Poco prima del referendum costituzionale, negli ultimi giorni di novembre scorso, è stata data la notizia di un trovato accordo tra i tre sindacati confederali e Federmeccanica per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici. Un accordo arrivato dopo oltre un anno di trattativa e che ristabilisce l’unione tra Fiom, Fim e Uilm, dopo oltre otto anni e due rinnovi di contratto a firme separate. Un passo considerato importante anche da Matteo Renzi, che forse sperava, grazie a questa firma “pesante”, di incassare un segnale positivo e spostare voti in favore del SI. Così non è stato, ed anzi, per molti delegati metalmeccanici la fine della battaglia sul referendum costituzionale (alla vittoria del NO hanno contribuito in maniera determinante i voti dei lavoratori dipendenti) ha coinciso con l’avvio di una nuova battaglia per un nuovo NO: quello al referendum cui sono stati chiamati a votare i metalmeccanici, per accettare o meno l’ipotesi d’accordo.
Nonostante infatti l’unanimità con cui l’ipotesi di accordo è stata accolta – da sindacato confederale, Confindustria e Governo, nonché da una parte della sinistra –, questa sembra non essere piaciuta molto ad una parte importante dei lavoratori, tanto che il 6 dicembre a Firenze è stata convocata un’assemblea di delegati metalmeccanici, con il compito di organizzare la campagna per il NO al referendum nelle fabbriche, cui si è aggiunta un’assemblea nazionale dei metalmeccanici iscritti a USB, il 17 dicembre successivo a Bologna.
Il motivo è semplice: l’accordo e il concomitante riavvicinamento di FIOM a FIM e UILM sono stati ottenuti sulla pelle dei lavoratori, sancendo così la normalizzazione definitiva della dirigenza FIOM, dopo la lunga stagione degli accordi separati.
L’accordo, che abbiamo provato ad analizzare approfonditamente qui, prevede una serie di precedenti molto pericolosi, che lo sono ancora di più se consideriamo il fatto che il CCNL metalmeccanici non è uno tra i tanti contratti collettivi, ma rappresenta la costituzione materiale del lavoro.
L’aumento salariale si basa per la prima volta su una sorta di scala mobile al contrario (gli aumenti saranno calcolati sull’inflazione reale ed erogati a luglio dell’anno successivo e dunque non saranno prevedibili né certi). Inoltre, nonostante tutti i mezzi di comunicazione abbiano parlato di 92 euro di aumento, la realtà è che di questi solo 51 euro in quattro anni entreranno in busta paga (sempre che l’inflazione rispetti le aspettative). Il resto sarà corrisposto obbligatoriamente sotto forma di “welfare aziendale”, il che vuol dire che quel denaro non è spendibile a piacimento dai lavoratori. Infine si afferma il principio per cui qualsiasi aumento fisso strappato ai lavoratori in sede aziendale, non sarà cumulabile con l’aumento previsto dal CCNL.
Anche sul piano normativo emergono delle forti concessioni nei confronti delle aziende: vengono introdotte 80 ore di flessibilità che l’azienda deve solo comunicare, e dunque non contrattare con le RSU, che vedono il proprio ruolo molto indebolito.
C’è poi una deroga alla legge 104 che impone di comunicare all’azienda i permessi dieci giorni prima che inizi il mese di riferimento: il lavoratore che usufruirà di permessi dovuti all’invalidità grave di un congiunto, si troverà nella situazione di dover giustificare le proprie assenze. Il tutto condito dal Jobs Act e dalla recezione dell’Accordo sulla Rappresentanza del gennaio 2014, che restringe decisamente il diritto di sciopero.
Vince il SI. Oppure NO?
L’accordo è stato approvato dall’80% dei lavoratori. Parrebbe una vittoria bulgara del SI, ma bisogna considerare alcuni aspetti niente affatto secondari: il SI era sostenuto da tutte le più importanti strutture sindacali (FIOM, FIM e UILM), che dispongono di un apparato organizzativo imponente e sono in grado di monopolizzare non solo la propaganda, ma le stesse operazioni di voto, ancor di più in un periodo non particolarmente “caldo”, come quello a ridosso delle vacanze di Natale. Al contrario il NO si è mosso su binari molto più ristretti, appoggiandosi alla piccola opposizione CGIL de Il sindacato è un’altra cosa (che conta percentuali congressuali molto basse in CGIL, intorno l 3%) a gruppi di operai scontenti e informati presenti nelle fabbriche, ed al lavoro di quei volenterosi che hanno volantinato di fronte agli stabilimenti più importanti. La campagna che c’è stata nelle fabbriche, nella maggior parte dei casi, e in particolare nelle piccole fabbriche, è stata condotta a senso unico, essendo state le ragioni del No completamente nascoste e censurate (secondo una strana concezione della democrazia). Niente a che vedere, insomma, con la lunga campagna sul referendum costituzionale.
Nonostante l’esiguità della base militante su cui ha potuto basare la sia campagna, il No ha quasi raggiunto il 20%, vincendo nelle fabbriche dove era presente una qualche sinistra sindacale ad esprimere le ragioni del NO, o anche dove la campagna auto-organizzata è riuscita a incidere, grazie ai volantinaggi e agli speakeraggi; dove c’è un’organizzazione sindacale ben radicata tra i lavoratori.
In Toscana il NO ha vinto alla CSO di Scandicci;, alla GKN di Campi Bisenzio, alla Nuovo Pignone di Massa; alla Piaggio di Pontedera; alla Continental di Pisa; alla Scienza e Fabbrica Machinale di Cascina; alla Fabio Perini di Lucca; alla CMG Gambini di Altopascio; alla Tesar di Sabbiano. Come ha rilevato un editoriale de Il sindacato è un’altra cosa, ognuna di queste fabbriche, pesa tanto, anche oltre il numero di voti che hanno portato, “perché sono quelle più grandi, più combattive e più militanti, quelle su cui un sindacato può contare quando decide di mobilitarsi e scioperare. E qualunque sindacato che non si ponga il serio problema che i settori più combattivi e organizzati della classe, quelli che normalmente scioperano, abbiano respinto questa linea contrattuale, rischia di perdere il contatto con la realtà”.
Un’eredità da cogliere
Consci del fatto di aver aperto una breccia nell’alleanza tra padroni e sindacati, i delegati che hanno organizzato l’assemblea del 6 dicembre hanno deciso di riaggiornarsi nuovamente a Firenze il prossimo 24 gennaio. Si tratta a questo punto di sostenerli, per evitare che queste forze – che hanno mostrato di essere ben presenti nelle grandi industrie, nei gangli produttivi di questo paese – restino isolate dalla grande massa della categoria e della classe. Occorre dunque, da un lato, monitorarle azienda per azienda, valorizzando ogni risultato positivo in termini di non-applicazione dell’accordo. Ma la vera sfida nel medio periodo sarà connettere materialmente questi 70.000 No agli altri posti di lavoro, perché fungano da elemento di coscienza sui propri territori.
Di fronte al ritiro del sindacato dal conflitto, di fronte all’indebolirsi delle difese categoriali, occorre ricostruire la coscienza di classe a partire dalla solidarietà, dal supporto reale alle singole vertenze presenti sul territorio. Dalla costruzione di forme di coordinamento, di supporto alle vertenze e di dibattito politico tra lavoratori: quello che un tempo sono state le vecchie Camere del Lavoro.
Questa prospettiva si può già innescare nell’immediato: una occasione saranno i referendum abrogativi indetti dalla CGIL, sui quali, se saranno ammessi dalla Corte Costituzionale, dovremo dare battaglia, coinvolgendo in primo luogo i metalmeccanici, sfruttando l’occasione per stimolare il loro protagonismo e provare a tornare a vincere.
Tutti insieme, perché la sinistra o è lotta di classe, o non è niente.
*Clash City Workers
Clash City Workers
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