La città di oggi tra realtà autogestite e pratiche solidali. Il caso Firenze

“La pandemia non è la causa dei processi catastrofici (ambientale, economico, geopolitico, e psichico) cui stiamo assistendo, ma è solo il catalizzatore di processi che erano in corso, e che la pandemia ha fatto precipitare.”, così Franco Berardi in Il giorno prima del diluvio.

Nel raccogliere e rilanciare altrove il filo che ci porge Bifo nei materiali preparatori al seminario di Effimera Dei corpi perduti e dei corpi ritrovati che si terrà a Milano il 10 ottobre, mi concentrerò in particolare sul caso Firenze, luogo di cui come laboratorio perUnaltracittà ci siamo in particolare occupati. Ma Firenze può essere presa come caso esemplare delle numerose cosiddette città d’arte.

L’esperienza drammatica e non conclusa del covid 19 rappresenta uno spartiacque non perché sia la causa o l’inizio della crisi cui stiamo assistendo, appunto, ma perché è la cartina di tornasole che ci fa vedere con maggior chiarezza i limiti dei processi che già erano in atto.

Nel caso che stiamo trattando è quel che ha fatto accelerare gli effetti negativi di quel fenomeno definito l’industria del turismo che ha investito in particolare le città d’arte (sinonimo tout court di turistiche) e che si era andato intensificando nel corso degli ultimi 10-15 anni. Ha messo a nudo criticità ambientali e sociali che già erano state segnalate e verso le quali cominciavano a emergere controproposte. In quest’ottica va vista ad esempio il formarsi nel 2018 della Rete Set (South Europe Facing Touristification), con l’adesione delle sue 18 città tra Spagna, Italia e Francia.

Le città d’arte hanno vissuto un fenomeno ormai noto: sono state aggredite da quella che abbiamo chiamato “la fabbrica del turismo”, tema a cui come laboratorio abbiamo dedicato un intero ciclo di incontri tra il 2017 e il 2018 intitolato appunto La fabbrica del turismo nelle città d’arte che ha visto allo Spazio InKiostro nell’arco di alcuni mesi la partecipazione di singoli ricercatori e di realtà collettive impegnate a affrontare criticamente il fenomeno dell’estrattivismo turistico e a proporre nuove forme di resistenze culturali, sociali e urbanistiche a questo modello.

Un modello basato sulla commercializzazione degli aspetti storici e artistici, la creazione di un “Marchio”, un “Brand” della città, pubblicizzato e venduto nel mondo attraverso una cartolina, un’immagine, un marchio appunto, che appiattisce la complessità di un luogo in una singola icona: può essere un frammento delle vestigia della Roma antica, il Ponte Vecchio o La cupola del Brunelleschi per Firenze, ma anche L’Opera House di Sidney, il Guggenheim Museum di Bilbao. Anche i piccoli centri hanno preso a imitare questo modello di marketing, focalizzando la propria immagine su un evento, una sagra, un singolo monumento.

Questa monocoltura ha penalizzato le altre forme di attività economica e ha avuto pesanti conseguenze per la popolazione che ha progressivamente abbandonato i centri storici saturati di attività legate al turismo e diventati inaccessibili per l’aumento dei prezzi. Il diritto all’alloggio in particolare viene colpito, per l’acquisto di immobili da parte delle grandi finanziarie, fondi immobiliari e finanziari, da destinare alla ricezione turistica (i famosi resort e hotel a 5 stelle che sono spuntati anche a Firenze). E questo è ben testimoniato nel puntuale lavoro della serie A chi fa gola Firenze, guida alle grandi holding che si appropriano della città, a cura di Antonio Fiorentino.

Ripetiamole le conseguenze, anche se già note: abbiamo assistito alla banalizzazione dell’ambiente urbano trasformato in un parco tematico; al suo sfruttamento ai fini puramente turistici; alla svendita del patrimonio edilizio pubblico; all’ampliamento delle infrastrutture utili al turismo (aeroporti, autostrade, porti etc); all’aumento dei prezzi e alla trasformazione delle attività commerciali; alla sottrazione di spazi a agibilità sociale.

E’ interessante notare che già prima del lockdown questo modello di estrattivismo turistico era stato messo in discussione non solo da urbanisti come Eddy Salzano, Vezio De Lucia, Cellammare, Berdini, Scandurra e altri, in consonanza con le elaborazioni del gruppo Urbanistica di perUnaltracittà, ma anche, su altro piano, dall’emergere di movimenti sociali urbani che reagivano alla città neoliberista, dove le leggi del mercato trovano un luogo privilegiato d’azione, come già ci diceva David Harvey nel suo Città ribelli. A fianco della città dell’esclusione nasceva la città insorgente, i cui soggetti progettano e attivano pratiche di agibilità sociale e di mutualismo. La città dei movimenti che, a fronte dell’esproprio dello spazio urbano, si riappropria di spazi abbandonati per riconvertirli a uso sociale e collettivo, che si autorganizza per difendere i propri diritti sui “beni comuni”.

Ecco, sono proprio le esperienze che hanno reagito alla città-merce che oggi, dopo il covid 19, trovano conferma alle loro ipotesi e alle loro pratiche; sono loro che ci indicano la via per un futuro possibile. E che anche a Firenze hanno arricchito e continuano ad arricchire il panorama urbano.

Tra i molti, citerò 4 esempi, scelti anche perché molto diversi tra loro.

– Comincerò dall’ultimo nato, il Blocco-Comitato Antisfratto, che in Oltrarno continua e amplia l’esperienza del Laboratorio DiladdArno e del collettivo di via del Leone, tutte realtà animate da una generazione di giovani e giovanissimi. Impegnati nella difesa degli spazi sociali del quartiere e della qualità della vita della residenza originaria contro l’esproprio turistico dell’Oltrarno, hanno dato un grosso contributo nella raccolta per il sostegno alimentare alle persone in difficoltà durante il lockdown. Guardando al post covid scrivevano: “Siamo convint* che questa esperienza ci lascerà più consapevoli della comunità in cui viviamo, dei valori della solidarietà e del mutualismo, dell’importanza di pensare prima a chi vive le difficoltà maggiori.” Ora si aggiunge, nel settembre 2020, Lo sportello antisfratto, una realtà autogestita basata sul mutuo appoggio e sullo scambio reciproco.

Casa del popolo via delle Panche: il Campino, dove si sono aperte dall’anno scorso attività di mutualismo, come lo sportello legale che assiste lavoratori che non sanno come far rispettare i loro diritti, la Camera popolare del lavoro o il “guardaroba popolare”, ovvero uno spazio di libero scambio di vestiti, e più di recente la raccolta fondi per il sostegno alimentare. Sono attività che niente hanno a che fare con l’assistenzialismo. Rubando le parole al loro “Manuale del mutualismo”: “non “buone azioni” fini a se stesse, ma pratica in grado di scardinare la sensazione diffusa di frustrazione ed impotenza. In un contesto sociale in cui il senso di comunità si va via via perdendo riteniamo necessario invertire la tendenza…per ricreare una comunità, una rete di riferimento che combatte l’individualismo, la competizione e la solitudine che si crea in ampie fasce della popolazione… nel tentativo di ricucire quello strappo violento che si è verificato tra i singoli soggetti e l’agire collettivo”.

Laboratorio rionale #Facciamoci Spazio: nato nel 2017 dalla sinergia di due associazioni (Giardino San Jacopino e Leopolda Viva) e due comitati (Belfiore-Marcello e Per la tutela dell’ex Manifattura Tabacchi). Ognuno di questi 4 soggetti da anni è impegnato per la Sostenibilità ambientale, l’aggregazione sociale e la promozione culturale del quartiere. Il progetto “Facciamoci spazio”, aggrega una cittadinanza attiva per la conquista di “+ verde, + spazi sociali, + piste ciclabili”; la necessità di spazi verdi e di spazi di socialità ad uso civico e culturale”.

Mondeggi Fattoria senza Padroni, un’ esperienza che ha origine dal comitato Terra Bene Comune Firenze, nato nel luglio del 2012, per salvare dall’abbandono la tenuta di Mondeggi di proprietà della Provincia di Firenze, da anni abbandonata; vi partecipano agricoltori, artisti, produttori biologici e biodinamici, attivisti dei Gruppi di Acquisto Solidali, abitanti della zona, studenti, tecnici, professionisti e giovani laureati. Sarebbe lungo seguire l’evoluzione di questa esperienza che si è andata ampliando sia nelle attività che nel numero dei partecipanti. Basti dire che ad oggi sono attivi molti progetti agricoli. Ma alla base delle attività pratiche sta un substrato teorico interessante sostenuto da giuristi come Paolo Maddalena: i beni demaniali rurali – e particolarmente quelli abbandonati ed incolti – sono risorse importanti con cui, senza alcun costo, le amministrazioni pubbliche hanno la possibilità di affidare spazi ed occasioni di vita, di lavoro, di progettualità a persone – e segnatamente a giovani – che intendono sperimentare modelli diversi di vita e di economia, potenzialmente utili a tutta la società e con ciò ricercare alternative praticabili e sostenibili ad un modello socioeconomico manifestamente in crisi. E allora ecco, in contrapposizione all’industria agroalimentare, l’impegno per la diffusione di un’agricoltura contadina, locale, naturale attraverso progetti concreti. Non a caso proprio a Mondeggi il 26 e 27 settembre si terrà RADICARSI, la V Assemblea della Rete nazionale beni comuni emergenti e ad uso civico.

A queste realtà si devono aggiungere i centri sociali autogestiti, o le esperienze di autorecupero abitativo, che si sono sempre battuti perché ci fossero nel tessuto urbano spazi sottratti al mercato, spazi autogestiti che potessero diventare punti di aggregazione e di alternativa culturale e politica.

E poi i numerosi comitati cittadini che sono magari nati su una singola vertenza locale: una piazza verde, un giardino per i bambini, la salvaguardia di spazi e territori non cementificati (come nella Piana Firenze-Prato-Pistoia), in generale una difesa della salute dell’ambiente e nei quali l’eco di un’impronta nimby sempre più si è evoluta nella rivendicazione di un diritto generalizzabile: il no all’inceneritore qui che diventa il no all’incenerimento dei rifiuti.

Sono tutti presìdi di resistenza sociale che hanno fatto intravedere, ben prima che il covid 19 ne palesasse la necessità, la possibilità di un futuro diverso da quello rappresentato dalla città del real estate, individualista, indifferente alle relazioni ecosistemiche, con una gestione privatistica degli spazi comuni in cui i più deboli vengono respinti ai margini, cancellati. Realtà in contrasto con la città brandizzata che produce spazi e dinamiche fondamentalmente declinati al singolare, basati su interessi del singolo, “imprenditore di se stesso”, che sia ristoratore, titolare di host per affitti brevi, o altro.

Soggetti concreti che ci proiettano in un immaginario a cui poter attingere per azioni di “urbanistica resistente”, che sono stati capaci di ripensare i luoghi, il loro utilizzo, il loro ruolo nella vita sociale. Che hanno messo in atto pratiche alternative dell’abitare la città e la campagna, il centro e la periferia, oggi più che mai essenziali per il futuro. Che fanno intravedere una città plurale e collettiva, che impone all’attenzione e difende interessi comuni, il rione, il quartiere, la comunità, con una estensione anche in riferimento all’antirazzismo, laddove qualsiasi egoismo e personalismo porta alla facile esclusione dell’altro, specialmente se diverso.

*Ornella De Zordo, intervento a L’urbano che ancora non esiste