L’economia finanziarizzata colpisce al cuore le città turistiche. E si muove liberamente in un vuoto pianificatorio costruito ad arte.
Resa incapace di gestire i grandi mutamenti, l’urbanistica – già disciplina del welfare urbano – si rapporta oggi ad un contesto in cui pubblico e privato si sono confusi e sovrapposti. Il pubblico ha subito trasformazioni in senso privatistico (Marella), il privato si è trasformato in impresa transnazionale. Un tipo di impresa che ha incorporato il ruolo dello speculatore edilizio alla Edoardo Nottola di “Le mani sulla città”. Ma che si è anche ritagliata una parte importante nel governo cittadino; che influisce sull’assetto urbano, sui servizi, sulle grandi opere; che mette il territorio a ferro e fuoco e lo gioca in borsa.
Lo strumentario urbanistico si adegua servile assumendo concetti, metodi e lessico presi a prestito dall’economia finanziarizzata, interni alla logica distruttiva ed estrattiva che ha saccheggiato città e territori globali: crediti edificatori, cartolarizzazione degli immobili pubblici, valutazione, premialità, negoziazione, accordi.
Le città sono public company, sono smart, sono ridotte a brand da giocare nella competizione globale.
Competitività, attrattività, efficienza, performance etc. rientrano tra gli obiettivi delle politiche e degli strumenti legislativi. A tali obbiettivi fanno seguito: l’introduzione generalizzata del costume derogatorio e delle modalità negoziali; l’annullamento dell’istituto universalistico degli standard urbanistici; le semplificazioni procedurali a danno della democraticità degli strumenti di piano; lo svuotamento di finalità sociali in una pianificazione fondata sull’effetto “annuncio”; le vertiginose previsioni di espansione dell’urbanizzazione, a danno degli equilibri ecosistemici.
Ne è un esempio la nuova legge urbanistica emiliana.
Sul turismo
Nelle città di cui oggi trattiamo [Firenze, Roma, Venezia, N.d.R.], l’ambiente urbano è messo a rischio da un’insaziabile industria turistica che alligna nei deserti urbani, in settori privi di residenti stabili.
I centri storici, «popolosi deserti» (Cervellati), sono ridotti a piazze di smercio di moda d’alta gamma o di prodotti uniformati a scala globale, a luogo di lavoro (ma sulla qualità di questo lavoro dovremo tornare in seguito), di divertimento e di attrazione del turismo internazionale.
In questi ambienti, asettici, separati, settorializzati, il turismo diventa una “fabbrica”, deprivata dei connotati aggregativi e socializzanti. A causa della crisi della produzione industriale e di quella edilizia che perdura da un decennio, unitamente allo sconvolgimento dei connotati del Lavoro, il turismo è da intendersi – soprattutto a Firenze e a Venezia – alla stregua di monocoltura industriale aggiornata in senso neoliberale, che riduce a merce e finanziarizza tutto ciò che tocca.
La monocoltura insiste su un patrimonio di dimensione finita che il turismo medesimo, che ne dipende vitalmente, non è in grado di riprodurre. Esso, inoltre, è incapace di produrre un’efficace redistribuzione del reddito. Ciò avviene anche quando opera sotto le spoglie della sharing economy, le cui ambivalenze strutturali sono state recentemente messe in evidenza da Roberto Ciccarelli in Forza lavoro.
Le città d’arte, dunque, sono miniere a cielo aperto, occasione di estrazione di profitto, massimizzazione della rendita, concentrazione delle ricchezze. In questo contesto il turismo assume i connotati di un colonialismo messo in atto sulle città (e sulle campagne di pregio), non più dagli Stati, ma dalle imprese multinazionali.
Espropriazione ed espulsione
Per un funzionamento ottimale, il recinto per turisti deve essere a completo appannaggio delle multinazionali. La cittadinanza è espropriata dai luoghi urbani di vita aggregata, degli «spazi che uniscono, che mettono in relazione, che favoriscono il riconoscimento dell’altro» (Bergoglio).
Uno spossessamento che è avvenuto, nell’arco di circa tre decenni, parallelamente all’espulsione fisica dei residenti dai “centri storici”. (Uso l’ormai inusuale dizione “centro storico” evidenziandone il valore sociale che la tradizione disciplinare le attribuiva, oggi totalmente soppiantato dal significato economico.)
L’attacco è avvenuto su vari fronti che tento di riassumere per grandi temi.
Il decentramento delle funzioni dal centro città ha comportato l’allontanamento, delle funzioni rare (tribunali, università, ospedali, teatri etc.) e dell’indotto (studi legali, studenti etc.); nonché delle funzioni al cittadino (anagrafe e altri uffici comunali, poliambulatori etc.).
La liberalizzazione del commercio, attuata con decreto 114 del 1998. Il “decreto Bersani”, rivelatosi strumentale alla costruzione dei centri commerciali periferici (spesso su terreni agricoli), ha messo in crisi il tessuto commerciale e artigianale cittadino. Nella spirale della liberalizzazione hanno trovato terreno fertile i “localini”, ristoranti e negozi di alimentari ad uso turistico, il cui proliferare e il cui incessante ricambio alimentano gli affari della malavita organizzata (Rapporto Agromafie 2017). Ristoranti e localini che privatizzano gli spazi collettivi e relegano in posizione residuale l’agibilità collettiva.
La metamorfosi di piazze, monumenti, musei in macchine da soldi. Dagli anni Novanta le chiese (usate dalla cittadinanza anche come piazze coperte) sono musealizzate e, a causa del biglietto e delle code interminabili, sottratte ai cittadini e al loro ruolo di alfabetizzazione culturale e civile. Del museo come “petrolio d’Italia” è stato scritto molto e non merita ora soffermarvisi.
Ponti, piazze, strade, sedi di istituzioni pubbliche, sono ridotti (da amministratori mercenari) a fondali o contenitori per sfilate di moda, iniziative politiche (Ponte Vecchio) o pseudo-culturali. L’esposizione di opere d’arte contemporanee, valide per ogni città del globo diventa un’iniziativa di mercato: alza la quotazione dell’artista svilendo la scena urbana.
Dal punto di vista urbanistico e di gestione politica degli ambienti urbani, grande rilievo è attribuibile alla vendita compulsiva degli immobili pubblici, in posizione centrale, abbandonati o svuotati di usi collettivi; tra di essi annoveriamo anche le case popolari (via dei Pepi, via del Leone). L’alienazione degli immobili pubblici è un fenomeno che diventa pervasivo a partire dal 2008, quando con l’art. 58 della L 112/2008 il piano delle alienazioni può essere allegato al bilancio preventivo di enti pubblici o locali. Si noti che nella versione varata dal Parlamento, il piano delle alienazioni si configurava come variante allo strumento urbanistico.
Quello delle alienazioni sottoprezzo degli immobili pubblici è un ambito speculativo molto favorevole per le multinazionali che vi vedono un conveniente margine di profitto. È, per di più, un capitolo che si viene a collocare pericolosamente nel vuoto di programmazione e pianificazione (piani fatti di slogan e privi di contenuti pianificatori). Ciò che resta del Piano viene impiegato come piattaforma propagandistica ad personam e di offerte ad impresam.
A completare il quadro del tramonto dell’urbanistica, contribuiscono il teatrino della partecipazione e la farsa della governance che corrobora l’«ibridazione tra imprenditorialità privata e iniziativa pubblica» (Mometti).
La questione sociale
Nella letteratura scientifica, l’espulsione delle fasce sociali subalterne è celata dietro il termine lenitivo e rassicurante di “gentrificazione” (ma preferirei utilizzare la tuttora valida espressione di “speculazione immobiliare”, cfr. Saitta).
Il dislocamento avviene principalmente in seguito all’innalzamento dei prezzi di affitto (l’equo canone è abolito nel 1998), al declino dell’edilizia residenziale pubblica, a seguito dell’indebitamento delle famiglie per l’acquisto della casa di residenza (Barcellona, Plataforma de Afectados por la Hipoteca).
Ma il dislocamento si attua anche con le misure per il decoro. L’intreccio di congegni di natura speculativa, finanziaria e di misure politico-securitarie sta togliendo respiro ai diseredati e agli ultimi, che si accalcano nei rioni meno appetibili (la letteratura di settore ci ricorda tuttavia come questa depressione preceda l’onda della riqualificazione speculativa). Si tratta peraltro di quei diseredati e ultimi che costituiscono il bracciantato della monocultura turistica che richiede lavoro poco qualificato, mal pagato e peggio tutelato.
Il Daspo urbano – che agisce proprio sulle aree turistiche (D.L. 14/2017, art. 5, co. 2, lett. c) e che dà ai sindaci la potestà di chiudere in recinti le zone monumentali urbane – si aggiunge (buon ultimo) agli innumerevoli dispositivi securitari che limitano le libertà di movimento e di sosta: arredo urbano a vocazione disciplinare, illuminazioni violente, cancellate, barriere e paletti, videocamere che entrano prepotentemente nel messaggio politico.
Il contravveleno
È urgente, come urbanisti, offrire soluzioni immediatamente applicabili e prefigurare i «cambiamenti normativamente auspicabili» (Gorz).
Da un lato, si può immaginare di fare ricorso alle soggiacenti “qualità riformiste” della disciplina urbanistica, che mediava interessi generali e particolari alla ricerca di un equilibrio convincente e ragionevole. In questo ambito le soluzioni vanno: dalla messa in atto di un piano organico per il centro storico a un piano specifico per l’edilizia residenziale pubblica nella città storica, modellati entrambi sull’esempio bolognese degli anni Settanta, migliorato e aggiornato; da una visione programmatoria del commercio a una strategia per i grandi contenitori vuoti (e magari in svendita) affinché caserme, ex ospedali, possano – rispolverando una tradizione civica dell’accoglienza – diventare fuochi di urbanità, luoghi di vita aggregata, di «produzione dell’uomo per mezzo dell’uomo», dentro i quartieri e i rioni.
Dall’altro lato, ma il tema già lo abbiamo sfiorato con quest’ultima proposta inerente i grandi spazi civici, è necessario che la materia urbanistica possa elaborare una riflessione/decostruzione sulla relazione tra proprietà e uso (la destinazione d’uso è uno dei contenuti specifici del Piano), è necessario che la materia urbanistica entri in dialogo con le nuove forme di produzione di saperi urbani e di welfare dal basso, ampliando il raggio d’azione della partenopea delibera Filangieri.
È urgente che la programmazione degli ambienti di vita entri in dialogo con le esperienze già in essere che si dispiegano sia in città, sia extramoenia: in un panorama di land grabbing da parte di multinazionali che si “ripuliscono” con l’agriturismo di lusso e con l’agroindustria vitivinicola, la “Fattoria senza padroni-Mondeggi Bene Comune” ha intrapreso un esemplare tentativo di rinascita di terre pubbliche abbandonate, in alienazione. Sulle colline di Bagno a Ripoli è in atto un’alternativa di esistenza «alimentata dal desiderio di essere felici […] con gli altri, di costruire […] vit[e] in comune e relazioni non mediate dal denaro e dalla proprietà privata, e liberate dalle passioni tristi del neoliberalismo (la carriera, la competizione individuale, etc.)» (Rossi).
O “Alterpiana”, che attraverso l’attivazione di «metabolismi creativi urbano/ambientali» agisce con visione bioregionale nella Piana ad ovest di Firenze.
Il passo da compiere è quello di trasporre tali desideri e relazioni in istituzioni durevoli. Far collimare cioè la visione riproduttivo-generativa dell’accudimento del vivente, l’autogestione collettiva e inclusiva, con il riconoscimento della natura di bene comune delle terre/immobili presidiati e custoditi gestiti conformemente all’istituto degli usi civici. Usi imprescrittibili – ricordano i giuristi – su terre (o beni immobili) inusucapibili, indivisibili e inalienabili.
Di tali virtù dovranno fare tesoro gli urbanisti alla ricerca di «regole vive» (Marson) interne ad un comune «diritto “sorgivo”» (Carta di Roma Comune) già praticato prima della sua validazione.
*Ilaria Agostini
[Il testo è la trascrizione dell’intervento alla conferenza “Ambienti di vita a rischio: Firenze, Roma, Venezia”, con Ilaria Agostini, Carlo Cellamare, Riccardo E. Chesta, tenutasi il 5 febbraio 2018 presso il Gabinetto Vieusseux (Firenze) nell’ambito di “Lo spazio della parola. Incontri di filosofia e letteratura” organizzati dal gruppo Quinto Alto]
Riferimenti bibliografici
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Pier Luigi Cervellati, La chimera della rigenerazione e il popoloso deserto della città storica, in Ilaria Agostini (a cura di), Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, a Pendragon, Bologna, 2017, pp. 47-50, <https://www.perunaltracitta.org/wp-content/uploads/2017/11/libro_consumo_di_luogo.pdf>
Roberto Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, Roma, 2018
André Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009
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Maria Rosaria Marella, Pratiche del comune. Per una nuova idea di cittadinanza, “Lettera internazionale”, n. 2, 2013, pp. 24-29
Anna Marson, La pianificazione del paesaggio: qualche speranza per la qualità di vita nel territorio, in Ead. (a cura di), La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il Piano della Toscana, Laterza, Roma-Bari, 2016
Felice Mometti, La produzione dello spazio urbano in tempi di crisi, in Città. Spazi abbandonati, autogestione, a cura di Info.aut, atti del convegno omonimo organizzato dal laboratorio Crash! (Bologna, 3 ottobre 2017), pp. 22-27, <https://www.infoaut.org/images/bologna/Ebook/EBOOKZ-ZCittspaziZabbandonatiautogestione.pdf>
Rapporto Agromafie 2017, Eurispes, Roma, 2017 <http://www.eurispes.eu/content/agromafie-rapporto-sui-crimini-agroalimentari-italia>
Ugo Rossi, Diritto alla città e politica del comune: per una riconciliazione, “EuroNomade”, 22 novembre 2017, <http://www.euronomade.info/?p=9922>
Pietro Saitta, Gentrification o speculazione? Note analitiche sugli abusi di un termine, “Urbanistica 3 Quaderni”, n. 13, 2017, pp. 103-109
Tiziana Villani, Per una nuova polis, “Scienze del territorio”, n. 3 (num. monografico: Ricostruire la città a cura di Enzo Scandurra e Carlo Cellamare), 2015, pp. 27-37
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