Note in margine a un testo esplicito, ovvero Come si preparano gli insegnanti italiani alla scuola che verrà?

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La prolissità non è un eccesso di parole, annotò Nicolás Gómez Dávila fra i suoi Escolios a un texto implícito (1977), ma una carenza di idee.

L’aforisma trova conferma nell’inesausto discorso sulla scuola italiana, riassunto – si fa per dire: son quattrocento pagine e passa – in uno dei tanti manuali per aspiranti insegnanti su cui io e altre decine di migliaia aspiranti insegnanti ci prepariamo al concorso previsto per l’autunno. Nel frattempo aspettiamo di conoscere il punteggio che verrà assegnato nelle diaboliche gps, le graduatorie provinciali dalle quali saranno scelti i supplenti nei prossimi due anni. (Le province, a proposito: vero emblema di resilienza nell’architettura costituzionale italiana.) Oltre settecentocinquantamila domande pervenute sulla piattaforma digitale del Miur: non il milione che era atteso, ma accontentiamoci.

Nel frattempo, a poche settimane dall’inizio del nuovo anno scolastico, si continua a dare i numeri – quanti alunni per classe? quante immissioni in ruolo? quante aule da predisporre? … – ma la voce degli studenti non si sente più. Le loro bocche (anzi: rime buccali, copyright Comitato tecnico-scientifico istituito per l’emergenza coronavirus) non si sono più aperte dopo aver rivendicato il diritto alla notte prima degli esami – la maturità essendo uno dei riti collettivi nel calendario annuale di questo Paese, tra il festival di Sanremo e la classifica delle estati più calde dell’ultimo secolo. Non hanno niente da dire su come immaginano e vorrebbero la “loro” scuola? O invece parlano ma non sono ascoltate?

Dal discorso pubblico è ugualmente scomparsa ogni ipotesi, urgenza, ambizione a riforme ulteriori dopo l’ultima, la legge 107/2015 della sedicente Buona Scuola. Anche le fantasie di ministri, funzionari e consulenti hanno un limite, evidentemente, e comunque, al tempo del Covid, nel bene e nel male la questione che si pone anzitutto è la sopravvivenza. Sopravvivere al virus, sopravvivere ai decreti e alle ordinanze del ministero della fu pubblica istruzione.

Il finito tende a risolversi nell’infinito nel nostro sistema scolastico, un po’ come in quello hegeliano, ma proviamo comunque a cercare almeno un capo e una coda, se non proprio un senso, nella poco efficace[1] ma sempre efficiente produzione di leggi, decreti e linee guida in materia, con l’ausilio del nostro manuale – un testo alquanto esplicito, diversamente da quello annotato da Gómez Dávila (sicché ignorantia non excusat: siamo tutti avvertiti). E cominciamo dal ptof, il piano triennale dell’offerta formativa: la carta di identità della scuola. Ecco una buona notizia, verrebbe da dire: la scuola italiana possiede una sua identità. La quale è regolarmente definita e attestata da un documento. Bene anche questo, scripta manent eccetera eccetera. Ma poi il testo esplicito (all’assimilazione del quale affidiamo, in assenza magari di una cristallina seppur tardiva vocazione, le nostre future possibilità di uno stipendio non alto ma certo) – il testo esplicito, dicevo, ci informa che attraverso quel documento viene stipulato un contratto formativo tra la scuola e l’utente. Utente e contratto. Un bel salto dalla lingua della Costituzione, che parla invece di diritti e obblighi e alunni… D’altra parte cambiano i tempi, i modi, gli scopi, e la lingua, chissà, si adegua? Oppure è lei stessa a influenzare i pensieri e le culture, le scelte e le azioni? Sta di fatto che dalle parole e da certi intendimenti propri in origine del mondo economico, finanziario, imprenditoriale non si salva – non vuole? non può? – nemmeno la scuola. Accanto a “contratto” troviamo quindi, spigolando qua e là nelle quattrocento e passa pagine del testo esplicito, le griglie di valutazione del “profitto”, il riconoscimento dei “crediti”, il recupero dei “debiti”, la valorizzazione del “patrimonio” culturale, i dirigenti scolastici come “leader” dell’apprendimento, la scuola e la famiglia come “agenzie” formative, e la necessità di “economizzare” il tempo dell’insegnamento, “risparmiarlo” insomma, giacché non abbonda… Qui nel testo esplicito si intuisce un sospiro, ma tant’è, anziché lagnarsi occorre pianificare, organizzare, coordinare le risorse per raggiungere l’obiettivo finale: il successo del progetto formativo. Il quale è determinato dalle tre C, secondo il project management richiamato nella nostra bibbia per aspiranti insegnanti: comunicazione (“molto diffusa è l’idea che saper comunicare corrisponda al saper convincere un’altra persona ad accettare la propria idea o eseguire una richiesta”: si parla di didattica e apprendimento oppure di marketing?); coordinamento (“consente a ciascun attore di agire con la consapevolezza che l’azione è allineata e attesa in ogni altro punto del sistema”: e chi non si allinea?); cooperazione (“permette di valorizzare il coordinamento in termini di consapevolezza di essere protagonisti della performance dell’organizzazione”: siamo a scuola o dentro un’azienda?). Accettare, eseguire, allinearsi: ecco i verbi che esprimono le finalità della “scuola dell’autonomia”.

Numero magico e sacro per tante civiltà, fortunato nella matematica pura, perfetto secondo i pitagorici, il tre sembra occupare un posto ragguardevole anche nell’ingegneria della “scuola del progetto”. Il quale, come ogni progetto, si fonda sull’equilibrio di un’altra trinità, le tre P questa volta, people process product… E così, un po’ come nel sistema hegeliano essere e dover essere non possono che infine coincidere, nel sistema della Buona scuola “ogni alunno non impara ciò che abbiamo ipotizzato debba teoricamente imparare, ma ciò che, una volta conclusa l’attività di insegnamento, è riuscito effettivamente ad apprendere”.

Sono trascorsi già venti anni, o venti anni soltanto, dipende dai punti di vista, dalla percezione del tempo, comunque dieci anni sono trascorsi dalla strategia di Lisbona che il Consiglio europeo adottò nel marzo 2000 e che entro il 2010 avrebbe dovuto rendere l’Unione Europea “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo” (sintesi falcidiante: da unione economica e politica di Stati a economia). Ma non essendo per lo più stati raggiunti i cinque “benchmark”, i livelli di riferimento della performance media europea adottati dal Consiglio di istruzione[2], siamo passati alla fase seconda, Education and Training 2020[3]. Riconfermati gli obiettivi del 2010, e chi la dura la vince. Per aspera ad astra?

(Training, cioè addestramento. Una parola che quando la sento non penso agli studenti, ma a militari e cani.)

È una strada di lunga percorrenza quella su cui di fatto siamo avviati – apprendimento per competenze, così lo chiama il nostro testo esplicito – ed è iniziata più di trent’anni fa. A Berlino il Muro crollava e l’European Round Table of Industrialists[4] pubblicava il rapporto Educazione e competenza in Europa, in cui era scritto tra l’altro che istruzione e formazione sono investimenti vitali per la competitività europea e per il futuro successo dell’impresa, ma l’industria ha un’influenza purtroppo molto modesta sui programmi didattici, gli insegnanti non capiscono i suoi bisogni – suoi dell’industria, ça va sans dire – e quindi occorre adattare il sistema scolastico alle esigenze del mondo imprenditoriale.

Qualcosa del genere dirà qualche anno più tardi anche il Libro bianco su Istruzione e Formazione della Commissione delle Comunità europee (1993): le principali iniziative proposte per il 1996 mirano, tra l’altro, ad avvicinare la scuola all’impresa perché “i Paesi europei non hanno più scelta. Per mantenere le loro posizioni e continuare ad essere un punto di riferimento nel mondo essi devono completare i progressi compiuti in sede di integrazione economica con maggiori investimenti nel sapere e nella competenza”. Amen.

In perfetta coerenza con orientamenti del genere, dunque, il ptof da cui siamo partiti e a cui infine torneremo (e scusate se facciam polvere…) presenta la “missione, che indica lo scopo dell’organizzazione”, e la “visione, che dà un senso di orientamento concreto”. Missione, ovvero lo scopo di un’azienda, la ragione della sua presenza nel mercato, ciò che la distingue dai concorrenti; e visione, la previsione di ciò che essa sarà nel futuro, la definizione degli obiettivi, l’incentivo all’azione… È una scuola-ircocervo quella che certe parole tratteggiano, ibrida, bifronte, un po’ chiesa un po’ azienda – sempre più azienda, parrebbe. Infatti inevitabilmente si arriva all’alternanza scuola-lavoro, realizzata attraverso i percorsi definiti in un decreto legislativo del 2005[5] e diventata obbligatoria con la legge della Buona Scuola diversi anni più tardi. Dieci anni, per l’esattezza, ma non si è detto che chi la dura la vince? Così oggi alla micidiale alternanza sono dedicate almeno quattrocento ore negli istituti tecnici e professionali e duecento nei licei.

“L’alternanza è sfruttamento? Assolutamente no! E se per i giovani rappresenta una interessante opportunità di crescita e di conquista di nuove skills utili per l’inserimento nel mercato del lavoro, per le aziende rappresenta un ottimo investimento nel capitale umano”[6]… Matteo Renzi dixit.

Epperò un’indagine recente della Commissione europea evidenzia livelli italiani di disoccupazione che confermano una tradizione ben consolidata di questo Paese: risultano privi di impiego il 31% delle giovani donne e il 27,8% dei giovani uomini[7]. Intanto, secondo la Relazione di monitoraggio 2019 realizzata anch’essa dalla Commissione europea, l’Italia “investe ben al di sotto della media dell’ue nell’istruzione, in particolare nell’istruzione superiore”, e il Rapporto SDGs 2019 dell’istat dice che negli ultimi anni è aumentata l’uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione e le competenze alfabetiche e matematiche sono molto basse per alcuni gruppi di studenti, e dice anche altro, molto altro. L’alternanza fra scuola e lavoro pare piuttosto un’altalena sulla quale, tra un giro e l’altro, parecchio finisce per perdersi: non si studia e non si lavora.

Imprenditorialità resta comunque una delle parole che più luccicano nel nostro testo esplicito. È comparsa con riferimento alla scuola alcuni anni fa, in una Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa[8], fra le otto competenze chiave che “sono considerate ugualmente importanti, poiché ciascuna di esse può contribuire a una vita positiva nella società della conoscenza”. Ma una vita positiva in che senso, con esattezza? E nel giudizio di chi?

È tutta una fisarmonica la lingua che parlano questi documenti: tassonomie cartesiane e orizzonti vaporosi convivono in armonia, tanto che accanto alla “competenza comunicativa nella madrelingua” si trova quella “in materia di consapevolezza ed espressione culturali”. Che cosa si intende esattamente per “cultura” non è detto neppure nell’ulteriore classificazione delle competenze del 22 maggio 2018 con cui il Consiglio ha puntato l’attenzione piuttosto sullo sviluppo sostenibile e – ancora, sempre – sulle competenze imprenditoriali, importanti, dice, per assicurare resilienza e capacità di adattarsi ai cambiamenti.

Resiliente è un materiale capace di resistere agli urti senza spezzarsi, un tessuto che riprende il proprio aspetto originale dopo una deformazione, un organismo danneggiato in grado di riparare se stesso. Resilienti sono gli individui che riescono a far fronte a eventi traumatici, tollerare la frustrazione, incassare le sconfitte, sopportare il disagio e la fatica. D’accordo, ma gli altri? Quelli che non si adattano al sistema progettato per loro e lo vorrebbero diverso? C’è posto anche per i non resilienti nella “scuola dell’inclusione”?

Note

[1] Dall’indagine pisa 2018 risulta che gli studenti quindicenni italiani hanno perduto una maggiore quantità di tempo scuola rispetto ai loro coetanei di altri Paesi ocse e, dal 2012, è diminuito il loro “rendimento” in lettura e scienze.
[2] Ovvero: abbandono scolastico prematuro, innalzamento del livello di istruzione, acquisizione delle competenze di base, apprendimento lungo tutto l’arco della vita, aumento dei laureati in materie scientifiche.
[3] Si tratta del quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione, un forum nel quale “gli Stati membri possono scambiarsi le migliori pratiche e imparare gli uni dagli altri” (cfr. https://ec.europa.eu/education/policies/european-policy-cooperation/et2020-framework_it).
[4] Fondata nel 1983, la Tavola rotonda europea degli industriali riunisce gli amministratori delegati e i presidenti di alcune delle più grandi aziende europee e non si definisce lobby, ma, nelle parole di Jérôme Monod (che la presiedette dal 1994 al 2000), “un gruppo di cittadini europei che esprimono le proprie opinioni sul modo migliore per rendere l’Europa e le aziende europee competitive a livello globale”. Dal 2012 è iscritta nel registro per la trasparenza che elenca i rappresentanti di interessi presso la Commissione europea.
[5] Decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 7, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 103 del 5 maggio 2005.
[6] Cfr. https://www.matteorenzi.it/alternanza-scuola-lavoro.
[7] Si veda The impact of demographic change in Europehttps://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/new-push-european-democracy/impact-demographic-change-europe_en.
[8] Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente (2006/962/ce).

*Giada Ceri, da Minima Moralia 

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