Le periferie raccontate dagli imprenditori della paura

lavavetriLa lunga stagione dei sindaci sceriffo – a ben vedere mai davvero chiusa – ha lasciato segni indelebili nel modo di raccontare le periferie e tutto ciò che sfugge al modello idealizzato del centro cittadino, un’entità immaginaria costruita attorno alla triade commercio – pulizia – polizia. Comuni d’ogni colore politico hanno emesso ordinanze per vietare, impedire, ostacolare comportamenti e condotte inadatte alla città immaginaria costruita a tavolino: chiedere l’elemosina, suonare il violino fra i tavoli di un ristorante, sostare sul gradino di una chiesa, mangiare al sacco sopra una panchina, appendere panni ad asciugare nel centro storico, nutrire i piccioni, vestirsi senza rispettare i canoni correnti eccetera eccetera.

La città di Firenze ha fatto storia con la sua ordinanza contro i lavavetri. Era il 2007 e l’amministrazione guidata da Leonardo Domenici spedì al fronte della “guerra ai poveri” l’assessore Graziano Cioni. Firenze fu il primo importante Comune di centrosinistra a imitare la destra leghista sul terreno delle ordinanze di divieto in nome della cosiddetta sicurezza. Con quell’atto cadeva un argine, in verità ormai molto fragile, che fin lì aveva separato destra e sinistra. La prima impegnata senza scrupoli nella lotta ai migranti e nell’uso politico della xenofobia e della paura; la seconda sempre meno convinta delle proprie radici storiche e quindi incapace di rispondere a diffidenze e disagi con gli strumenti della razionalità, della solidarietà, dell’incontro.

È la stagione in cui Repubblica mette in prima pagina la lettera di tale Poverini che confessa il cedimento di un’intera tradizione culturale e politica: “Aiuto, sono di sinistra e sto diventando razzista”, è il titolo di quell’infelice intervento, zeppo di dicerie e stereotipi, divenuto inopinatamente il manifesto informale del nuovo corso destrorso.

La grave recessione e il terremoto partitico che ha cambiato i volti (assai meno la sostanza) della politica nazionale hanno per qualche tempo messo in secondo piano la questione immigrati-sicurezza. Ma è stata solo una parentesi: basta seguire l’evoluzione della “nuova Lega” di Matteo Salvini per averne percezione. Sono ripartite le campagne d’odio contro i rom e gli immigrati, campagne destinate a grande successo elettorale, poiché trovano un terreno fertile, dissodato appunto al tempo dei sindaci-sceriffo. La retorica securitaria è diventata senso comune e chi poteva contrastarla l’ha fatta propria, dimenticando l’insegnamento di Antonio Gramsci, quando ricordava che il senso comune è spesso l’esatto opposto del buon senso.

L’ideologia della sicurezza, la retorica del migrante uguale clandestino uguale criminale, l’esplosione dell’antiziganismo hanno sconvolto il modo di raccontare tutto ciò che è periferia. Periferia fisica ma anche periferia sociale, unite in un inestricabile destino di pietra di paragone per ciò che deve intendersi come buono, civile e desiderabile. La periferia è un concetto usato come respingente per definire e legittimare il suo opposto, cioè la città modello della triade commercio-pulizia-polizia. Gli imprenditori politici della paura hanno dettato la linea e definito il vocabolario. È nato addirittura un genere giornalistico mai esistito prima, con la categoria del “degrado”, un ibrido fra cronaca nera e cronaca bianca, il punto di congiunzione fra esercizio del governo locale e funzioni di polizia.

“Degrado” è tutto ciò che deturpa e disturba la città idealizzata, cioè la città che si pretende come solo “centro”. Un centro sia fisico sia sociale. Fisico: il centro storico monumentale, declinato come luogo sacro, un museo all’aperto destinato a “valorizzazione”, cioè a un uso privato e commerciale cui subordinare ogni funzione sociale. Centro sociale secondo l’idealtipo del cittadino come consumatore, preferibilmente autoctono, di pelle bianca, di ceto medio, politicamente pacificato.

È dunque “degrado” tutto ciò che in ogni strada, piazza, edificio, angolo e anfratto non coincide con un’idea asettica, de-umanizzata di strada, piazza, edificio eccetera; la città-tutta-centro deve somigliare quanto più possibile alla città-ipermercato. Il concetto estetico corrispondente è il “decoro”, usato spregiudicatamente per giustificare operazioni di pulizia, di polizia, di ristrutturazione urbanistica a fini commerciali. Il “decoro” prima impone di non mettere i panni alla finestra, poi consiglia di allontanare dal centro monumentale i cittadini meno abbienti, infine di appaltare i “luoghi sacri” a qualche grande marchio commerciale.

È fonte di “degrado” anche quell’umanità che non corrisponde al cittadino-consumatore tipo: che siano lavavetri o rom, mendicanti o suonatori di musica, persone a basso reddito o semplici cittadini non pacificati. Ufficialmente non si dice, ma nella pratica c’è una fetta di umanità considerata parte del “degrado”, cioè periferia, irriducibilmente altra, di fatto irredimibile.

È insomma entrata nel senso comune giornalistico e politico un’ideologia dell’esclusione che è segno – essa sì – di una grave forma di degrado civile e culturale.

Lorenzo Guadagnucci, autore di “Lavavetri” (Terre di Mezzo, 2009)