Il rapporto fra intellettuali e potere, nell’Italia dell’ultimo trentennio, è stato una mistura di servilismo, accondiscendenza, complicità dei primi con il secondo, salvo poche lodevoli eccezioni. Nei media detti mainstream, cioè i maggiori quotidiani, i principali canali televisivi e le rispettive trasmissioni di punta, le idee forti dei poteri dominanti, protagonisti della “rivoluzione neoliberale”, sono state accettate e accolte come un fatto di natura. Mercato, crescita, sviluppo (da qualche tempo si aggiunge “sostenibile”), impresa, Prodotto interno lordo sono le parole d’ordine, ripetute senza risparmio e in infinite varianti discorsive. Tutto il resto è diretta conseguenza di quest’evidenza: fra un intervento scritto e un’intervista, un talk show e un’invettiva, è andato in onda un unico discorso con poche sfumature. Perciò, in tanto grigiore (non ingannino urli, strepiti e sparate) spiccano le poche voci che riescono a entrare -di solito fuggevolmente- nel discorso pubblico e sviluppare un pensiero divergente. Fra queste, negli ultimi anni, c’è stato Tomaso Montanari, storico dell’arte, efficace polemista dalla forte vocazione politica (ma non partitica), portatore di un punto di vista giudicato eccentrico: non ama e anzi contesta l’ideologia neoliberale, crede che l’arte e la cultura siano bene comune, quindi da sottrarre a logiche commerciali, non ha difficoltà a dichiararsi uomo di sinistra nel senso compiuto del termine (nel linguaggio pubblico corrente la cosiddetta sinistra, quella partitico-parlamentare, ha da tempo fatto propria l’ideologia neoliberale).
Montanari affascina per la qualità della sua oratoria e della sua scrittura, ma non piace. Non piace ai leader di partito, ai direttori di quotidiani, ai giornalisti che contano: è apprezzato e quindi tollerato quando parla d’arte, ma considerato inopportuno quando sconfina nella politica (e parlando d’arte, in verità, questo avviene pressoché sempre, come abbiamo imparato proprio da lui). Bene che vada, oltre che antipatico, è reputato “ideologico”, epiteto che colpisce chiunque abbia un pensiero dissidente.
Alla fine è fatale che attorno a Tomaso Montanari e ai suoi interventi, quando non restano confinati ai margini del sistema mediatico, si creino attriti e discussioni: lui, peraltro, nella polemica si trova a proprio agio. Proprio a questo servono gli intellettuali: a increspare acque stagnanti, a diffondere idee nuove, a mettere in discussione ciò che sembra ovvio. È vero, siamo disabituati a questa funzione degli intellettuali (leggere, per credere, le pagine dei commenti dei maggiori quotidiani, tutte intercambiabili), ma non per questo dovremmo disprezzarla, tanto più che riguarda ormai un numero limitato di casi. La figura del pensatore e polemista che osa contraddire l’ideologia del mercato con argomenti seri è anch’essa da tutelare come bene comune. Perciò avvilisce la notizia diffusa dallo stesso Montanari, raggiunto da una querela e un’istanza di risarcimento da parte del sindaco di Firenze Dario Nardella e dei suoi assessori (tutti). Motivo dell’azione legale: un giudizio espresso dal professore durante una puntata di Report su Rai Tre, dedicata ai molti affari che immobiliaristi e capitalisti vari stanno facendo a Firenze, accaparrandosi palazzi, terreni, alberghi di lusso, anche la squadra di calcio.
Montanari, ribadendo un giudizio più volte espresso in articoli e libri, ha detto che Firenze è di chi se la prende e non più dei suoi cittadini. Per chi vive in città o conosce le vicende fiorentine degli ultimi decenni (non è tutta farina di Nardella, tutt’altro) niente di sorprendente. L’apertura ai capitali stranieri, la “valorizzazione” del centro storico, lo “sviluppo” tramite strade, aeroporti e grandi opere, la “messa a reddito”di piazze, ponti e musei sono stati praticati e anche teorizzati alla luce del sole, nella totale assenza di un vero dibattito pubblico e politico. A Firenze, rispetto a questa visione monetizzatrice della cultura e dei monumenti, non c’è opposizione: non in consiglio comunale (a parte i due esponenti della sinistra), non da parte di intellettuali o forze sociali significative. Le vere forze di opposizione, negli ultimi 20 anni, sono stati i comitati cittadini contro le privatizzazioni e le varie grandi e meno grandi “opere inutili”, il laboratorio (in passato anche gruppo consiliare) perUnaltracittà, la comunità raccolta attorno a don Alessandro Santoro e pochi altri: fra questi, appunto, Montanari. Tali soggetti hanno tenuto desta l’attenzione, informato i cittadini, opposto resistenza, proposto soluzioni nuove ai bisogni urbani. Sono stati combattuti, vilipesi, casomai ignorati. Con Montanari è invece scattata la querela, da parte di un sindaco e di assessori che pure hanno tutti gli strumenti e i canali di comunicazione per ribattere colpo su colpo alle affermazioni sgradite. In democrazia si fa così. Si discute, si contesta, si mettono a confronto idee opposte: e tutto finisce lì, o meglio comincia da lì, nel senso che così facendo diventa possibile formarsi un’opinione, essere informati per poter deliberare in piena libertà e consapevolezza. Dunque perché querelare? Perché scegliere uno strumento così estremo? Perché dare la sensazione di voler zittire l’avversario?
Questa azione legale è un brutto gesto e va considerato per quel che è: non una diatriba locale fra un professore “radical” e una giunta permalosa toccata nel vivo del suo sentimento di sé, ma un segno di grave degrado nel dibattito pubblico. Siamo al rifiuto del dissenso: il giudizio politico è rappresentato come attacco personale e diffamazione, quindi -appunto- degradato e respinto. Il sindaco Nardella e i suoi assessori stanno quindi scrivendo una brutta pagina della storia, già non esaltante, dei rapporti fra intellettuali e potere, anzi fra potere e intellettuali: ne scaturisce oltretutto un’immagine triste della città di Firenze e del suo momento storico. Non vinceranno la causa legale; hanno già perso sul terreno della buona creanza democratica. Possiamo solo sperare che abbiano un ripensamento.
Lorenzo Guadagnucci
Lorenzo Guadagnucci
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