Raccontare storie, dipanare la matassa. Fili, ragnatele, nodi, sono la trama dove si muovono i soggetti, gli autori delle azioni del predicato verbale, in linguistica: gli attanti. Termine più neutro di attore visto che quest’ultimo rimanda istintivamente ad una agency umana. Forse il verbo imbastire rende meglio conto di tutto questo. Imbastire delle storie significa usare un filo meno tenace, tenersi apertə a cambiare percorso, tenersi apertə agli incontri, costruire relazioni. Ogni storia ha un fondo linguistico, comunicativo, fatto fondamentalmente di soggetti e verbi, il resto della grammatica è di aiuto, ma non indispensabile alle storie. Nelle storie imbastite non c’è bisogno nemmeno dell’oggetto, di chi subisce l’azione. Senza un soggetto forte, non c’è bisogno di qualcosa che subisce. L’azione è allora una relazione tra due o più soggetti, umani e non umani, viventi o non viventi. Al limite c’è bisogno di qualcosa che catalizzi le storie, che le provochi. Con un soggetto forte e degli oggetti, non c’è storia: vincono sempre i forti. Il catalizzatore è allora un agente che erode il soggetto, che lo costringe al confronto. Serve un sensale ontologico. Il Matsutake della fine del mondo è un buon catalizzatore, un generatore di storie che Anna L. Tsing ci racconta. Un fungo che sembra irridere la potenza distruttiva dell’occidente capitalista, che non solo sopravvive nelle rovine del capitalismo, ma che prospera a partire da queste rovine. «Si racconta che, quando nel 1945 Hiroshima fu distrutta dalla bomba atomica, la prima forma di vita a spuntare in quel paesaggio raso al suolo fu un fungo matsutake» (p.25).
Cosa è la natura nelle storie senza oggetto? Non è un contenitore di cose, se non un altro soggetto, un contenitore di eventi, delle azioni di innumerevoli soggetti. Nelle cosmologie amerindie, le persone, un fitto brulicare di persone. L’occidente capitalista ha bisogno di oggetti, ha bisogno di materia prima, di materia inerte. Ha allora bisogno di un soggetto forte. Le storie capitaliste hanno così un interprete principale, assoluto e praticamente onnipotente: l’antropo dell’antropocene, l’essere che monopolizza la possibilità delle agency al fondo delle storie e che poi racconta quella unica, solita storia.
Come potremmo allora imbastire relazioni/storie sotto l’occhio vigile del soggetto capitalista? Ci sono però esseri resistenti, sfuggenti le tassonomie umane. Esseri che esercitano la loro esistenza malgrado e dentro il regime capitalista; che esperiscono “la possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo” come ad esempio gli attanti che interagiscono con i funghi matsutake raccontati da Anna Tsing. I funghi, gli alberi, i cercatori, ma anche i mercati, i mercanti e gli acquirenti ultimi. Storie che contengono altre storie. Storie che si svolgono malgrado il capitalismo. Storie di alleanze aspecifiche, tra specie e oltre le specie. Storie di simbiosi, di simbiopoiesi, di agency condivisa che rimanda a un con-fare, perché, in realtà, «[N]ulla si crea da solo, niente è davvero auto-poietico o auto-organizzato» (Haraway, p. 89). E qui che si scopre che il capitalismo e i suoi corollari di dominio non sono così onnipotenti, che c’è del margine per pensare oltre il “realismo capitalista”, oltre TINA, pensare che invece ci sono alternative, che ci sono «potenziali storie in fieri» (p. 52). Storie di vite precarie. «Pensare attraverso la precarietà cambia l’analisi sociale. Un mondo precario è un mondo senza teleologia. L’indeterminazione, la natura imprevedibile del tempo, spaventa, ma pensare attraverso la precarietà evidenzia anche che l’indeterminatezza rende la vita possibile» (p. 48). Significa allora usare la precarietà come strumento di cambiamento, anche se ci sembra strano. È strano perché siamo condizionati da una visione in prospettiva. Con questo non voglio dire che l’alternativa al capitalismo è quella di andare a cercare funghi; non è semplicemente “la possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo”, né quella di “sopravvivere su un pianeta infetto” (sottotitolo italiano di “Staying with the Trouble – Making Kin in the Chthulucene” di Haraway), ma è una storia da costruire/raccontare/dipanare. Se si può vivere anche nelle rovine del capitalismo, se si può vivere anche in un pianeta infetto, c’è sicuramente spazio per “fare” storie anti capitaliste. Ma queste storie di sopravvivenza ci raccontano intanto che le tassonomie antropiche sono dei recinti ideologici che come ennesime enclosures favoriscono l’accumulo capitalista. Bisogna allora inventare storie che facciano a meno dei «corrimani che un tempo ci facevano credere di sapere, collettivamente, dove stessimo andando» (p. 23). Il futuro non è soltanto scalare, un’unità di tempo successiva all’adesso, è vettoriale, ha una direzione. Così il presente – e di conseguenza anche il passato – sono ciò che rimane dopo aver selezionato le cose che potrebbero portare al futuro. Che conducono in quella direzione. Dalla vista così scompaiono cose che abbiamo dintorno perché il nostro sguardo è orientato davanti.
I nodi della rete relazionale, le connessioni e le configurazioni di attanti → soggetti → persone sono degli assemblaggi, dice Tsing. Modi di vivere intrecciati tra di loro. Il concetto di “assemblage” si è usato per tradurre quello francese di “agencement” usato anche da Deleuze e Guattari in Millepiani. Termine che, nelle edizioni italiane di Millepiani, è stato tradotto con “concatenamenti”. In questo gioco di rimandi tra le lingue si espande allora il suo alone semantico. La lingua francese richiama una certa forma di agentività, di capacità di agency, il termine italiano “concatenamenti” richiama invece gli aspetti relazionali, mentre il tutto ci restituisce un termine che ben incarna la sua fattualità concettuale. «Gli assemblaggi non riuniscono soltanto modi di vivere; li creano [agenzialità]. Pensare inserendo il concetto di assemblaggio ci porta a chiederci: perché gli assembramenti a volte diventano “avvenimenti”, vale a dire maggiori della somma delle parti?» (p. 52). L’assemblaggio della Tsing è allora qualcosa che rimanda alla polifonia come il madrigale e la fuga. Un coordinamento tra più enti che agiscono in contemporanea, mantenendo viva la propria traccia, ma anche tenendo viva l’attenzione sulla agency dell’altrə in vista di un risultato favorevole a entrambə. Un assemblaggio, dice sempre Anna, è «un intreccio aperto di modi di essere: in un assemblaggio, traiettorie varie finiscono per influenzarsi reciprocamente, ma conta l’indeterminazione: per capire un assemblaggio bisogna disfarne i nodi» (p. 132). A volte, soltanto una contaminazione. Ciò che non muta, che non viene contaminato diviene uno “standard”. «Senza la possibilità di incontri che trasformino, i matematici possono sostituire la storia naturale e l’etnografia. È la produttività di questa semplificazione ad aver reso tali scienze così potenti, e progressivamente si è dimenticata l’ovvia falsità della loro premessa originale» (p. 59). Un’intuizione rispetto alla quale Anna Tsing era stata preceduta da Bataille che coglieva anche più acutamente il valore etico e condizionante dell’operazione, l’espulsione del non rappresentativo:
Un dizionario dovrebbe cominciare nel momento in cui non offrisse più il senso, ma il lavoro (les besognes) delle parole. Così informe non è soltanto un aggettivo dotato di un certo senso, ma una parola che serve a declassare: in generale si esige infatti che ogni cosa abbia la propria forma. Quello che designa non ha diritti in alcun senso e si fa schiacciare ovunque, come un ragno o un lombrico. Bisognerebbe in effetti, affinché gli accademici fossero contenti, che l’universo prendesse forma. L’intera filosofia non ha altro scopo: si tratta di dare una redingote a ciò che è, una redingote matematica. Al contrario, affermare che l’universo non somigli a niente e non sia altro che informe equivale a dire che l’universo è qualcosa come un ragno o uno sputo. (Bataille, p. 165)
La contaminazione produce diversità. «La trasformazione attraverso la collaborazione, che sia positiva o negativa, è la condizione umana» dice ancora Tsing (p. 62). Occorre allora saper decostruire, mettere in discussione le strade maestre, le prospettive, le visioni prospettiche, ogni forma di trascendenza. Così come la linearità del tempo e del progresso. Il concetto di progresso deriva dal fatto che il sapere non si disperde ma viene tramandato alle generazioni successive. Il sapere è allora figlio della comunicazione; il sapere è informazione e l’informazione dipende dalle relazioni, dall’incontro con l’altrə; da incontri collaborativi e non competitivi. Il progresso non ha – al contrario di quello che si pensa – una direzione: non sempre è davanti, si può anche tornare indietro, scegliere un’altra strada. Ma quando l’accumulo si “sedimenta” la direzione del tempo si cristallizza in un davanti e in un dietro. Le routine algoritmiche che soluzionano le partizioni nelle quali si sono scomposti i problemi, tendono a irrigidire le “procedure”. Le differenti quote di agentività degli enti lavorano anche esse a convogliare il tempo e il progresso nella medesima direzione. L’incontro con altri attanti potrebbe invece far cambiare direzione anche verso una proliferazione rizomatica delle scelte e dei percorsi. I dualismi portano invece a scelte true-false che obbligano a (bi)forcazioni, a percorsi ad albero che allontanano dalla possibile pluralità degli esiti.
Al centro della modernità capitalista c’è l’alienazione; ma non soltanto quella dell’operaio che a differenza dell’artigiano non riesce a inserire i suoi gesti produttivi in un disegno – che diventa estraneo a quei gesti – c’è anche l’alienazione delle cose che diventano beni mobili, alienabili, appunto. Cose, oggetti, «che possono essere trasferite dai mondi in cui viviamo, percorrere distanze considerevoli ed essere scambiati con altri beni di altri mondi, altrove […] L’alienazione evita che gli spazi di vita si intreccino» (p. 30)
Il capitalismo è quell’operazione che rende scalabili i processi. La scalabilità è la capacità di un progetto di cambiare facilmente scala senza apportare alcun cambiamento alla sua struttura. «La scalabilità richiede che gli elementi del progetto siano indifferenti all’indeterminatezza dell’incontro; è così che permettono un’espansione facile. In tal modo, poi, la scalabilità bandisce ogni diversità significativa, vale a dire bandisce ogni diversità che potrebbe cambiare le cose» (p. 71). Il progresso capitalista va così a nozze con le tecnologie informatiche che esasperano in questo modo l’appiattimento della realtà a quella probabilistica, scartando le eccezioni e ogni percorso alternativo. È qui che Anna Tsint porta ad esempio del modello della scalabilità «la piantagione coloniale europea», anticipando la datazione dell’inizio del Capitalocene a quelli del debutto del “Piantagiocene”. La piantagione modello è quella portoghese di canna da zucchero nel Brasile coloniale. La coltivazione avveniva per clonazione perché i portoghesi non avevano alcuna idea di come far riprodurre questa specie originaria della Nuova Guinea. La canna da zucchero si rivelò così una pianta relativamente autonoma con poche relazioni interspecie e quindi indifferente agli incontri. Stessa cosa per gli schiavi africani che scalzati dal proprio ambiente si prestavano a essere elementi «autonomi e perciò standardizzabili come forza di lavoro astratta» (p. 75). Il fine era infatti quello di ottenere il massimo della alienazione, della estraneità al processo, con il massimo della intercambiabilità. «Le piantagioni di canna da zucchero furono il modello di organizzazione adottato nelle fabbriche durante il processo di industrializzazione: le fabbriche riprodussero nei loro stabilimenti alienazioni sullo stile di quelle delle piantagioni.» (Mintz). Modello di base al quale fanno riferimento a tutt’oggi i sistemi di monocultura industriale della terra.
Quello che diversifica gli assemblaggi resistenti che Tsint ritrova sulle tracce del matsutake dal sistema di produzione capitalista è la capacità di quest’ultimo di mettere in atto operazioni di quelle che – con riferimenti a Marx – Tsint chiama “accumulo di recupero”, che non è altro che il processo di sussunzione che il capitale fa nei confronti dei saperi popolari: «la conversione di conoscenze indigene in profitti capitalisti» (p. 103). Tsint riporta un altro esempio, quello delle operaie delle fabbriche tessili messicane alle quali «si richiede che sappiano cucire prima ancora di cominciare il lavoro, perché sono donne» (sottolineatura di Tsint, p. 107). Sperimentare la capacità di vivere tra le rovine, in mondi tossici, diviene così la ricerca di vie di resistenza e di fuga. Anche strumenti di svelamento dei dispositivi di assoggettamento capitalisti.
La raccolta e la vendita di matsutake sono certamente operazioni economiche e di mercato e quindi integrate nel sistema economico capitalista, anche se parte della filiera produttiva si svolge in ambiti leggermente diversi. Anna Tsing parla di “pericapitalismo”, che però sfocia nei modi produttivi globali, con associate le loro forme di accumulo di recupero, di sussunzione, cioè di pratiche provenienti da altri ambiti. Come per il legname che una volta inserito nel circuito globale variava il suo prezzo «senza alcun riguardo per le vite e il sostentamento dei taglialegna, degli alberi o dei residenti nelle foreste» (p. 175). L’esistenza dei matsutake come merce è però preceduta da una fase che non ha niente a che vedere con le forme di produzioni capitaliste. Un fungo appena raccolto non è un bene alienabile, è un trofeo di caccia, una parte di chi li raccoglie, un introiettamento, proprio come se li avessero mangiati. I funghi vivono così una fase tipica di organizzazioni sociali precapitaliste. Sono doni e, in questa veste, creano relazioni e reputazioni; un tipo di valore che non né d’uso, né di scambio o, al limite, di scambio simbolico, proprio come il kula delle isole Trobriand. «Il kula ci ricorda che nel capitalismo sono alienati gli oggetti oltre che le persone. Proprio come nelle fabbriche gli operai sono alienati rispetto agli oggetti che producono e consentono la loro vendita senza alcun riferimento a chi li ha prodotti, anche gli oggetti sono alienati da chi li produce e scambia» (p. 186). Questo ci ricorda anche «come il capitalismo attinga da sistemi di valore non capitalisti – e come questi ultimi si comportino all’intero del capitalismo».
I matsutake costruiscono relazioni, e come doni non possono essere separati da queste relazioni. Anche come prodotto della terra il matsutake ha un rapporto profondo con quello che i francesi, a proposito della provenienza dei propri vini, chiamano terroir. Nel senso che il fungo contiene un racconto, una storia con una pluralità di attanti/personaggi, con intrecci e relazioni che entrano ed escono da ambiti anch’essi diversi e spesso poco compatibili e in relazione a una time line anch’essa diversa e, in qualche modo, “personalizzata”. A questo punto si potrebbe parlare della doppia vita del fungo che entra ed esce da quella delle reti simboliche e relazionali che segnano la sua esistenza a quelle commerciali che esplicitano la sua destinazione. Un insegnamento per riuscire a sopravvivere in un pianeta infetto, tra le rovine del capitale affinando i modi e tessendo le trame per il suo rovesciamento.
Anna Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, Trento 2021, pp. 414, € 25.00.
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Altre citazioni bibliografiche:
Georges Bataille, Documents, Dedalo, Bari 1974
Sidney Mintz, Storia dello zucchero: tra politica e cultura, Einaudi, Torino 1990
Gilberto Pierazzuoli
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