Pubblichiamo di seguito l’introduzione al libro La città e l’accoglienza, di Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia ed Enzo Scandurra (manifestolibri, 2017).
Un Popolo Nuovo arriva alla frontiera della civilissima Europa. Un Popolo composto dai “dannati della Terra”; da coloro che non hanno più nulla da perdere perché hanno perso tutto. Parte da lontano: dalla sponda sud del Mediterraneo e, prima ancora, dai paesi dell’Africa. Attraversa deserti, fiumi e mari; abbandona alle proprie spalle luoghi di morte: rovine in fiamme, terre desertificate dal furore predatorio del modello occidentale. All’Europa presenta il conto da pagare per gli anni di benessere da essa goduto estraendo ricchezze dai loro territori.
Nelle città europee, un tempo luoghi di accoglienza e di ibridazioni etniche, sociali, religiose, si alzano muri per fermarne il cammino, per arrestarne la marcia silenziosa. Così la Fortezza-Europa pensa di difendere se stessa dall’“invasione”. Fuori da quei muri ci sono loro, i nuovi barbari, che fuggono da terre devastate; dentro quei muri i cittadini che hanno goduto dei dividendi provenienti dalle loro terre. Solo governi miopi e terrorizzati di perdere i loro antichi (e attuali) privilegi possono pensare di fermarli. L’Europa rischia la barbarie poiché si mostra incapace di affrontare la crisi da essa stessa provocata, il nuovo disordine mondiale prodotto dalla sua politica coloniale. I governi degli stati nazionali sono divisi e imbelli, tenacemente decisi a difendere una identità nazionale figlia di “mille letti” e spazzata via dalla Globalizzazione.
L’Europa disporrebbe di strumenti assai più efficaci per disinnescare il conflitto che non l’erezione di muri. Si chiamano: accoglienza, diritti, libertà, riconoscimento dell’alterità. E invece l’Europa non ha saputo fare altro che riscoprire il valore del “confine” compiendo un pericoloso passo indietro rispetto alle questioni di inclusione e di libera circolazione.
Dagli anni Novanta si è assistito in tutte le città del mondo, con intensità variabile, a un processo di deregolamentazione che ha fiancheggiato la privatizzazione di intere parti di città. La città è diventata il luogo dove si manifestano e si concretizzano logiche finanziarie il cui obiettivo non è migliorare le sue condizioni di vivibilità, ma aumentare i profitti d’impresa.
Questo libro, scritto da urbanisti, nasce per sostenere una tesi opposta alla tendenza in atto che vede la città farsi fortezza contro il “diverso”. La nascita e lo sviluppo delle città europee ci parla di un’altra storia dove il meticciato di lingue ed etnie, insieme al dovere dell’accoglienza, caratterizzavano lo splendore delle città e la loro solidità civile. Ricordare questa lunga storia non è oziosa operazione accademica: essa sola può aiutarci a costruire un futuro di pace considerando i nuovi transiti e le nuove migrazioni anziché fenomeni da demonizzare e da cui difenderci, occasioni di un nuovo vivere insieme e di ripensare l’idea stessa di città moderna.
Perché la storia ci insegna che le nostre città sono l’esito di complessi e straordinari processi d’interazione e di scambio tra componenti culturali eterogenee. È grazie a questi processi, prodotti dall’incontro-scontro di differenze, che esse hanno acquisito la forma attuale sussumendo i diversi modi dell’essere insieme e di costruire beni comuni.
È noto come la storia d’Italia negli ultimi secoli del Medioevo coincida con quella delle sue città, le quali furono, fra l’XI e il XII secolo, caratterizzate da un grande dinamismo demografico ed economico. Nell’ambito di questo sviluppo, le comunità urbane erano costituite da persone tra loro molto diverse: mercanti, immigrati dal contado, operai, artigiani, religiosi, studenti universitari, forestieri, mendicanti e proprietari di grandi fortune. Facevano parte di questa comunità anche gli appartenenti a etnie e a confessioni religiose minoritarie, come gli ebrei, i musulmani, i greci, tutelati da uno stato giuridico particolare.
Il carattere accogliente e ospitale che risale alle origini della città e ne costituisce l’essenza profonda, attraversa la lunga storia urbana e ricorre negli statuti delle città europee.
Lo possiamo osservare, oltre che nei processi che hanno contribuito a generare le città, nelle stesse architetture dedicate all’accoglienza, a lungo considerata atto dovuto e, soprattutto, gratuito: dall’ospitalità caritatevole di matrice ecclesiastica, nell’alto medioevo, all’accoglienza laica inquadrabile nel fenomeno della «religione civica» delle città comunali.
Già dal v secolo le città si dotano di architetture deputate all’accoglienza: xenodochia, hospitia, foresterie. Ricoveri sorgeranno presso le sedi vescovili nel cuore della città, nei monasteri esterni alle mura, lungo le vie di pellegrinaggio e sui valichi montani.
Secoli dopo, le libere città comunali rappresentano una concreta possibilità di miglioramento delle condizioni di vita dei “servi villatici”, in fuga dal contado: dietro le mura di cinta la vendetta dei loro signori non avrebbe potuto raggiungerli («l’aria della città rende liberi»). In quest’epoca, presso il ceto che oggi definiremmo “dirigente”, si diffonde l’aspirazione alla fondazione di monasteri, cappelle e, non ultimi, di ospedali. Le città europee conoscono così un’ondata di fondazioni di case di mendicità nelle quali trovano rifugio: pauperes, peregrini, transeuntes, mulieres in partu agentes, parvuli a patribus et matribus derelicti, debiles et claudi, generaliter omnes.
Oggi siamo di fronte a un processo di occupazione e privatizzazione delle città ad opera di gruppi economici e finanziari che promuovono politiche urbane che massimizzano profitti e producono nuove povertà, a tal punto che è lecito chiedersi: di chi è la città?
E tuttavia, alle porte delle nostre città chiamate postmoderne, si affaccia un mondo composto di persone in movimento, di soggettività fluide, di alterità, dei diversi e non assimilabili. La moltiplicazione e l’intensificazione dei flussi migratori agisce da contrappeso alla privatizzazione e, anzi, la contrasta. Le città ridiventano incroci di progetti di vita che producono nuovi spazi pubblici conseguenti alle pratiche di scambio messe in azione dai migranti e quelle di supporto ai diversi progetti migratori: le pratiche di mutuo-aiuto dei migranti e quelle delle società ospitanti. Locale e globale s’intrecciano e interagiscono in forme sconosciute nelle epoche precedenti producendo, nelle città, nuove centralità, nuovi e inediti luoghi di incontro, luoghi-sosta di radicamenti dinamici e di mobilità multiformi, luoghi-intersezione di nomadismi che cortocircuitano la dimensione locale e quella globale.
Il tradizionale rapporto comunità/territorio tende a modificarsi. La rottura dei legami e dei vincoli tradizionali delinea ora un’idea diversa di comunità: permeabile, mutevole, instabile, che oggi si riconosce in una polifonia di forme e sfumature differenti. La figura del migrante non annuncia la morte della comunità. Se i movimenti migratori producono, da una parte, de-territorializzazione in quanto scompaginano assetti geopolitici, configurazioni di potere e strutturazioni sociali consolidate, allo stesso tempo sono anche agenti di ri-territorializzazione poiché riconfigurano inedite forme comunitarie, costruiscono nuove grammatiche spaziali e inediti radicamenti territoriali.
L’annullamento della logica identitaria può diventare, dunque, il presupposto operativo per un rinnovato umanesimo antropologico che ritrova proprio nella città il suo terreno originario.
Gli Autori
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Redazione
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