In piccolo, ma non troppo in piccolo, il “decreto sicurezza” – oggi legge dello stato – è il “codice Rocco” del governo Meloni. Certo, non è (ancora?) una riforma complessiva del sistema penale, una trasformazione estesa delle norme che regolano i rapporti fra i cittadini e lo stato, ma è un insieme di norme che imprime una chiara svolta politica alla direzione di marcia della democrazia italiana.
Le misure contenute nel decreto – imposto anche al parlamento dopo mesi di fiacca discussione – non sono equivocabili: forzano in più punti i cardini dello stato di diritto (la proporzione della pena, la tutela delle minoranze, il diritto costituzionale all’espressione del dissenso), prendono di mira precisi gruppi sociali (i carcerati, il popolo rom, gli attivisti politici più sgraditi), offrono ingiustificate ed equivoche tutele alle forze dell’ordine, allargano il campo d’azione dei servizi segreti.
Per dirla con i 237 professori di diritto costituzionale che hanno firmato un documento di contestazione, il decreto sicurezza “tradisce un’impostazione autoritaria, illiberale, e antidemocratica, non episodica o occasionale, ma mirante a farsi sistema”.
Il decreto sicurezza, quando era ancora una legge in discussione in parlamento, è stato largamente sottovalutato sia dalle forze politiche di opposizione, sia dal movimento sindacale; è stato invece molto discusso e contestato in seno ai movimenti, fra gli attivisti più esposti, nel sindacalismo di base. Non c’è stata però nel paese una mobilitazione politica e mediatica adeguata alla posta in gioco.
Un motivo può forse spiegare, ma non giustificare, questa sottovalutazione: il governo Meloni si è mosso sulla scia di altri governi e all’interno di una cornice di senso, quella dell’emergenza sicurezza, del contrasto ai presunti estremismi, che è stata costruita in modo bi o forse tripartisan negli anni scorsi, nel succedersi dei vari pacchetti sicurezza. Meloni, questo sì, ha osato più di altri nel forzare il quadro giuridico e costituzionale. In aggiunta, le norme più odiose e più pericolose per la libertà di espressione del dissenso, sono state confezionate su misura per colpire gruppi ben identificabili – gli attivisti contro le grandi opere (a cominciare da No Tav e No Ponte), i movimenti per la giustizia climatica e quelli per il diritto alla casa, i carcerati – e così gli apparati sindacali e politici “tradizionali” devono essersi sentiti poco coinvolti, finendo col restare defilati.
É probabile, anzi pressoché certo, che varie parti della nuova legge siano incostituzionali, ma ci vorrà tempo perché sia chiamata in causa la Corte Costituzionale: i 39 articoli del decreto, con i quattordici nuovi reati e le nove aggravanti, fanno ora parte del “codice Meloni”, e sarà la storia, visto che non l’ha fatto la cronaca, a giudicare l’inerzia mantenuta sul punto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Le nuove norme sono destinate a moltiplicare i rischi per tutti gli attivisti impegnati sul campo, con il nuovo/vecchio reato di blocco stradale realizzato con la semplice interposizione del corpo, con le aggravanti previste per i danneggiamenti e la resistenza a pubblico ufficiale, per l’impressionante introduzione del delitto di “resistenza passiva” (la cosiddetta norma anti Gandhi), limitato per il momento alla popolazione carceraria, ma destinato ad essere esteso a qualsivoglia situazione (qualcuno ha forse dimenticato il Daspo, nato per contrastare gli ultrà del calcio e ora normale strumento di repressione del conflitto sociale?). Il “codice Meloni”, nel suo insieme, configura una democrazia dell’intimidazione, punta a mettere fuori gioco, a criminalizzare le forme più potenti e più efficaci di protesta dal basso nonviolenta, quelle che storicamente hanno prodotto le trasformazioni normative, politiche e di costume più avanzate. I sit in, le marce, le occupazioni, le azioni dirette nonviolente, l’uso dei propri corpi per esprimere tensione al cambiamento e innescare trasformazioni dell’esistente: tutto ciò sta diventando fuori legge.
A completare un quadro già allarmante, ecco le norme riguardanti le forze dell’ordine, alle quali il “codice Meloni” manda un nitido messaggio di vicinanza e di protezione a oltranza. La nuova legge, fra le altre cose, introduce la possibilità (non l’obbligo) di utilizzare mini videocamere sui caschi, escludendo ancora una volta l’introduzione dei codici di riconoscimento individuale sulle divise, uno strumento di prevenzione e deterrenza della violenza istituzionale raccomandato, fra tanti altri, anche dal Codice etico delle polizie europee. La legge – con un altro scatto post democratico – consente addirittura agli agenti di portare senza licenza armi personali, diverse da quella di ordinanza, quando non sono in servizio. E ancora: vengono stanziati fondi per coprire le spese legali (fino a diecimila euro) degli agenti eventualmente indagati per fatti avvenuti in servizio, una norma che non ha equivalenti negli altri comparti del servizio pubblico.
Nel paese del G8 di Genova, nel paese che ha avuto i vertici di polizia condannati nei tribunali e alla Corte europea per i diritti umani, nel paese oggi alle prese con numerosi processi per tortura a carico di agenti penitenziari e di altri corpi di polizia, in un paese che avrebbe bisogno di rapporti democratici e trasparenti fra cittadini e apparati di sicurezza, e anche fra polizie e poteri dello stato, il governo Meloni punta a istituire uno “scudo penale” per gli agenti – lo ha promesso il ministro Nordio ai sindacati di polizia, in aggiunta a quanto previsto dal decreto sicurezza -, in modo che si sentano protetti in qualunque circostanza, anche rispetto a eventuali “attenzioni” della magistratura; in questo modo le polizie tornano a essere il braccio armato del potere, ben al di fuori del dettato costituzionale.
Non è possibile equivocare oltre: il “codice Meloni” è l’atto politico finora più importante compiuto dall’estrema destra di governo e dev’essere combattuto con tutti gli strumenti disponibili, anche da chi, in passato, ha contribuito a creare quella “cornice di senso” che lo ha reso possibile.

Lorenzo Guadagnucci

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Amico mio, dimmi: cosa ha fatto la “sinistra” per evitare tutto questo? Essa sa indire referendum e perderli perché nessuno li vota, chi dovrebbe non crede più in lei.