono alcuni nell’imminenza della fine della detenzione, portando in casi estremi perfino al suicidio nel periodo verso l’uscita.
Pedron racconta di aver vissuto situazioni spiacevoli con detenuti che, col sacco nero di plastica in mano, gli confidavano la paura di dover affrontare il mondo fuori senza sapere dove andare e cosa fare. Oppure racconta di un ex allievo incontrato per strada che, alla domanda: come va? Ha risposto che stava pensando di tornare in carcere perché fuori non riusciva a trovare nulla. “Sentire una frase del genere è una sconfitta enorme, non per me ma per noi come società!”, conclude Pedron.
Gli chiedo poi la sua opinione su come migliorare le criticità, palesi ed evidenti, relative alla struttura del carcere, che poi ricadono sui detenuti, sui loro percorsi di reintegrazione nella società.
“Ho avuto modo di interloquire con alcuni politici o funzionari che dicevano “bisogna chiudere questo carcere, buttarlo giù”. Ok, va bene, se è quella l’idea, però realisticamente non si può fare subito; è come dire che non facciamo niente, perché sarebbe un’operazione troppo complicata. Io proporrei intanto di trasferire altri 300 detenuti, e rimanere così in 250. Ristrutturare. Facciamo che le celle siano singole, facciamo che tutti abbiano la possibilità perciò di lavorare e di studiare, creiamo delle sezioni scolastiche, cioè quelli che vengono a scuola stanno in una sezione a parte così avranno anche un lavoro, se vengono a scuola di mattina, possono lavorare nel pomeriggio e viceversa. Nella mia memoria conto che coloro che ce l’hanno fatta sono quelli che studiavano di mattina e riuscivano a lavorare, poi sono andati alla scuola superiore e lavoravano di mattina, con un lavoro fisso: perciò avevano occupato dalle 8 di mattina fino alle 6 e un quarto di sera. Erano talmente stanchi che dormivano e ricominciavano il giorno dopo, poi magari si sono anche iscritti all’università e quando sono usciti hanno trovato un lavoro, duro, perché uno fa il marmista, di quelli che adesso mi vengono in mente, uno il fabbro, un altro lavora alla raccolta rifiuti, cioè non lavori leggeri, ma in carcere avevano imparato un percorso, interiorizzato una volontà forte e acquisito anche una preparazione culturale. In questo percorso sono importanti le uscite per le visite che organizziamo nei musei, grazie, oggi al gruppo dei musei di Welcome Firenze e in passato alla fondazione Strozzi e all’Opera del Duomo. Molti di coloro che escono in permesso collettivo non sanno neanche cos’è un museo, lo scoprono così. Poi un altro progetto a cui tengo tantissimo che funziona da più 10 anni, anche se prima era saltuario e l’avevo già cominciato a Volterra, è quello di andare a parlare nelle scuole superiori cittadine e poi portare i ragazzi all’interno del carcere. Funziona per tutte e due le parti; per i ragazzi che fanno educazione civica e scoprono realmente cos’è il carcere, che non è quella cosa che vedono in tv, nei film e nelle serie, scoprono il lato umano e continuano a vedere però anche la parte del reato; dall’altra parte i miei allievi che si trovano a confrontarsi con studenti esterni, in qualche modo a rivedersi in quei ragazzi, e a doversi anche interrogare. Non vale per tutti, però ho visto persone recluse emozionarsi, andarsene e poi ritornare, non riuscire a parlare di fronte ai ragazzi. Con questo progetto sono entrati 1.500 studenti all’interno del carcere. Altre due cose che noi facciamo, e in Italia forse siamo stati tra i primi, è mescolare i detenuti protetti e dell’ATSM, con i comuni, a scuola perciò vanno tutti assieme e non sanno riconoscere il reato dell’altro se non se lo dicono tra loro, e inoltre abbiamo una classe mista sperimentale di scuola media, maschile e femminile. Anche questo serve tantissimo nel percorso di socializzazione e di confronto. La cosa più importante per un detenuto è il rapporto con la famiglia, con i parenti, con la moglie; non esiste ancora quella che chiamano la stanza dell’affettività o stanza dell’amore, se ne parla ma per il momento non è in realizzazione.
Al femminile funziona, grazie alla capacità di due colleghe di attirare quella parte di recluse che non viene a scuola, magari di lingua italiana che hanno già frequentato la scuola, l’istituzione di corsi manuali di book-art, uncinetto o serigrafia, e lì abbiamo a volte 25-30 persone che frequentano. Poi proiettiamo anche dei film con le attività correlate, grazie alla mediateca e agli Amici del Cabiria. Sia al femminile che al maschile c’è la biblioteca però i lettori non sono tantissimi e per questo facciamo il corso di lettura ad alta voce in collaborazione con l’ARCI”.
Parlando delle condizioni strutturali del carcere di Sollicciano, chiedo a Pedron se corrisponde al vero la percezione diffusa dai media, dalla quale risulta uno stato di forte degrado. “Lo è, cade l’intonaco, ci sono infiltrazioni d’acqua ovunque, è vero, e so che nelle sezioni è anche peggio. Forse il problema è alla base, chi ha fatto il carcere poi è stato inquisito e condannato per l’uso di materiali scadenti però lo Stato ha messo milioni per ristrutturare il carcere, nella parte della scuola in cui sono finiti non ci sono più infiltrazioni. Al femminile per esempio sono state messe le docce all’interno delle celle perché prima non c’erano in tutte ma poi si sono ripresentati i problemi. Anche noi abbiamo avuto spesso negli anni passati problemi nelle classi al punto di dover portare delle stufette o di dover chiudere la scuola”.
Chiedo allora quale, secondo le sue valutazioni, possa essere l’impatto del degrado strutturale sulla qualità della vita dei detenuti, sul loro rendimento scolastico e sul percorso di recupero, che è poi lo scopo della pena detentiva. “Il problema è che ci si abitua a tutto, certo con delle conseguenze. Il degrado influisce tantissimo. Il carcere di Sollicciano era nato con una struttura ben progettata, con i corridoi lunghi per avere la prospettiva, la scuola, gli spazi esterni grandi, la palestra, e poi doveva essere costruito un altro edificio mai realizzato per le attività lavorative e di formazione. Periodicamente il Ministero della Giustizia indica un carcere che sta funzionando bene. Mai Sollicciano.Certamente nel frattempo ci sono delle ristrutturazioni e, ripeto, la soluzione migliore sarebbe di spostare una certa quantità di detenuti, in modo che gli altri abbiano una vita e un controllo sociale accettabile. Se un FGP deve seguire la vita di 50-60 persone (in passato anche 120) che gli si affidano convinti che sia l’interlocutore che può sistemare tutto, e dunque chiedono di incontrarlo per ogni problema, sarebbe più semplice se i numeri dei detenuti fossero minori, perciò servono molti più funzionari giuridico pedagogici.
Poi il disagio all’interno del carcere c’è, sono aumentati gli episodi di autolesionismo grave e il numero dei suicidi, dovuti allo stato detentivo, la ASL parla del 70-80% di persone con problemi psicologici. Una cosa che tengo a dire è che dentro il carcere c’è una forte ed importante presenza della ASL, che dipende dal Ministero della Salute e dalla Regione, che si occupa dell’attività sanitaria. Noi ci occupiamo di percorsi formativi, per detenuti che per la maggior parte frequentano la scuola per far passare il tempo. L’HACCP è molto richiesto. Li aiutiamo in un percorso che è dettato da una scelta personale oppure da una scelta che è il risultato di altri tipi di percorsi intrapresi con lo psicologo. C’è ad esempio anche un gruppo di uomini maltrattanti che discutono fra loro su quello che è successo e sulla violenza di genere. Che dire, il giudice Margara diceva che per sapere esattamente come si comporterà una persona non è dentro il carcere che si fa la valutazione, è all’esterno che avviene la vera messa alla prova. Le statistiche vecchie o nuove dicono che chi si fa la pena fuori al 70% non ritorna a commettere reato, chi si fa la pena dentro, cioè non usufruisce delle pene alternative, al 70% torna in carcere. La Costituzione non parla di carcere, parla di pene e di come gestirle. Poi è chiaro che c’è anche il carcere. Victor Hugo diceva che ogni scuola aperta è un carcere chiuso; da questo punto di vista una scuola dentro il carcere è un mezzo fallimento ma è anche vero che molti detenuti la scuola non l’hanno mai vista. Però il problema vero è il passaggio all’esterno. Un detenuto sconta la sua condanna dentro il carcere. Se l’idea è quella di togliere dalla società per tre anni o trent’anni delle persone per non farle delinquere all’esterno, il carcere certamente funziona. Però passerà degli anni in cella a parlare di droga o di rapine e alla fine quando esce non sappiamo cosa farà. Ma se seguiamo l’idea dell’educazione e dell’accesso ai percorsi alternativi, magari con riduzioni di pena se uno si comporta bene, le probabilità di delinquere potrebbero scendere. Poi però bisogna che la società investa su di loro. Lo so che è difficile parlare di spendere soldi per dare lavoro a ex detenuti, però sarebbe una scelta volta alla sicurezza di tutti. Molti detenuti hanno questo spirito di cambiamento, poi è chiaro che c’è chi sceglie di vivere e di commettere comunque reati, cosciente del rischio di prendersi anni di carcere. Consideriamo poi che Sollicciano ha il 70% di detenuti stranieri, contro la media italiana del 30-35%, perché è un circondariale, e tutti gli stranieri che non hanno parenti e non vanno in un carcere vicino alla famiglia, si ritrovano qui. È chiaro che un italiano che fuori ha la casa, i parenti, il lavoro, avrà un percorso più semplice di un senza dimora. Esistono delle statistiche precise su chi tra gli stranieri commette più reati, dal clandestino, al richiedente asilo, al migrante che ha la residenza. La clandestinità porta a commettere reati non solo verso gli italiani ma più verso i connazionali o altri migranti. Il percorso vizioso è viziato già dalla situazione, il percorso virtuoso dipende dagli aiuti, dalle persone che danno lavoro”.
Chiedo allora quale tipo di atteggiamento sociale dovremmo adottare per sviluppare una politica verso la detenzione rivolta al reintegro dei detenuti in uscita. “Ci sono tante componenti complesse. Io, conoscendo il carcere, sono contro il carcere. Ovviamente non sono per l’abolizione totale del carcere perché alcuni reati secondo me meritano un percorso di condanna. I governi decidono anche che tipo di pene comminare, cioè per quali reati condannare. Adesso tutti pensano che la paura di finire in carcere sia un deterrente ma abbiamo visto che il numero di minori è quasi raddoppiato da quando hanno ampliato i reati da perseguire. C’è poi l’idea diffusa della certezza della pena. In realtà il carcere è migliorato tantissimo quando si è cominciato ad applicare uno sconto di pena a coloro che si comportano bene. Forse dovremmo ragionare anche su questo, cioè dare premi a chi, oltre a comportarsi bene, non far male a nessuno e non fare reati all’interno, studia e legge libri, e magari frequenta corsi di formazione, che però dovrebbero essere istituiti”.
Chiedo infine a Pedron che riscontro ha dell’impegno e della partecipazione della città rispetto alla realtà carceraria. Mi risponde che “l’errore più grande, che mi fa arrabbiare sempre, è quando qualcuno viene a scuola in carcere e dice di essere stato in carcere. No, è stato a scuola in carcere. È diverso, il carcere è un altro mondo. Si, è vero, è il carcere ma quello spazio lì è uno spazio a parte dedicato alla scuola. La realtà della vita all’interno delle sezioni è molto diversa e molto dura.
Per quanto riguarda la partecipazione attiva della cittadinanza, non vedo numeri alti, vedo una partecipazione singola molto attenta, cioè chi si interessa del carcere lo fa veramente con una passione straordinaria. Quando sono arrivato da Volterra a Firenze, sono rimasto sorpreso che ci fosse una sola associazione di volontariato, e un’altra stava nascendo ma molto piccola. Ero sorpreso dalla tanta buona volontà concentrata in poche persone. Venivo dalla conoscenza del mondo del volontariato di Padova, che era massiccio e pervasivo. C’erano anche imprenditori che organizzavano corsi di formazione, attività verso l’esterno, attività varie come la redazione del giornale, ecc. Quindi decisi di andare io a cercare le collaborazioni con i musei, con Amnesty International per portarli a svolgere attività dentro il carcere. Ora ci sono tre associazioni di volontariato, l’AVP, Pantagruel e l’Altro Diritto che sono cresciute tantissimo, con persone attente e interessate, che hanno passione e sentono questa cosa di fare le attività. Poi ci sono molte altre associazioni che svolgono attività varie, come ad esempio i corsi di scrittura. La curiosità sociale verso il carcere c’è, in una città come Firenze che ha una forte cultura della solidarietà. Manca un po’ chi fa parlare i detenuti, cioè incontri pubblici dove gli venga data la possibilità di parlare, raccontare, condividere idee”.

Maria Gloria Roselli

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