La cucina è politica.
Io ho lanciato il sasso…e la mano, la lascio.
Quindi inauguro questi spazi di azione culinaria che sempre appartengono a: La cucina è politica.
Mi sembra giusto rompere il ghiaccio per dare la stura, spero, ad un progetto godurioso.
Apro con casa Padula, come si chiamava mio nonno da parte di madre, artefice di questa ricetta che viene tutt’ora preparata e mangiata in casa nostra, nei giorni di festa. Non una ricorrenza precisa, ma sicuramente per festeggiare il lavoro comune e il risultato. Le “bomboline” fanno parte di quella categoria di preparazioni che rimandano all’antica tradizione dei cibi di strada. Cose che non si mangiavano a casa e che servivano oltre che per spezzare la fame, per introdurre un intermezzo di piacere nella giornata.
Le bomboline di Giuseppe Padula che nasce a Lecce il 19 marzo 1894
Sarà forse perché gestiva l’antico panificio Padula (Pap) e adorava tutto ciò che può stare nella parola pane, sta di fatto che bomboline e pittule, a casa loro non facevano difetto e deliziavano gli avventori. Uno di questi era mio padre che riusciva a divorarne a vassoi, mentre faceva la corte a Mirella. Io le pittule non le ho mai mangiate perché è una delle poche cose che la mia mamma non ha imparato a fare, ma dalla descrizione e dalla faccia che fa Pierluigi (mio papà) quando ne parla, fanno sicuramente parte del mio DNA. Le pittule (mia madre ha chiesto ieri le dosi a Zia Agnesina) le faceva il nonno, dall’inizio alla fine mentre per le bomboline si faceva aiutare per chiuderle e friggerle, dalla copiosa prole.
Per la sfoglia occorrono:
400 gr farina bianca
-3 uova
-3 mezzi gusci di acqua
sale fino
Si impastano tutti gli ingredienti per ottenere una sfoglia bella elastica lasciando riposare coperta per mezz’ora e si stende molto sottile. Se si usa la macchina per tirare la pasta si arriva alla penultima tacca. Si lavora una striscia per volta, lunga una settantina di cm. per non farla seccare e si comincia a fare dei cerchi con un bicchiere (la misura del nonno era la scatola dei pelati piccolina) e a riempirli d’impasto, chiudendo ogni cerchio a mezza luna.
Il ripieno che viene preparato mentre la pasta riposa, è composto da:
300 gr di prosciutto crudo tagliato in minuscoli pezzi
250 gr di mozzarella di bufala a pezzettini
2 uova sbattute
sale e pepe
Si tirerà via via tutta la pasta, tagliando cerchi, riempiendo e chiudendo bene i bordi, adagiando le bomboline su di un piano o vassoio infarinati e friggendone 6 o 7 alla volta in una padella di ferro piena fino a ¾ di olio di arachide bollente. Impossibile avere indicazione di “porzioni” perché non sono mai state contate; diciamo orientativamente per 10 persone ma, dipende veramente dalla capacità e gola dei degustatori. Diciamo che se avanzano si possono mantenere per un giorno in frigo ma… non sono la stessa cosa.
*Barbara Zattoni
Barbara Zattoni
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Quelle che nel basso Salento si chiamano píttule, e nell’alto péttole, sono palline di una pasta di pane iperlievitata e quindi molto soffice (‘squagghjata’) che, friggendo, si gonfiano ulteriormente fino a diventare una sorta di involucro vuoto, croccante fuori e morbidissimo dentro; più aria che altro, quindi, come si addice a un piatto celebrativo e alla natura tragica di noi magnogreci, per cui mangiare significa prima di tutto immaginare di farlo. Per contrastare questa loro natura eterea, nella versione salata si possono riempire con un pezzetto di baccalà cotto con olio, aglio e pomodoro nella sua acqua, una cimetta di rapa appena bollita o con mezza acciuga sott’olio, mezzo pomodorino e due capperini sott’aceto; oppure, per enfatizzarla, si possono lasciare vuote per mangiarle così o per coprirle – nella versione dolce – di zucchero, miele diluito o mosto cotto. Caratteristica essenziale è che debbono dare luogo a una severa tenzone fra chi le frigge e chi le mangia perché non finiscano prima ancora di averle fritte tutte.
Per l’impasto: mezzo kg di farina 00, non più di 4 dl di acqua tiepida, 1 bustina di lievito di birra secco (10 g circa), 1 cucchiaino di sale (per insaporire) e 1 di zucchero (per attivare il lievito); mescolare in una ciotola molto capiente, lavorare pochissimo e lasciar riposare coperto, in luogo non freddo, finché il volume non raddoppia (per solito dalla mattina a poco prima dell’ora di pranzo). A questo punto prendere con la mano debole un bel pugno di impasto, stringere leggermente così da farne fuoriuscire una parte fra pollice ed indice, staccare la pallina che si è formata con la mano forte, controllarne ed eventualmente correggerne la rotondità, inserirvi rapidamente il ripieno se previsto e subito immergerla in olio ben caldo finché non prende un color oro chiaro, quindi estrarne 5-6 alla volta con un ragno posandole su carta assorbente e lasciar raffreddare; se prevista la copertura dolce, sistemarle in un bel piatto all’uso di un croque-en-bouche e versarvi sopra quanto voluto, ma sempre con una certa parsimonia.
Di tradizione è un mangiare festivo invernale, da consumare di preferenza nelle vigilie – prima di tutto l’Immacolata, festa di una sacralità molto corporea – perché (non del tutto comprensibilmente) ritenuto ‘di magro’; ma nelle nostre ventose estati dà ottima prova di sé in ogni porzione del menu, dall’antipasto al dessert, fino a poter fare da piatto unico per sostanziose merende campestri o marinare, ovviamente con la cucina in appoggio come d’uso in quella che si chiama la ‘villeggiatura’. Ultima nota: io personalmente ho sempre mangiato quelle di mia madre e ho (re)imparato a farle solo di recente, rimettendo insieme in una procedura ricordi visivi, olfattivi e gustativi sbiaditi ma mai veramente perduti; un caso emblematico, direi quindi, di “memoria del gusto”.
Grazie. Una memoria del gusto doc! Ho anche la ricetta di zia Agnesina…. Piccole varianti ma la filosofia è quella. Mi piacerebbe riuscire ad organizzare una… Mega pittulata con bomboline…