Le diecimila e una Italia

Giovanni Arpino, in un suo bel libro, rivolto particolarmente alle ragazze ed ai ragazzi, ci racconta “mille e una Italia”, facendo incontrare Riccio, il piccolo protagonista che compie un viaggio dalla Sicilia alle Alpi, con molti personaggi della nostra storia, inseriti negli ambienti e nei territori in cui operarono (da Savonarola a Machiavelli a Gramsci a Gobetti al padre dei fratelli Cervi …).

Penso che, se ci si volesse soffermare sulle moltissime realtà locali in cui si articola lo stato italiano (città, paesi, comuni grandi, piccoli, piccolissimi, frazioni, borghi, quartieri), potremmo parlare di “diecimila e una Italia”.

Si tratta – si tratterebbe, se fosse veramente considerata tale – di una “ricchezza” enorme per la vita democratica, in grado di permettere un notevole sviluppo della partecipazione al governo della “res pubblica”.

Certo, ci sono modi diversi di intendere le autonomie locali e negli ultimi decenni ne abbiamo visto lo sviluppo in senso negativo, con una visione che tende a fare di ogni autonomia una piccola patria chiusa e contrapposta alle altre (la Lega Nord ha portato avanti con grande determinazione un discorso del genere, intriso di intolleranza, di razzismo, di xenofobia – oggi, purtroppo, non più da sola -).

In passato però, ed in parte ancora oggi, si sono avute, e si hanno, esperienze che vanno in direzione opposta, con la costruzione di comunità locali aperte, solidali, inclusive, che si collegano fra loro su temi specifici e per azioni comuni (si contano a decine – in certi casi a centinaia – i comuni riunitisi in associazioni e coordinamenti su obiettivi condivisi – non ritenendosi, quindi, delle “piccole patrie” in competizione fra loro, quanto piuttosto parti attive di discorsi complessivi, secondo l’impostazione indicata dagli ambientalisti “agire localmente, pensare globalmente” -). Ricordo in particolare l’aggregarsi di molti enti locali sulla base delle buone pratiche ecologiche messe in atto.

Un’esperienza interessante, che però ha avuto vita breve, all’inizio degli anni 2000, è stata quella della Rete del Nuovo Municipio: nata nel clima dei Social Forum, si proponeva di associare le realtà che, a livello comunale, mettevano insieme saperi, soggetti associativi e movimenti, istituzioni, al fine di ridefinire l’identità del territorio, valorizzarne le risorse, in particolare i “beni comuni”, elaborare nuovi progetti, in una logica di alternativa dal basso – basata su solidarietà, accoglienza, interculturalità – alla globalizzazione neo-liberista.

Il ’68 e gli anni ’70 avevano prodotto un grande sviluppo della partecipazione, in ambiti diversi (non solo nelle manifestazioni di piazza):

  • avevano fatto sì che le assemblee divenissero strumenti comuni nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro in genere, nei quartieri;
  • avevano determinato la nascita di nuovi organismi sindacali – i consigli di fabbrica e di zona -;
  • avevano indicato la strada dell’associarsi su obiettivi non corporativi e della sindacalizzazione al mondo delle professioni (Medicina Democratica, “Psichiatria Democratica”) e dei corpi separati dello Stato (Magistratura Democratica, il sindacato SIULP all’interno della polizia);
  • avevano prodotto il decentramento amministrativo – i consigli circoscrizionali elettivi – nei Comuni.

Successivamente è andato avanti, invece, un processo, avviato nella seconda metà degli anni 80, che, in nome della governabilità, ha ridotto sempre di più gli strumenti della partecipazione, ritenendola un ostacolo per gli amministratori, in quanto produttrice di “lacci e lacciuoli”:

  • si è annullato, in gran parte, il decentramento amministrativo, riducendone progressivamente le funzioni laddove rimaneva in piedi ;
  • si sono accorpati i piccoli comuni (mentre sarebbe stato possibile mantenerli, individuando accorpamenti solamente per le funzioni che un singolo comune non era in grado di esercitare da solo);
  • si sono cancellate le province come organismi elettivi, attribuendo le funzioni che esse svolgevano ad altre istanze (le città metropolitane, enti i cui amministratori non derivano da elezioni dirette, etc.).

Ciò si è accompagnato ad altri fenomeni che sono venuti avanti con forza nello stesso periodo:

  • la personalizzazione della politica (con l’elezione diretta

dei sindaci),

  • lo svuotamento, o la consistente riduzione, dei poteri delle assemblee elettive (consigli comunali) a vantaggio degli esecutivi (sindaci e giunte),
  • la formazione di una categoria di politici/amministratori sempre più distaccata dalla popolazione;
  • la riduzione della politica ad esercizio del potere, con una influenza crescente dei poteri forti sugli atti amministrativi più importanti.

Tutto questo è strettamente collegato alla sconfitta epocale che il movimento operaio ha subito, simboleggiata qui in Italia dall’amara conclusione della vertenza FIAT nel 1980.

L’espansione della democrazia si mostrava sempre di più incompatibile con l’affermazione del capitalismo vincente, quello globalizzato e finanziarizzato.

Perciò se ne restringevano gli ambiti e si faceva prevalere le esigenze della “governance” su quelle della partecipazione.
Governabilità, funzionalità, accentramento delle decisioni, annullamento, o non considerazione, dei corpi intermedi nella società, riduzione dei costi della politica sono stati, e sono, i “leit motiv” di questo processo ancora in atto (e che avrebbe trovato  un rafforzamento decisivo nella riforma costituzionale renziana, fortunatamente respinta con il referendum dello scorso dicembre).
Senza considerare che così si produce una frattura devastante fra rappresentati e rappresentanze (con la delegittimazione della politica, considerata dai più un affare sporco).

Occorre quindi cambiare radicalmente direzione, considerando vitale per la democrazia:

  • che vi sia il maggior numero di persone che si interessano al governo della cosa pubblica, a partire dal luogo in cui vivono,
  • che tali persone assumano anche ruoli di amministratori, mettendo in relazione conoscenze e saperi, prodotti sia dalle istituzioni culturali che dai movimenti, con l’arte del governare e affrontando i conflitti (essenziali in ogni democrazia) nell’ottica di risolvere i problemi che li determinano.

Con questo percorso è possibile cogliere appieno la ricchezza di apporti che deriva – che può derivare – dal fatto di avere “diecimila e una Italia”.

Ed una ricchezza ancora maggiore può venire dalle nuove cittadine e dai nuovi cittadini, i migranti, che dovrebbero essere accolti ed inclusi nei diecimila e uno luoghi in cui si articola l’Italia.

Una prospettiva del genere si collega all’esigenza di un cambio radicale nelle politiche economiche, con l’impiego dei fondi destinati alle grandi opere, inutili e dannose, e agli armamenti per il finanziamento delle uniche grandi opere che valga la pena di attuare (per la messa in sicurezza del territorio, la riconversione ecologica, il recupero dei paesi e delle zone agricole abbandonate, la riforestazione di intere aree distrutte dagli incendi e dalle frane …). Tutte opere che richiederebbero un forte impiego di mano d’opera, composta da nativi/e e da migranti.

Oggi, per riprendere la strada della partecipazione dopo un regresso preoccupante (non tanto sul terreno dell’impegno delle realtà di movimento, che prosegue, quanto su quello del rapporto con le istituzioni), occorre una grande iniezione di energie, di idee, di volontà politica (partendo dalla convinzione che regredire sul piano della partecipazione significa colpire al cuore la stessa vita democratica).

*Moreno Biagioni