La smart city è una città ostile

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Per una critica del capitalismo digitale VII parte

Siamo talmente immersi nel mondo risultante dall’avere fatte proprie le idee illuministe, positiviste, legate al progresso e alla esaltazione della tecnoscienza, che siamo disposti a delegare molte delle nostre scelte alla macchina. Soffriamo di un pregiudizio favorevole a tutto ciò che è tecnico e scientifico tanto che difficilmente mettiamo in discussione i consigli che ci dà la macchina.

Accettare che le macchine siano sempre più presenti nelle nostre vite è il risultato di un rapporto fideistico in quello che è chiamato il progresso. Essere contro il progresso, in uno dei luoghi comuni più diffusi, rimanda a un ritorno alla preistoria o al medio evo, epoche buie, fredde, attraversate da calamità di ogni tipo (per altro anche questi dei pregiudizi infondati).

Mettere in discussione il modello capitalistico, consumistico, affaristico del mondo occidentale, non significa pensare a una qualche forma di ritorno, di nostalgia, è prendere atto che questa strada non è una buona strada, che ce ne sono altre, che ne possiamo pensare e creare altre. Possiamo e dobbiamo cambiare paradigma. Gli algoritmi della tecnoscienza capitalista sono pensati, costruiti, programmati in una chiave per lo più univoca: produrre profitto. Produrre profitto è in qualche modo sinonimo di produrre ricchezza e produrre ricchezza sembrerebbe sempre portare a un bene. Ma la ricchezza è probabilmente qualcosa di più complesso di quella misurata in termini strettamente commerciali. C’è poi un modo di partecipare a queste ricchezze. L’algoritmo, la macchina, non è di tutti, la macchina è proprietaria. L’algoritmo farà perciò gli interessi del suo proprietario anche quando quegli interessi potrebbero andare contro quelli della maggioranza della popolazione. È tendenzialmente una macchina di parte.

Ma quello che più ci interessa a questo punto è che la fiducia in quello che fanno e propongono le macchine non deve essere gratuita, data senza porsi domande, senza far sorgere alcun tipo di dubbio. Il modo di pensare della macchina è un modo di pensare diverso dal nostro. Ordinateur, in francese, è il computer, una macchina che ordina e che mette in ordine. Fuori dall’ordine, dalla ripetizione dell’uguale, il calcolatore serve a poco. L’intelligenza artificiale funziona principalmente sulle ricorrenze, trova un ordine nel caos dei dati, è un dispositivo che cerca di individuare un ordine in una realtà disordinata. I dati che non rientrano in questo ordine sono scartati. Ma cosa abita in questo scarto? Nel caso del deep learning è del tutto imperscrutabile. In un articolo sulla intelligenza artificiale AI, dicevo che il machine learning tende a trovare ripetizioni, convergenze e corrispondenze nei dati. L’algoritmo risultante è impiegato per consigliare risposte se non addirittura per prendere delle decisioni demandandole direttamente all’algoritmo.

Prendiamo ad esempio il caso nel quale si è trovata una qualche connessione tra la vendita delle armi negli Stati Uniti e un’epidemia virale. La corrispondenza sarà dunque quella tra la malattia provocata dal virus e l’aumento nel consumo delle armi. Il risultato potrebbe essere che l’algoritmo consigli di sparare al paziente, la soluzione più a portata di mano. Quando invece una spiegazione della corrispondenza potrebbe essere legata a una forma di paranoia collettiva indotta dall’epidemia che ti fa percepire ogni altro come un nemico dal quale difendersi, l’algoritmo, in questo caso, avrebbe dovuto consigliarti di sparare al vicino di casa. A parte gli scherzi, il fatto che a partire da delle rilevanze statistiche si possano trarre conclusioni anche definitive, è un modo pericoloso di pensare che risente fondamentalmente del pregiudizio legato al progressismo.

Ecco la smart city: la Sidewalk Labs (ramo di Alphabet – Google) vuole riprogettare un quartiere di Toronto riempiendolo di sensori, telecamere, radar e altri recettori in maniera da rendere attive e reali quelle che potevano essere delle reazioni e degli aggiustamenti attuati a partire da delle simulazioni in 3D. La città non ha bisogno di essere progettata, essa si riconfigura da sé a partire dai dati che ha raccolto e che continua a raccogliere. La città sarà sempre di più coerente in tutte le sue componenti a partire però dalla sua percezione della realtà. E come percepiscono la realtà le macchine? Facciamo un esempio. Per dei bagni pubblici c’è bisogno di un dispenser per il sapone che eroghi la giusta quantità senza essere toccato. Ecco pronto un dispenser che quando ci metti le mani sotto eroga il sapone. È stato sperimentato ed è stata verificata la sua efficienza. Ma cosa succede? Un signore di colore ha verificato che con le sue mani il dispenser non funzionava. Erogava il sapone ai bianchi, ma non ai neri. Era un sensore razzista. La macchina infatti non percepiva le mani ma il colore medio statistico delle mani sulle quali si era addestrata. Il pattern mano per la macchina era una gamma di colori chiari relativi a mani di bianchi. Qui il video.

La smart city che si auto configura, che si auto progetta, sposterà ad esempio le sue funzioni in base ai flussi, ottimizzando i percorsi. I semafori intelligenti calibreranno i loro tempi in base alla domanda, ai flussi di traffico, sino ad ottenere una ottimizzazione assoluta che potrebbe esigere che certi comportamenti umani non siano compatibili con l’efficienza del sistema. Oppure, più semplicemente, consigliare l’ora alla quale uscire, la strada da fare, a quale velocità farla e così via. Potrebbe arrivare ad essere così efficiente da richiederci una efficienza pari a quella messa in atto dal sistema. Quali obiettivi deve perseguire questo tipo di smart city assoluta. Chi li decide? Chi scrive gli algoritmi? Una società privata? Con quali scopi? Quale sarà in questa visione il ruolo dell’urbanista, ma anche quello del politico? O il politico è ormai soltanto quella parte del meccanismo che deve spianare la strada al progresso e metterla in mano agli speculatori di turno, a qualche startup che fa così moda? Appunto, che senso ha mettere in mano – in questo caso la città – a società private che perseguono il loro tornaconto, il loro interesse, il loro profitto?

Oraibi, Hopi Village, Arizona, USA, circa 1901. (Photo by: Universal History Archive/Universal Images Group via Getty Images)

E l’impianto securitario che ha messo in campo un numero insensato di telecamere, in vista della sicurezza e il decoro che è sotteso anche alla smart city generica, in che direzione vuole andare? Forse quella che anche una città modellata dal vivere dei suoi abitanti in secoli di storia deve diventare. Andare incontro al futuro sulla linea di quel progresso al quale la tecnoscienza digitale ha provocato un’impennata. Non guardarsi indietro. La storia non esiste. Le tradizioni, i saperi, le arti e i mestieri sono ormai alla mercé di questa teleopoiesi, di questa visione messianica nei confronti del futuro. La mano invisibile del mercato brancica nel tessuto urbano raccogliendo ogni possibile speculazione, ogni occasione di messa a profitto. Le reti sociali e produttive che lo innervavano, vengono sottomesse. L’assenza di regolamentazione delle piattaforme le lascia operare senza controllo. La gentrificazione delle città ad opera di Airbnb e simili ne ha svuotato i centri storici dagli abitanti originali; ha scacciato i nativi confinandoli nelle riserve delle periferie. Ma ha anche requisito i fondi commerciali dove erano ubicate le botteghe artigiane. Un artigianato già sopraffatto dalle produzioni seriali dell’industrie delocalizzate che in un delirio produttivo mettono sul mercato e mandano in discarica quantità insensate di merci effimere e cheap. Una smart city controllata, militarizzata e difesa per permettere alla mano invisibile del mercato di trasformare le città turistiche in parchi giochi, o in Gran Bazar tracimanti merci e fast food per un metabolismo accelerato che asseconda la bulimia capitalistica. La crescita!

Al tempo della pandemia, le città si riducono a un insieme di loculi abitativi, non ci sono più gli spazi sociali. Ma, come dice Carlotta Caciagli, la loro erosione era già nell’essere delle cose della città neoliberista, nella città securitaria e del decoro. Adesso, al tempo della pandemia, la cosa si fa evidente. Le strade che collegavano il barnum, lo spettacolo per i turisti e i luoghi di spaccio delle merci si sono svuotate, mettendo in mostra il resto: le mura di recinzione che fanno dell’abitare uno strumento di difesa. Lo spazio sociale è diventato virtuale, ma lo era già prima. La vita tutta è virtuale e la probabilità di stare vivendo in una dimensione di Matrix o a San Junipero, si stanno facendo sempre più alte. Il palcoscenico della propria vita, le relazioni sociali che l’assembramento urbano dovrebbe favorire, si spogliano poco per volta. Fatti fuori i negozi di vicinato in favore della grande distribuzione, sostituiti alcuni degli acquisti da dover fare fuori casa dal total delivery i cui addetti sono i nuovi schiavi, non rimane che la gita al centro commerciale che ritualizza il nostro tempo. La solidarietà di vicinanza, la stessa appartenenza sociale si fanno più sbiadite. Ma c’è un modo per non sentirsi in disparte, un modo per relazionarsi. Ciaccolare è diventato chattare. La città, a cavallo tra ottocento e novecento si esprimeva in percorsi. Il flâneur baudelairiano disegnava la rete che determinava e descriveva la città; scopriva i legami. La città securitaria persegue invece il vagabondaggio. Al tempo della pandemia – ma anche al tempo della smart city capitalista – non ci si può muovere senza scopo. Lo spaesamento è non sentirsi a casa quando ti hanno recluso a casa. Al tempo della pandemia tutta la città diviene periferia, il mondo un enorme quartiere dormitorio.

Tanti hanno parlato del narcisismo della rete, ma c’è un’esigenza reale di farsi riconoscere dagli altri, di “desiderare che gli altri ti desiderino” diceva Kojeve. Nei social spesso il dibattito è sovrastato dal like che ti profila, ma che anche ti dimensiona, nel senso che ti dà una dimensione, una valutazione come in un’altra puntata di Black Mirror, quella intitolata “Caduta libera”. Ma la realtà anticipa la fantascienza: ecco i punti sesamo! Sicuramente non c’è dibattito su Instagram e su Twitter, c’è soltanto la caccia ai follower, una caccia al gradimento non collegata alle tue azioni reali. In questa socialità, le strade, le piazze, gli edifici pubblici perdono di importanza. Assolvono ormai soltanto il compito di permettere l’accesso alle case, quando in realtà scollegano i loculi abitativi gli uni dagli altri. Nelle antiche costruzioni pueblo, principalmente a scopo difensivo, l’ingresso non era verso la strada, la strada non c’era. Si entrava dai tetti e si passava di casa in casa sempre dai tetti. Il villaggio era un’unica costruzione. Adesso, nel momento in cui la strada, la piazza, i luoghi della socialità stanno perdendo di importanza e di funzioni, le strade servono soltanto per dividere, allontanare, sparpagliare le abitazioni. Ai tempi della pandemia virale le strade sono vuote, ai tempi di quella capitalistica non si possono egualmente abitare le strade.

In questo delirio di onnipotenza, la macchina tecno-scientifica – una teoria delle probabilità – cerca di prendere il potere assoluto. Dati, dati, un’infinità di dati, da mettere in correlazione, da smembrare e ricomporre. Da aggregare, trovare le ricorsività, inventare pattern. Siamo quasi di fronte alla possibilità di avere a disposizione tutti i dati; di fronte alla possibilità di avvicinare la realizzazione della fantasia borgesiana della mappa uno a uno del mondo.

Ai ricercatori non interessa come l’algoritmo abbia costruito quel pattern, ma soltanto che l’algoritmo tramite quel pattern raggiunga i risultati previsti. Per imparare, l’algoritmo deve solo sapere quando indovina e quando sbaglia. Come fa a costruirsi un pattern non è dato di saperlo, semplicemente studia delle correlazioni, quando ne trova una, verifica se in base ad essa la risposta sia vera o sbagliata e va avanti così affinando la mira sino a quando si pensa che le sue risposte siano soddisfacenti, Con questo metodo si è addestrata una macchina che doveva distinguere tra lupi e husky. Alla fine si è scoperto che gli indizi di cui si serviva l’algoritmo non avevano nulla a che fare con i cani, ma con la presenza o l’assenza di neve sullo sfondo. Neve: lupo. Niente neve: husky. Un po’ come la storia del dispenser razzista, di cui sopra.

Continua…

Qui la I
Qui la II
Qui la III
Qui la IV
Qui la V
Qui la VI

*Gilberto Pierazzuoli

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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