Un libro di cucina da leggersi come un romanzo
È uscito l’ebook “La cucina è politica” di Barbara Zattoni che riprende in gran parte gli articoli apparsi nell’omonima rubrica. Per l’occasione pubblichiamo qui la prefazione di Gilberto Pierazzuoli.
Che la cultura materiale abbia una valenza politica è indubbio, ma i punti dove si incrociano le dottrine politiche con quelle culinarie è meno intuitivo. Un primo punto nel quale si intersecano la storia della specie umana e quella dell’elaborazione della materia alimentare è l’uso del fuoco. La possibilità di cuocere gli alimenti in modo tale da renderli più digeribili dà alla specie umana dei vantaggi[1] che la ricollocano nell’ambiente terrestre in una posizione nella quale è già intravedibile una possibilità dispotica nei confronti ovviamente dei suoi avversari, ma anche dei suoi alleati. È a partire dal momento in cui gli umani cuociono il loro cibo, che si attua una territorializzazione, una presa di posizione: il fuoco al centro e intorno il mondo. Non ci sono ancora striature, il mondo è ancora liscio, è soltanto attraversato da campi di forze che si irradiano a partire da quel centro, da un primo abitare il mondo. Un centro nel quale si cucina il cibo, ci si scalda e intorno al quale si può trovare riparo anche in climi ostili agli umani. Un centro abitato dai viventi ma anche dagli antenati dai quali si irradiano quei campi di forza che intersecano le relazioni degli umani con il mondo. Ma prima della rivoluzione agricola è tutto leggero, metastabile e nomade. Le strade e i sentieri attraversano il mondo, lo percorrono senza portare da nessuna parte. Ci sono intensità e non tracciati. Flussi carichi di senso, di informazione, che organizzano la realtà, che la modellano plasticamente.
Le risorse alimentari sono sparse nel mondo e una volta padroneggiata la tecnica del fuoco, anche il fuoco può essere ovunque. Il nomadismo estremo ha dei vantaggi, ma la ricerca di punti di riferimento, dei poli territoriali intorno ai quali imbastire le relazioni e vivere i vantaggi della collaborazione, tendono a fissare dei centri, dei focolari che siano anche punti di riferimento. Collaborativamente si può affinare la tecnologia del fuoco, cuocere diventa cucinare. Cucinare si può fare per molti e il tempo in più che si dedica a questa attività si può ben ripartire nell’uso comune. La collaborazione porta a una prima divisione dei compiti che avrà conseguenze importanti ma che, in prima istanza, portava soltanto a dei vantaggi. A questa situazione faceva da cassa di risonanza la particolarità degli umani in rapporto alla propria prole. Gli infanti della specie hanno un tempo di svezzamento molto lungo e dipendono per molto tempo dai loro genitori e, essendo mammiferi, in particolar modo dalla mamma. Abbiamo un focolare, una prole da allattare e c’è da procurarsi il cibo spesso lontano dal focolare, è naturale che la soluzione più semplice da adottare – anche se non l’unica – fosse quella di fare cucinare le donne e di mandare a caccia gli uomini. C’è questa ipotesi che non è detto che sia quella che descrive in maniera appropriata i comportamenti dei cacciatori raccoglitori o che sia un’ipotesi stringente e assoluta. Spesso le donne hanno partecipato alle cacce collettive, non dimentichiamo che una delle tecniche più usate era quella di circondare e spaventare le prede più grandi per spingere verso dirupi o verso luoghi chiusi nei quali la loro uccisione fosse più facile.
Quello che comunque si realizza è questa tendenza verso il monopolio dell’uso delle armi da parte dei maschi e quello della concentrazione delle donne intorno al focolare, come testimoniano alcune feste rituali riservate alle sole donne, all’interno delle quali si sacrificavano degli animali; feste nelle quali la presenza maschile era proibita se non per la presenza del mageiros, sorta di macellaio-sacrificatore, che doveva essere maschio. E, per rimanere in ambito greco, anche le opposizioni tra oikos e polis, spazio domestico e femminile contrapposto a quello pubblico e maschile, ma anche Hestia dea femmina del focolare che si abbina a Hermes dio maschio della comunicazione e delle relazioni mondane (contrapposte a quelle domestiche).[2]
Le conseguenze sono un primo condizionamento e una prima formazione di uno stereotipo di genere che lega le donne al focolare domestico e gli uomini agli affari e alla politica. Situazione che ben si era ripercossa nella cucina antica e che permea di sé tutta la storia dell’umanità sino ai nostri giorni. Gli uomini armati di lancia, uno strumento tecnologico dal duplice aspetto quello di arma e quello di spiedo per cucinare e le donne maestre nell’uso delle pentole e signore del focolare domestico. Gli uomini che durante le battute di caccia lontano dall’accampamento usano lo spiedo per arrostire al volo le parti che più si deteriorano degli animali cacciati (le interiora – splancha) e le donne che monopolizzano le tecniche più laboriose che rimandano all’universo del bollito.
Se poi studiamo i rituali di amicizia e la distribuzione delle carni nei sacrifici si vedrà che per quanto riguarda le relazioni sociali e gli scambi tra maschi esse sono guarda caso dominate dagli splancha (le interiora) arrostite che secondo un rituale ben definito vengono offerte ai presenti con un ordine relativo alla loro appartenenza sociale, caratterizzando la cucina maschile come espressione della rappresentanza e non come tecnica in relazione al gusto. C’è qui una ritualizzazione del gesto quotidiano del cacciatore che compie una doppia azione simbolica che sacralizza e domestica quel fare
A tutt’oggi, anche nell’occidente moderno, il rito del barbecue dove cuociono i maschi (non cucinano perché il barbecue è un gesto essenziale e non una “tecnica”, si fa all’esterno e non nella cucina) è dedicato principalmente alle occasioni extra familiari rispecchiando così le ragioni delle sue origini.
Ma la cucina è politica non soltanto nei suoi fondamenti e nei conflitti di genere che assegnano alle donne tutti i lavori della riproduzione e della cura, cucina compresa, ma anche dal punto di vista geopolitico. Lo testimoniano le guerre per l’accaparramento delle risorse alimentari. Le guerre per il merluzzo, i pescatori siciliani che si avventurano nelle acque libiche o nelle loro vicinanze più ricche di possibilità per la pesca. Non solo. La quasi estinzione dei bisonti americani per mano dei cacciatori bianchi muniti di fucile, che ha avuto un esito parallelo portando alla quasi estinzione dei nativi stessi.
La rivoluzione agricola tra sette e ottocento in Europa che ha sostituito i campi a maggese (lasciati momentaneamente incolti per permettere la loro rifertilizzazione) con una rotazione che prevedeva al loro posto una coltivazione di una leguminosa che restituisse l’azoto al terreno e questa leguminosa era spesso un foraggio come l’erba medica. Con una conseguenza: la scomparsa dei campi a maggese, usati come terreno di pascolo comune che ha limitato l’allevamento promiscuo degli animali, fornendo poi – tramite il sistema delle enclosures – mano d’opera a basso prezzo per le industrie manifatturiere, figlie della parallela rivoluzione industriale. Il risultato fu la nascita del modo di produzione capitalista e l’aumento della produzione foraggera che permetteva l’allevamento in stallaggio degli animali che apre a un uso grandemente ampliato della carne nella dieta degli abitanti del cosiddetto mondo occidentale. Quel mondo che da allora è capitalista ed esageratamente carnivoro.
Assistiamo oggi al trionfo dell’agricoltura intensiva che non può fare a meno di fertilizzanti e pesticidi, con il parallelo aumento di allevamenti intensivi per il quale i sette miliardi di esseri umani che abitano il pianeta, stanno allevando 24 miliardi e 300 milioni di animali con il risultato di una crisi ambientale arrivata ormai alle soglie di una catastrofe. E le tendenze derivate dall’uso di nuove tecnologie che non vanno nella direzione di una maggiore biodiversità e verso un’attenzione per la salvaguardia della fertilità dei suoli, ma remano in senso contrario tramite le produzioni OGM che rimandano a semi coperti da brevetti che sostituiscono le varietà precedenti; o tramite la cosiddetta agricoltura di precisione che si basa sulla raccolta intensiva di dati in una apparente personalizzazione degli interventi che invece ottiene i risultati opposti, essendo una tecnologia costosa; adatta a un sistema di monoculture che espropria il sapere contadino e lo consegna a forme di produzioni sottoposte al comando algoritmico.
«Jean Baptiste de la Quintinie, giardiniere del Re Sole Luigi XIV, si vantava di aver selezionato 500 qualità diverse di pere, con tempi di crescita distribuiti in tutti i mesi dell’anno, così che, teoricamente, ogni giorno il sovrano avrebbe potuto gustarne una diversa»[3]
In questo caso si intuisce la possibilità di un uso politico di questo saper fare, da una parte la possibilità di avere un prodotto adattabile a più situazioni climatiche che, se coltivato in più varietà, permette anche di non perdere la totalità del raccolto per un evento non previsto: una siccità, una gelata etc., dall’altra anche di soddisfare il piacere allora di un monarca, ma oggi, o in un domani possibile, quello di tutti gli umani.
La cucina ha sempre oscillato tra questi due poli, quello dietetico nel senso del soddisfacimento dei bisogni primari, e quello goloso per il soddisfacimento dei desideri di gola. Ma più che una polarità stretta si è sempre trattato di una convivenza dovuta allo statuto fisiologico particolare legato alla alimentazione. Da una parte essa è uno dei bisogni primari, ma, dall’altra, è uno dei campi che restituisce un piacere non derivato dal soddisfacimento di una mancanza. Per questo la cucina cucinata non ha mai una semplice valenza dietetica, una valenza che permetta di assimilare le sostanze delle quali abbiamo bisogno, ma è aperta alle proiezioni più ardite. Ovviamente molte altre cose umane non si esauriscono nella semplice riproduzione della specie, ma la connessione tra il mangiare e il piacere fisico nel farlo, la eleva a operazione riconosciuta e perseguita ovunque. Il fatto è che al di là degli sprechi alimentari perpetrati nel nord del mondo, c’è una parte di questo che non ha accesso al minino indispensabile, non ha accesso all’acqua potabile e non ha accesso ad abbastanza cibo pe sopravvivere.
Per questo Barbara Zattoni parla di cucina di recupero, è quella cucina che ha inviso lo spreco, che recupera gli avanzi o si affida a ingredienti di “scarto”: l’ortica o le bucce di piselli, per esempio, ma per farne dei piatti più che gradevoli e non per sfuggire alla fame, che poi, avendo un attenzione culinaria di questo tipo, può essere utile proprio per superarlo, quel problema.
C’è poi la cucina coloniale che è quella che prosciuga la colonia delle sue risorse sia dal punto di vista degli ingredienti sia dal punto di vista dei saperi. In una zona predesertica del Marocco, dove c’è un po’ d’acqua si coltivano meloni per l’esportazione, sottraendo quell’acqua a colture per la popolazione locale. In Palestina gli occupanti israeliani – provenendo da più culture – si sono appropriati della cucina palestinese arrivando all’accesso di vietare ai Palestinesi stessi la raccolta di alcune erbe aromatiche che fanno invece parte della loro tradizione. C’è però anche un “colonialismo” con fenomeni anche all’opposto. Ed è la contaminazione tra ingredienti e tecniche provenienti da tradizioni diverse, quando esse si incontrano. È anche il successo delle cucine etniche che propongono sapori e suggestioni che aprono alla tolleranza e alla curiosità verso l’altro. C’è la cucina creola di parti del mondo senza più una tradizione originale che testimoniano un modo di abitare il mondo di tipo collaborativo e rifondativo.
C’è il monopolio del mercato che fissa i prezzi di acquisto di molti generi alimentari, come il cacao o il caffè che, se trova inadeguata l’offerta fatta da un paese, minaccia di comprare altrove, condannando alla fame chi non produce a costi che permettano di riuscire a vendere, guadagnandoci.
Ma il testo di Barbara non racconta direttamente o soltanto di ingiustizie alimentari o lotte per il cibo, parla di ricette e di chi il cibo lo cucina. Sono storie di donne che conservano e arricchiscono il patrimonio culinario dell’umanità. Che contestualizzano gli ingredienti e le preparazioni, perché le ricette sono il racconto di chi le ha cucinate o inventate. E spesso chi le ha inventate non è un soggetto specifico, ma nascono dall’humus collaborativo di una comunità. Dal passa parola delle culture orali che sopravvivono e vogliono sopravvivere all’omologazione del cibo industriale. Che si ribellano al semplice tirare a campare al quale sarebbe condannata quella parte dell’umanità che non ha accesso alle risorse, che rimandano a quel piacere estetico che cucinare comporta. Alle “cailles en sarcophage” del pranzo di Babette nel quale i convitati fanno per la prima volta nella loro vita un’esperienza diversa dal cibarsi.
La cucina è politica quando è attenta al dilemma della casalinga che cucina “la minestra di porri e patate” di Marguerite Duras. La cucina è politica quando ascolta il racconto di Peg Braken in “I hate to cook book” le ricette di un’autrice che vuole sfuggire alla tirannia della sua ruolizzazione. Queste sono ricette scritte per chi non ama cucinare. Preparazioni brevi, semplici, che non tolgono tempo ed energie ad attività meno produttive per quelle persone che sono costrette a cucinare; a tutte quelle domestiche non pagate che sono le donne in un regime patriarcale. Ma preparazioni buone da mangiare: di questo si nutre anche la cucina popolare.
Un’altra cosa che bisogna dire di questo lavoro di Barbara Zattoni è che è un libro da leggere dall’inizio alla fine e non come un libro di ricette che si consulta ma non si legge. È un libro di racconti, di donne, di cibo, di cucine, di lotte e di sogni.
Gilberto Pierazzuoli
[1] Cfr. G.Pierazzuoli, Mangiare donna, Jouvence, Milano 2016 e Yuval Noah Harari, Da animali a dei. Breve storia dell’umanità, Bompiani, Milano 2014 nonché Alan Barnard, Antropologia sociale delle origine umane, Il Mulino, Bologna 2014.
[2] J.-P. Vernant, «Hestia-Hermes. Sull’espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci», in Mito e pensiero presso i Greci, pp. 147-200, Torino, Einaudi 1978
[3] Massimo Montanari, Il riposo della forchetta e altre storie intorno al cibo, Laterza, Bari 2009.
Gilberto Pierazzuoli
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