L’ingegnere minerario Giovanni Brussato con questa opera sulle conseguenze ambientali delle escavazioni affronta una tremenda realtà globale rimasta finora fuori della attenzione europea e occidentale, nonostante i formicolanti scavi infernali che abbiamo visto tutti nelle opere di Salgado. Dalla lettura si può ricavare perfino piacere geografico, unito a incubi, La seconda parte presenta infatti capitoli di respiro planetario su rame, cobalto, grafite, nichel, scavi nei mari profondi, corredati di immagini ben scelte e racconti esemplari.
Nel gioco oscuro tra le potenze la questione mineraria è ovviamente al centro da sempre. I colossali gruppi privati che controllano ancora oggi l’estrazione e il commercio minerario e un’infinità di altre tentacolari attività connesse sono non per caso tutti un prodotto dei sistemi coloniali a parte uno, balzato fuori nel 1989 dalla decomposizione dell’Urss, e a parte le imprese cinesi fra l’altro responsabili di alcune delle maggiori desertificazioni e avvelenamenti di acque e terre.
Nel mercato dei minerali (e anche in quello dei combustibili fossili) costituiscono “riserve” i giacimenti che il prezzo corrente del minerale permette di “coltivare” con profitto, ecco perché l’aumento di prezzo di un minerale può farne aumentare di colpo le riserve. Un parametro però è in evoluzione unidirezionale: i giacimenti con un tenore alto sono via via esauriti e diventano allora riserva mineraria rocce di tenore sempre più basso, magari solo dello 0,5% (è il caso del rame) il che significa duecento tonnellate di scorie per ogni tonnellata di minerale, con tutte le conseguenze per lo smaltimento delle scorie e per il consumo crescente di energia dell’attività estrattiva e della raffinazione del prodotto. Quest’ultimo processo inquina sia per l’energia di solito fossile usata, sia per le polveri della frantumazione, sia per metodi come quello della liscivazione con prodotti chimici all’aria aperta, infatti i liquami di spurgo vengono spesso direttamente scaricati nell’ambiente, o sono accumulati in invasi precari, percolanti e causa di frequenti incidenti e disastri che hanno comportato perfino la morte di centinaia di persone alla volta.
I fattori di impatto ambientale dell’estrazione dei metalli sono stati così classificati: acidificazione, cambiamento climatico, domanda energetica cumulativa, eutrofizzazione, ecotossicità nelle acque dolci, ecotossicità dei suoli, ossidazione fotochimica, uso del suolo e tossicità umana. Vittime destinate dell’estrattivismo spesso selvaggio sono le popolazioni talvolta private di mezzi con la distruzione della pesca e della fertlità del suolo e scacciate, gli ecosistemi, soprattutto acquatici, i lavoratori reclutati perfino tra i bambini e l’intera biosfera perché l’industria estrattiva contribuisce alla crisi climatica in modo importante.
Esiste una teoria proposta dall’industria mineraria, ormai costretta come tutti i potenti gruppi economici a giustificarsi con una presunta mission verde, secondo cui la crescita del settore minerario può contribuire in ultima analisi e in un bilancio complessivo alla sostenibilità, fornendo materie prime per società umane più pulite e più efficienti. Questa ipotesi teorica, tuttavia, dipende dal soddisfacimento di una serie di condizioni al momento inesistenti nell’industria estrattiva reale per la sua governance legata al raggiungimento del massimo profitto e che fa largo uso del segreto industriale. Le grandi compagnie minerarie dispongono di immense banche dati geologiche sottratte alla scienza, e agiscono in modo opaco in una guerra di annessione di giacimenti e zone di ricerca.
L’industria estrattiva reale è responsabile per il 20 % delle emissioni globali e la superficie storicamente impattata dalle escavazioni corrisponde a circa 50 milioni di km quadrati, superiore a quella dell’intera Asia. In Europa ce ne accorgiamo poco per ora perché l’estrazione è stata abbandonata per importare minerali da luoghi dove non esistono protezioni ambientali e diritti sindacali e umani. Per una vendetta della storia però l’Europa è oggi nella incresciosa situazione di ritrovarsi dipendente, soprattutto anche se non solo, dalla Cina, per i minerali strategici che servono per le nuove tecnologie, come grafite, litio, nichel, tantalio, antimonio, indio e tanti altri e lo stesso vecchio e sempre più prezioso rame. Dobbiamo aspettarci dunque una ripresa delle attività estrattive in Europa e forse soprattutto nei suoi fondali marini in caccia di elementi che servono per le batterie, per i magneti degli aerogeneratori, per i circuiti informatici, per i pannelli fotovoltaici, per tutte le tecnologie di punta in particolare per quelle che sono ritenute indispensabili alla transizione energetica e quindi all’uscita dall’energia fossile.
I calcoli globali ci dicono al momento però che l’attuazione dei piani di sostituzione lineare dei motori a combustione e delle centrali fossili con motori elettrici a batteria e centrali a energie rinnovabili richiederebbe una tale quantità di questi elementi in più da essere semplicemente impossibile: non esistono infatti riserve per una sostituzione su questa scala. Ciò significa che in ogni caso la transizione energetica non è pensabile come sostituzione lineare di un sistema industriale energivoro con un altro sistema industriale altrettanto energivoro e altrettanto famelico di materiali.
Un capitolo a parte poi meriterebbe la questione del carbone, che è pur sempre necessario negli altiforni dove viene prodotto l’acciaio che insieme al cemento armato è la componente essenziale delle sottostrutture dei generatori eolici. Una turbina eolica da 5 MW pesa complessivamente circa 900 t, a cui si sommano oltre 2.500 t di calcestruzzo. Per costruirla occorrono 750 t di acciaio e di minerale di ferro, circa 35 t di fibra di vetro, circa 25 t di zinco, circa 1,5 t di nichel oltre a molti altri metalli rari. Emerge con evidenza il punto debole degli impianti a fonti eolica e solare, oltre a quello ben noto dell’intermittenza: a parità di energia prodotta, hanno bisogno di infrastrutture e superfici ben più ampie e consumano quantità ben superiori di materiali rispetto agli impianti a combustione e nucleari.
Il titolo del libro mette in luce dunque il rapporto stretto tra questione mineraria e questione energetica, quindi l’impatto calcolabile della transizione energetica così come viene annunciata e proposta , contemplante prima di tutto la diffusione ovunque degli impianti eolici e solari e la sostituzione dei veicoli a combustione con veicoli elettrici, due aspetti che avrebbero conseguenze in termini di aumento delle escavazioni e quindi di maggiore inquinamento e di ulteriore fabbisogno energetico.
Questo paradosso dell’insostenibilità delle tecnologie sostenibili è il punto cruciale del libro, anche se non se ne può ridurre il contenuto a questo. Non siamo di fronte a un pamphlet infatti, come forse potrebbe far pensare il titolo, ma a un’opera metodica sull’intera criticità ambientale del sistema minerario.
L’autore evita di trarre delle conseguenze definitive dalle contraddizioni che ci mette sotto gli occhi e non ha soluzioni semplici da proporre. Il tema delle possibilità di riciclare e recuperare parte degli elementi necessari alla transizione energetica non è trascurato: si fa vedere che non può rappresentare la soluzione, ma anche che deve comunque fare parte di questa. Ma ci sono limiti fisici ed energetici alla riciclabilità dei materiali.
Senso della complessità unito alla scrupolosità della documentazione danno a questo libro uno stile fattuale. Un nuovo campo di conoscenza e di coscienza diventa irrinunciabile per la politica a tutti i livelli. Tuttavia risulta già con chiarezza che affrontare la transizione energetica con una impostazione che implichi il rilancio dell’estrattivismo sarebbe oltre che distruttivo, un mettersi in un vicolo cieco.
La questione può essere impostata in modo razionale e perfino ingegneristico, introducendo un bilancio costi/benefici (energetici e ambientali) trasparente (si deve certificare la filiera produttiva) e decifrabile per tutte le attività umane e quindi anche per le energie rinnovabili, questo riguardo sia i singoli impianti industriali sia i grandi piani pubblici di transizione energetica come quello attuale dell’Unione Europea sia i faraonici piani privati di sostituzione tecnologica come quello della Tesla di Elon Musk.
Il problema è di studi tecnici preventivi completi ma anche di informazione pubblica. Esattamente ciò è assente in megaprogetti di eolico come quello che si vuole impiantare sul crinale mugellano per esempio, che evita di rispondere anche alla semplice richiesta di life cycle assessment (bilancio delle emissioni) avanzata sì, ma non imposta dalla timida Regione Toscana.
In conclusione il libro fornisce dati di tale forza ed evidenza che il lettore potrebbe essere indotto a relativizzare e ridimensionare l’importanza della decarbonizzazione rispetto agli altri pericoli ambientali incombenti. Ma sarebbe davvero il più grande errore per gli ambientalisti e per tutti lasciare il tema della decarbonizzazione nelle mani di chi ne vuole fare il grimaldello e la bandiera ideologica per un nuovo assalto al pianeta.
Paolo Chiappe
Giovanni Brussato, Energia verde? Prepariamoci a scavare. I costi ambientali e sociali delle energie rinnovabili, Edizioni Montaonda, San Godenzo 2021, euro 20.
Paolo Chiappe
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Nel 2017 in Italia abbiamo consumato quasi 2000 TWh di energia primaria. Di questa solo il 18.7% proveniente da fonti rinnovabili.
Anche riducendo drasticamente i consumi energetici, attraverso un taglio radicale dei consumi e una maggiore efficienza energetica resta ancora moltissima energia da produrre.
Come la volete produrre, questa energia?
In Italia abbiamo ancora 6 centrali a carbone, che producono il 6% dell’energia elettrica, come possiamo sostituirle?
E il 36% dell’energia prodotta dal gas?
Ospedali, trasporti pubblici, riscaldamento delle case. Non parliamo di alimentare le Porsche elettriche e le cave a Cervinia dell’1%, parliamo delle condizioni di vita del 99%.
Parlare di sostenibilità non solo ambientale, ma sociale, senza rispondere a queste domande non ha senso.
A meno di non tenerci le nostre centrali termoelettriche, il cui impatto, per il solo fatto di essere già sul territorio, ci dimentichiamo. Sono già lì, ci siamo abituati alla loro presenza.
Nel 2019 770 milioni di persone non avevano accesso all’elettricità. Nel Sudan del Sud solo l’1% della popolazione ha accesso all’elettricità, nella Repubblica Democratica del Congo l’8.7%. Sono paesi dove costruire infrastrutture di rete è difficilissimo, e dove il fotovoltaico può salvare la vita. In senso letterale.
Bisogna ridurre i consumi, su questo penso che siamo tutti d’accordo (tutti, ma in minoranza: convincere la maggioranza della popolazione che la riduzione dei consumi è la via maestra sarà davvero difficile) ma illuderci che la sola riduzione dei consumi possa essere risolutiva è ingenuo, e rischiamo di fare la parte degli stupidi idioti che sostengono i peggiori inquinatori del pianeta, le compagnie Oil&Gas.