Dana e non solo: il tentativo di spegnere l’opposizione sociale

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I fatti sono noti. Il 3 marzo del 2012 alcune centinaia di manifestanti No TAV, in una delle tante iniziative spontanee seguite alla procurata caduta di Luca Abbà da un traliccio dell’alta tensione, occuparono il casello dell’autostrada Torino-Bardonecchia all’altezza di Avigliana e, per qualche minuto, permisero alle vetture di passare senza pagare il pedaggio.

La manifestazione avvenne senza alcun incidente, senza alcun contatto con le forze dell’ordine, senza alcuna minaccia agli automobilisti di passaggio (che hanno anche testimoniato in tal senso in sede processuale) e si svolse con un volantinaggio e uno speakeraggio di spiegazione delle motivazioni che stavano alla base della protesta stessa.

Il danno (quantificato dall’azienda di gestione dell’autostrada) per mancati introiti è stato inferiore ai 1000 Euro. A fronte di tale episodio, sono state comminate pene a carico di 12 persone per complessivi 18 anni di carcere. Tra queste persone ci sono Nicoletta Dosio, condannata a un anno di carcere, che ha deciso di non chiedere misure alternative per sollevare, con la sua carcerazione, il problema dell’anomalia della repressione contro il movimento No TAV (https://volerelaluna.it/controcanto/2020/01/02/nicoletta-noi-la-politica/) e Dana Lauriola, condannata a due anni di carcere per aver speakerato con un megafono le ragioni della manifestazione e a cui il tribunale di sorveglianza di Torino ha negato le misure alternative dell’affidamento in prova o della detenzione domiciliare (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/09/18/dana-la-vendetta-del-tav/). Il conseguente ordine di carcerazione nei confronti di Dana è stato eseguito all’alba del 17 settembre 2020 da ingenti forze di polizia che hanno militarizzato la zona e caricato le persone che stavano accanto a Dana per dimostrarle solidarietà e vicinanza.

A grandi linee questi sono i fatti e sul punto, così come su altre centinaia di situazioni giudiziarie paradossali che lo coinvolgono, il movimento No TAV metterà in campo ogni forma di protesta e intervento politico e sociale possibile.

Il problema però va ben al di là del movimento No TAV o di come la si pensi sull’opera in questione. È un problema cruciale che interessa tutta la società nazionale e che inerisce il diritto al dissenso garantito dalla Costituzione.

L’uso sproporzionato di misure restrittive delle libertà personali (carcerazione, arresti domiciliari, obblighi di dimora, obblighi di firma, fogli di via…) con cui vengono colpite le persone che praticano dissenso e lotte sociali contro le scelte politiche dominanti è sintomo di un atteggiamento culturale pericoloso e percorso da intenti di chiusura e negazione di qualsivoglia dialettica politica.

La Procura di Torino – e con lei gran parte degli uffici giudiziari torinesi – sta sperimentando queste pratiche sul movimento No TAV da molti anni, coperta anche dal racconto di media controllati dai gruppi imprenditoriali fruitori dell’enorme mole di denaro pubblico che circola intorno a un’opera come il TAV. Questa sperimentazione, che con il caso di Dana ha raggiunto il suo apice, sta trovando terreno fertile in ogni situazione attraversata da lotte sociali. Ai sensi del dettato costituzionale, la magistratura ha una precisa indicazione di terzietà e invece sempre di più si sostituisce all’incapacità di dialettica sociale da parte degli organi di rappresentanza politica. In questo divenire, il diritto penale ha via via assunto un ruolo di strumento di controllo di aree di dissenso che invece sono costituzionalmente garantite anche nelle loro espressioni più radicali e determinate.

Per comprendere le ragioni di questa repressione della dialettica politica occorre cogliere quali beni sono messi in pericolo dalle scelte conflittuali. L’azione repressiva adottata con pervicacia e costanza contro qualsiasi forma di lotta sociale non è più volta alla tutela di un bene comune ma a garantire la continuità e immutabilità delle scelte politiche che, indipendentemente dai risultati elettorali, devono restare uguali a sé stesse senza che elementi esterni al sistema possano avere strumenti di proposizione rinnovativa. La negazione del confronto, declinato in ogni sua accezione, rende sterile e sottrae alla cittadinanza la possibilità di incisiva partecipazione alla costruzione di un modello sociale ed economico trasformando il concetto stesso di cittadinanza in sudditanza.

È sempre più evidente come ci sia una tendenza parossistica a criminalizzare l’appartenenza a una collettività che diventa aggravante rispetto alle responsabilità personali. Anche se le dinamiche di dialettica sociale nell’ambito dei conflitti politici non possono essere equiparate alle responsabilità penali personali perché questo vorrebbe dire incarcerare le pulsioni di trasformazione della società, la possibilità di crescita collettiva e di liberazione dalle sempre presenti metastasi totalitarie. Ciò sfocia in un cortocircuito del processo penale che, una volta giunto a condanna, dovrebbe avere come scopo la rieducazione del soggetto condannato e che, se applicato ai percorsi di trasformazione della società, non può che sfociare in atti coercitivi volti al reinserimento nell’attuale sistema socio economico delle collettività in lotta per cambiarlo. Processo penale, dunque, agito non più a protezione di beni comuni ma allo stretto mantenimento dello status quo politico, economico e sociale. Il tutto condito da una narrazione volta alla criminalizzazione del concetto stesso di conflitto e a rafforzare la repressione attraverso ricostruzioni tese a suscitare indignazione e rigetto dell’opinione pubblica verso qualsiasi processo di cambiamento.

I governi si dotano di strumenti per garantirsi la sopravvivenza e per reprimere la propria messa in discussione, ma ad argine di questa naturale pulsione c’è una Costituzione che prevede dei principi fondanti e dei meccanismi di controllo incrociato sulla effettiva garanzia dei diritti. Eppure oggi il diritto al dissenso e all’organizzazione politica dello stesso è di fatto criminalizzato e impedito e viene spesso elusa anche l’indicazione costituzionale di separazione dei poteri e di terzietà della magistratura.

In questi anni è toccato al movimento No TAV subire questa involuzione anti costituzionale, ed è toccato e toccherà a tutte quelle lotte che hanno espresso volontà e determinazione di cambiamento e di libertà. E sarà così fino a che il diritto penale soppianterà il diritto alla libertà di opporsi all’idea di società che ci viene imposta.

Il problema è urgente e il pericolo gravissimo e deve interessare tutte le persone, i movimenti e i gruppi politici che ogni giorno si battono per la difesa della Costituzione, della libertà e della giustizia sociale. Il processo di modifica costituzionale è in atto da tempo ed è molto più imponente dei tentativi parlamentari di modificare alcuni aspetti organizzativi dello Stato: è una modifica pragmatica che tocca i principi fondamentali che la stessa Costituzione ha definito non modificabili.

Contro questo processo è fondamentale muoversi con urgenza e gli strumenti ci sono tutti. La cittadinanza torni a pensare senza condizionamenti di racconti fatti apposta per condizionare. La politica agisca sé stessa nell’ambito del rapporto dialettico con le manifestazioni di dissenso e di lotta sociale. Gli organi superiori della magistratura tengano alta la guardia sulla terzietà delle procure e dei tribunali. Il ministro della giustizia intervenga, così come è costituzionalmente previsto che faccia, con sollecitudine e determinazione in ogni situazione in cui si possa far strada anche il minimo dubbio di strumentalizzazione della magistratura.

Il tempo è ora o sarà troppo tardi e le strade, i quartieri, le piazze saranno costellate di giornate come quelle vissute a Bussoleno, in Valsusa, nella tetra alba del 17 settembre 2020.

*Luigi Casel da Volerelaluna

 

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