Parte I «A Cosenza avevo un fidanzatino che io trovavo veramente troppo carino e me ne innamorai subito. Lui mi chiese “Riprendiamoci” e io dissi di si. Perché no? Ma poi gli dissi “Cancella questo video” e lui disse che lo avrebbe fatto, ma non lo fece mai e nel giro di due anni sono finita sui telefoni di tutta Cosenza, di tutta la Calabria ed è diventato un caso internazionale finendo su un gruppo Telegram di revenge porn con 77mila iscritti. Sapete cosa mi disse la Maletta quando andai a denunciare la questione, quando le andrai a dire che sarebbero arrivati i poliziotti a scuola per poter interrogare le persone? Che me l’ero cercata, che era colpa mia, era tutta colpa mia, che mia nonna – che io non ho mai conosciuto – si sarebbe vergognata di me. Quando poi iniziai a fare attivismo, iniziai a raccontare quello che lei mi aveva detto e che mi aveva detto di fronte a mio padre e lei iniziò a dire che erano illazioni e che sparavo cazzate. Allora, in quel momento, nel gennaio del 2022 mi sono tornate in testa tutte le cose che lei ha sempre nascosto: tutte le volte che le ho raccontato del bullismo, tutte le volte che le ho raccontato degli abusi che vivevamo in classe, soprattutto noi ragazze, e di quanto lei minimizzava, di quanto lei diceva che non sapevamo prendere gli scherzi perché eravamo piccole, che il professore in questione non avrebbe mai fatto niente del genere. Cara Maletta, io mi ricordo tutto. Mi ricordo le mani su di me, me lo ricordo che mi chiamava panterona e polpettina. Mi ricordo tutte le battute sul mio culo e sulle mie tette, mi ricordo tutto perché gli abusi non si lavano via. È dai nostri ricordi che è nato la pagina Instagram Call.out Noi non finiamo fino a quando non ci sarà riconosciuto che ci sono delle realtà così tristemente radicate che è anche difficile riconoscerle. Io le violenze le ho riconosciute dopo quattro anni, perché pensavo fosse normale che un professore mi toccasse, che mi dicesse che voleva farsi due botte con me, eppure non è normale e siamo qui a gridarlo a gran voce».
In queste righe risuona la voce di Dalia, un’ex studentessa dell’Istituto di istruzione superiore Valentini-Majorana di Castrolibero, alle porte di Cosenza. Dalia, attivista femminista e creatrice del podcast Fai la signorina, è stata la prima a denunciare pubblicamente le molestie di uno dei professori del suo liceo e, grazie alla sua testimonianza, si è innescato un effetto domino che ha reso la scuola protagonista di una vera e propria vicenda mediatica. Questa storia, però, inizia nel 2018, quando il video intimo condiviso senza il consenso di Dalia iniziò a circolare anche all’interno del Valentini-Majorana. La reazione generale degli studenti, dei professori e della presidenza non fu quella di garantire supporto a Dalia, vittima a tutti gli effetti di una violenza, ma la ragazza fu colpevolizzata per l’accaduto e fu vittima di battute sessiste e accuse per via del suo comportamento sessuale. Dalia in quell’anno sporse denuncia, ma non esisteva ancora il Codice Rosso che nel 2019 introdusse nell’ordinamento italiano il reato di revenge porn, e l’iter legale fu lento proprio perché quando lei denunciò non esisteva un reato specifico cui far riferimento. Il tempo passa, Dalia cresce e prosegue il suo percorso da attivista femminista fino a quando, nel dicembre del 2021, decide di condividere la sua storia in uno degli episodi del suo podcast e da quel giorno la storia accelera. La storia di Dalia comincia ad esser raccontata da varie testate giornalistiche e da allora inizia a ricevere messaggi da altre studentesse del suo ex liceo, che le scrivono per condividere con lei le loro storie di molestie subite tra i banchi di scuola. Dall’insieme di tutte quelle storie nasce l’esigenza di creare la pagina Instagram @call.out.valentini.majorana, un posto sicuro in cui poter condividere le proprie esperienze di molestia all’interno della scuola.
Chi dice che il virtuale non sia reale, come se il web rappresentasse una realtà parallela e alternativa rispetto al mondo offline, mente e questa storia ne è la prova: la pagina Instagram, che pubblica il suo primo post il 29 gennaio chiedendo di liberare la scuola dai pedofili, nasce per lasciar spazio alle testimonianze delle ragazze che offline non se la sentivano di esporsi, magari per vergogna o per paura del giudizio altrui; dalle testimonianze social fiorisce la consapevolezza collettiva di star vivendo un’ingiustizia e una violenza e da qui un movimento attraversa la scuola e gli sfoghi su una pagina Instagram si trasformano nell’occupazione di un istituto. Il 3 febbraio le studentesse e gli studenti hanno dato il via a un’occupazione con delle finalità precise: allontanare il professore accusato di molestie e fare in modo che la scuola potesse tornare ad essere un luogo sicuro.
È il primo caso in Italia di un’occupazione studentesca portata avanti in segno di denuncia e protesta verso delle molestie subite da alcune studentessa per mano di un docente. Lo scenario ideale sarebbe stato uno e uno soltanto: la preside della scuola, Iolanda Maletta, avrebbe potuto accogliere le testimonianze delle sue studentesse e richiedere alle autorità competenti di far chiarezza e, nel frattempo, allontanare il docente. La realtà, tuttavia, contraddice spesso i nostri desideri e la faccenda è proseguita con sviluppi ben diversi: Maletta ha sporto denuncia contro la pagina Instagram, e di riflesso contro la sua creatrice Dalia, per diffamazione negando di fatto la possibilità che il professore abbia perpetuato gli abusi di cui si parla. Da qui gli attacchi verso la dirigente scolastica, accusata di essere a conoscenza del comportamento del professore e di aver deliberatamente insabbiato la storia per tutelare il buon nome della scuola. Le studentesse spiegano di aver parlato con la preside, di averle raccontato le loro storie e di aver avuto sempre riscontri negativi, il professore in questione al massimo era spostato da una sezione all’altra ma restava comunque a scuola. Nei giorni dell’occupazione anche una seconda ragazza, Jennifer, trova il coraggio di denunciare quella volta in cui il professore le chiese una foto del seno per arrivare alla sufficienza e racconta di averne parlato con la preside, la quale avrebbe garantito di denunciare e licenziare il docente in questione ma ciò non accadde mai. Alle accuse di omertà rivolte a Maletta si aggiunge quella di Adele Sammarro, professoressa della scuola e madre di uno studente. Nel mese di ottobre il figlio di Sammarro, Samuele, fu selvaggiamente pestato davanti i cancelli della scuola e la madre accusa la dirigenza di non aver chiamato le forze dell’ordine per intervenire e fare chiarezza sull’atto di bullismo, ancora una volta.
Prima di andare oltre, è interessante soffermarsi su questa indifferenza verso il dolore delle studentesse e degli studenti. Nelle scuole, Valentini-Majorana compreso, esistono progetti in cui si parla di violenza, bullismo, discriminazione di genere ed esistono giornate dedicate a temi degli abusi e delle violenze contro le donne, ma come è possibile allora che sia così difficile intervenire quando quei fenomeni si manifestano tra le mura della propria scuola? Ne abbiamo discusso con Roberta Attanasio, delegata del Centro Antiviolenza Roberta Lanzino di Cosenza.
«Se la preside avesse dato la giusta attenzione a quello che le veniva detto, non saremmo stati qui. Lei avrebbe dovuto fermare molto prima questa situazione, che non lo volesse fare lo abbiamo capito molto prima, da quel ragazzo malmenato violentemente davanti scuola. È inutile fare corsi contro il bullismo o contro la violenza di genere se poi non vuoi vedere. A che ti servono? A procacciare questa missione aziendalista della scuola che prende fondi e fa progetti, ma poi nella qualità della vita dell’istituto non cambia niente. Dopo qualche giorno, noi abbiamo ricevuto una richiesta di ascolto da parte di alcune docenti, venivano per nome e per conto della preside facendo parte dello staff della direzione, e per loro tramite la direzione ci stava chiedendo di interessarci per un corso di formazione. Anche loro erano consapevoli che noi non avremmo mai fatto un corso per i ragazzi, ma era necessario partire dalla classe docente e, devo dire la verità, anche loro erano abbastanza convinte perché dicevano che, nonostante la scuola sia una delle prime scuole a Cosenza ad aver fatto progetti contro il bullismo, contro la violenza di genere e sulle pari opportunità, è successo quello che è successo e loro non se ne erano accorti e ora sono innegabilmente dalla parte dei ragazzi. Noi siamo felici che avessero individuato nel centro una risorsa che in questo momento potesse dare una mano per la formazione, ma abbiamo detto che aspettavamo che questa situazione, in qualche modo, trovasse una conclusione perché come discuti con una preside che è completamente delegittimata?
A parte una considerazione personale che posso fare, su come la scuola diventi sempre più manageriale nell’accaparramento di fondi e nella realizzazione di progetti. Questo conferma l’idea che abbiamo, ossia che la violenza di genere è quasi invisibile, nel senso che non è percepita dagli occhi. In questo caso, anzi, oltre a non essere stata percepita i ragazzi se la sono comunicata questa cosa però non ne hanno parlato con le insegnanti».
Ma è possibile che tra i docenti nessuno abbia capito prima la situazione? «Stiamo parlando di una scuola grandissima dove, se non erro, ci sono tra i 120 e i 130 docenti e quindi non è facilissimo avere tutto sotto controllo. Quello che abbiamo capito è che, in qualche modo, ci fosse un inquinamento ambientale: se il professore faceva delle battute sessiste, questo atteggiamento veniva recepito dai compagni maschi come un’autorizzazione o un lasciapassare a fare delle battute sessiste. Siamo in una situazione in cui c’era un inquinamento ambientale, quindi come potevi distinguere questa cosa? Sono solo battute, no? Anche la preside difende questo comportamento del professore e dice “sei proprio sicura? Ma lui scherza, lui ride, lui vuole fare lo spiritoso. Sei proprio sicura di aver capito bene?” mettendo in discussione il fatto che, se uno ti incita ad andare in bagno e farti una foto al seno per avere la sufficienza non è una molestia ma una battuta. Questa situazione è tossica perché, se già hai difficoltà a riconoscere una molestia, nel momento in cui legittimi certi comportamenti autorizzi anche i ragazzi a fare queste battute verso le loro compagne».