Emergenza stupri. Paradigmi e dispositivi nella costruzione pubblica dell’idea di città

Nell’ultimo periodo il dibattito pubblico si è ampiamente concentrato sul tema della violenza sulle donne, dopo gli stupri che da agosto hanno riacceso i riflettori su un fenomeno molto più complesso di quanto non lo abbiano definito i media e i rappresentanti istituzionali. Con questo intervento non vorrei tanto operare un’analisi del fenomeno in sé, cosa che per altro non sarei in grado di fare non essendo un’esperta né di studi di genere né di teorie femministe. Vorrei invece riflettere sulle modalità attraverso le quali gli spazi urbani vengono ridefiniti socialmente all’interno del discorso pubblico. Questo processo di ridefinizione messo in atto tramite il paradigma dell’emergenza, impone un dispositivo securitario che ha l’intento di operare un disciplinamento delle vite che fa uso di una narrazione di tipo paternalistico, vittimizzante e biologizzante, con ripercussioni precise sulla vita delle donne. Uso qui il termine donna/e nel senso dato al termine dai soggetti che si sono resi esecutori di questo discorso, consapevole delle criticità e della limitatezza di questo utilizzo.

Da un punto di vista giuridico il concetto di “emergenza” è strettamente legato a quello di “contingenza”, ed implica il verificarsi di eventi “improvvisi e eccezionali” ai quali l’ordinamento deve reagire per garantire il mantenimento dello stato originario di cogenza ed equilibrio. Dunque presupposto fondamentale per dichiarare lo stato di emergenza è il verificarsi di una circostanza “straordinaria”. É qui che, a mio avviso, sta la prima contraddizione dell’uso di questo termine per qualificare la violenza sulle donne, di cui lo stupro si fa espressione. Sebbene i media abbiano gridato all’emergenza stupri degli ultimi mesi, i dati statistici riferiscono di un andamento costante (seppur in leggero calo) di tali eventi. Il Corriere della Sera in un articolo del 17 settembre1 parla di 2333 violenze carnali commesse tra gennaio e giugno 2017, appena 12 in meno rispetto allo stesso periodo nel 2016 (2.345). Volendo giocare con i numeri sono 6 stupri al giorno ai quali devono essere aggiunti i tentativi di stupro e le mancate denunce: questo quadro delinea una realtà in cui i casi di stupro e, in generale, di violenza sulle donne risultano ben lontani dal poter essere considerati eventi eccezionali. Questo evidenzia un primo dato importante: l‘utilizzo del paradigma dell’emergenza sminuisce un fenomeno molto più complesso che presenta una precisa storicità e continuità, eclissandone la portata sociale, politica e culturale.

Il paradigma dell’emergenza ha inoltre la capacità di destituire la politica come argomento collettivo, alimentando psicosi, paura, assistenzialismo, dipendenza e neutralizzando, tramite un discorso paternalistico e vittimizzante, le libertà individuali delle persone, nel caso specifico delle donne. Basti pensare alle parole del sindaco di Firenze Dario Nardella2, in riferimento allo stupro compiuto da due carabinieri ai danni di due ragazze americane nella notte tra il 6 e il 7 settembre, le quali anziché fare le “brave studentesse” votate ad una vita austera e dedita allo studio hanno ceduto allo sballo, aumentando a dismisura il loro stato di vulnerabilità e dando luogo ad un modo errato di vivere la città. Non so voi ma tra le righe io leggo: “Se foste rimaste a casa a studiare tutto questo non sarebbe successo”.

Da questo discorso si evince una precisa volontà tesa a standardizzare la condotta delle donne ad un idealtipo. Questo processo mina la libertà di queste ultime, condizionando il loro modo di pensare e vivere la città, e, reprimendo la loro auto-determinazione, implica una diffusione diseguale del potere. Da questo quadro la donna risulta da una parte esclusa come protagonista attiva nella produzione di un discorso sulla città e sulla violenza che essa subisce; dall’altra viene inclusa in esso come destinataria passiva degli interventi. Queste procedure e strategie politiche hanno l’obiettivo di consolidare e rinnovare la sovranità del potere dominate tramite l’utilizzo del dispositivo di sicurezza, il quale “fisserà i limiti dell’accettabile” (Foucault 2010, p.17).

Il concetto di dispositivo foucaultiano, in prima istanza, ha la capacità di fornire una risposta a un’urgenza specifica, esprimendo strategicamente la “manipolazione dei rapporti di forza […] sia per orientarli in una certa direzione, sia per bloccarli o per fissarli e utilizzarli” (Agamben 2006, pp. 6-7). È una proiezione del potere che si esprime in un contesto particolare, quello dei luoghi della città contemporanea interdetti alle donne. Così il dispositivo securitario, tanto a livello di discorso quanto di pratiche e procedure, impone alla popolazione femminile una progressiva standardizzazione delle modalità di agire nella e di essere la città.

Il 15 settembre 2017 il senatore di Ala Vicenzo D’anna interpellato ai microfoni di radio Cusano Campus sull’emergenza stupri3 (in una interessantissima analisi antropologica in cui si riempie la bocca della parola cultura) ha posto l’accento sulla necessità di “attenzione e cautela da parte delle donne” affermando che “se cammina un uomo solo alle tre di notte non gli succede niente, se cammina una bella ragazza, magari vestita in modo provocante, e si trova in determinati ambienti, si espone”. Riparandosi dalle accuse di maschilismo ha poi spostato la questione dal culturale al biologico sostenendo che “il corpo della donna è oggetto e fonte di desiderio da parte dell’uomo. È un istinto, sarà primordiale, sarà ancestrale, quello che volete […] Le donne hanno un appeal che è diverso dagli uomini, potrei parlare degli ormoni, dell’aggressività. Certe volte un tipo di abbigliamento, un tipo di contesto, fa pensare a dei soggetti che siano una manifestazione di disponibilità da parte della donna. Serve un poco di buonsenso, un poco di cautela, alle donne non farebbe male. Non è una manifestazione di inferiorità. Io alle tre di mattina sconsiglierei a mia figlia di camminare in una periferia da sola, peggio ancora se è vestita in maniera disinvolta”.

Da queste parole è facile notare come la costruzione di un determinato spazio produce a sua volta un preciso concetto di corpo, percepito sia nella sua dimensione bio-fisica, sia come un insieme di idee e concetti. A questa concettualizzazione consegue la produzione e l’imposizione di atteggiamenti e comportamenti considerati socialmente come consoni, i quali indicano e sanzionano ciò che è ammissibile (e quindi normale/normato) per il corpo di un uomo e ciò che lo è per il corpo di una donna (Minca 2001, p. 57). La tendenza naturalizzante intrinseca a questo approccio riduce la violenza a un mero dato biologico, un atto primordiale, istintivo, quasi animalesco, depoliticizzando le cause del fenomeno e facendo gravare sulle donne la responsabilità per la propria condizione.

Pensiamo, ad esempio, alla concezione ancora diffusissima (non solo a livello popolare/tradizionale ma anche giuridico) secondo la quale una donna vestita con abiti “inappropriati e provocatori” si vada a “cercare” episodi di violenza e molestie da parte degli uomini. Lo stupro di Montalto di Castro, avvenuto nella notte tra il 31 marzo e il 1° aprile 2007 da parte del branco di otto ragazzi (allora minorenni) che usarono violenza e infierirono brutalmente su una quindicenne “colpevole”, secondo l’opinione pubblica, di indossare una minigonna4, è un esempio lampante di quanto questo fenomeno non sia poi così recente né eccezionale.

Il modo in cui i corpi vengono concepiti a livello sociale diventa metro e misura della costruzione sociale e del controllo dello spazio in cui le relazioni e le concezioni di genere prendono forma. In questo contesto il dispositivo della sicurezza, messo in atto grazie al paradigma dell’emergenza, istituzionalizza l’esclusione dei soggetti, finalizzata all’inclusione eccezionale e al dominio. Il dispositivo securitario concede alle donne forme di cittadinanza limitate in termini prima di tutto biopolitici: se per bio-politica intendiamo “l’insieme dei meccanismi grazie ai quali i tratti biologici che caratterizzano la specie umana diventano oggetto di una politica, di una strategia politica, di una strategia generale di potere” (Foucault 2010, p. 13) è facile ammettere come la partita securitaria degli spazi urbani venga giocata anche sul e attraverso il corpo delle donne, in linea con gli intenti di ridefinizione e trasformazione delle città di stampo neoliberista.

Lo spazio urbano non va inteso come un luogo neutro e passivo sul quale si svolgono le azioni umane ma piuttosto come un prodotto e un produttore di significati, di meccanismi e di dinamiche sociali specifiche. Sempre con le parole di Foucault esso è un “campo relazione complesso” costruito da un preciso sistema di potere, all’interno del quale viene prodotta e perpetrata una certa idea di ordine sociale e all’interno del quale ogni soggetto è costretto a subire un ruolo. Nello spazio urbano si concretizzano le differenti strategie che il potere usa per ottenere un funzionamento efficace del controllo del corpo sociale.

Il dominio delle relazioni di potere negli spazi pubblici è espresso dalla paura e dal senso di insicurezza di certi luoghi che caratterizza l’esperienza urbana femminile. Il discorso pubblico interpreta e strumentalizza la violenza sulle donne per operare e imporre nuovi ordini, colpevolizzando non solo specifici comportamenti ma anche e soprattutto le modalità delle donne di vivere ed essere la “città”. Questo processo rende possibile un uso tattico e manipolatorio del concetto di sicurezza, costruendo spazi “inagibili alle donne”: parchi, vicoli, periferie e specifici quartieri, qualsiasi angolo buoi nella città contemporanea diventano luoghi che se liberamente vissuti o anche solo attraversati dalle donne vengono stigmatizzati per costruire un discorso paternalistico che riversando su di loro la colpa per un’eventuale violenza subita, legittima quel tipo di violenza.

La riproduzione di queste norme sui corpi di stampo patriarcale costruisce un determinato tipo di habitus femminile, imponendo modalità di essere adatte a certi luoghi e sconvenienti per altri, e trasformando alcuni spazi pubblici della città in luoghi negati alle donne (Fenster 2006). L’analisi degli spazi permette di comprendere come essi incorporino e riflettano le strutture di potere che grazie ad esso si riproducono e vengono naturalizzate dagli stessi attori sociali. Silvia Macchi (2006) sottolinea come il rafforzamento degli dispositivi di controllo (da “più luce” a “più polizia”) non permette di porsi criticamente sulla relazione tra donne e spazio urbano e di comprendere i meccanismi che la informano.

Lo sviluppo delle città contemporanee in termini neoliberisti esacerba la divisione tra spazio pubblico e spazio privato e rafforza l’idea che il corpo femminile nello spazio pubblico sia “fuori luogo”, soprattutto se si trova da sola e durante la notte (McDowell 1983). Lo spazio pubblico della città viene così pensato, gestito e plasmato in riferimento ad una rigida polarizzazione della vita sociale (maschio/femmina, autorizzato/interdetto). In questo modo, la genderizzazione dello spazio urbano viene eclissata dalla naturalizzazione della divisione tra spazio pubblico (riservato al maschile) e spazio privato (nel quale è relegato il femminile), riflesso della divisione della vita sociale in pubblica e privata (Borghi e dell’Agnese 2009).

Sebbene il tema dell’analisi delle città contemporanee attraverso una prospettiva di genere sia stato ampiamente affrontato in Italia dagli inizi degli anni Novanta, il discorso pubblico ancora oggi affronta il rapporto tra la città e le donne con un atteggiamento patriarcale e paternalistico, incapace di mettere in discussione le basi consolidate sulle quali è costruita la differenza e la disuguaglianza.

Alla luce di quanto detto emerge la necessità di promuovere una politica che parta dalle donne ma che non si fermi ad esse, una politica dal basso e per il basso che abbia la capacità di allargare il proprio orizzonte di cambiamento, superando l’ossessione della riduzione del ‘senso di insicurezza’ soprattutto se al prezzo della libertà, e ponendosi piuttosto come obiettivo la decostruzione della nozione stessa di in/sicurezza urbana per produrre un’idea di città capace di liberare il vissuto urbano delle donne dall’immagine della vittima (Macchi 2006, p. 234). Questo progetto dovrà restituire alle donne il «diritto alla città», inteso esattamente come «diritto alla vita urbana» (Lefebvre 1968), ribandendo la natura di quest’ultimo come una forma superiore di diritti: diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare. In questo diritto, secondo Lefebvre, è compreso anche il diritto a trasformare la città. Un processo trasformativo in cui la donna si renda protagonista, e si senta legittimata ad esserlo, tramite una partecipazione che travalichi i tradizionali confini della politica e delle istituzioni rappresentative per estendersi a tutti i momenti di produzione della città e della sua vita.

Bibliografia

Borghi, R. e E. Dell’Agnese (2009). Genere, in «Geo-grafie», Milano, Unicopli.

Fenster, T. (2006), «Città e genere: nozioni di comfort, appartenenza e impegno a Londra e a Gerusalemme», in La città delle donne. Un approccio di genere alla geografia umana, a cura di G. Cortesi, F. Cristaldi e J.D. Fortuijn, Bologna, Patron.

Foucault M., 2010, Sicurezza, territorio, popolazione, Milano, Feltrinelli Editore.

Lefebvre H., 1968, Le droit à la ville, Anthropos, Paris (trad. it. Il diritto alla città, Marsilio, Padova, 1974).

Macchi S. (2006). «Politiche urbane e movimenti di donne: specificità del caso italiano» in La città delle donne. Un approccio di genere alla geografia umana, a cura di G. Cortesi, F. Cristaldi e J.D. Fortuijn, Bologna, Patron.

McDowell, L., 1983. Towards an under standing of the gender division of urban space, in «Environment and Planning D: Society and Space» 1:59-72.

Note

2 Fonte internet: http://www.ilpost.it/2017/09/10/nardella-firenze-studenti-americani/ , ultima consultazione 5/10/2017.

*Silvia Pitzalis


Intervento al convegno “Città, spazi abbandonati, autogestione”, Laboratorio Crash, Bologna, 3 ottobre 2017