Il capitale è morto il peggio deve ancora venire

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Per me una recensione non contiene quello che dice quell’autrice o quell’autore, quello che non dice, quello che avrebbe dovuto dire. Non è una ricostruzione filologica del detto, ma un dire a partire da quello che viene detto o da quello che si presume abbia detto. Una recensione non è una valutazione, al limite un consiglio di lettura, ma un modo di adoperare un contenuto. In questa recensione c’è molto di Mckenzie Wark, ma c’è probabilmente anche molto di mio, tutto quello che la lettura del testo ha provocato in me di ragionamento, di suggestione, di stimolo. Il fatto che io abbia aggiunto delle cose e ne abbia sottratte delle altre, fa parte del gioco. Del mettersi in gioco attraverso anche il lavoro degli altri, usandolo e facendolo proseguire, anche ingarbugliando la matassa, non per rendere il contenuto più oscuro ma per complicarne gli esiti. Ci scusi l’autrice e scusateci anche voi. Del resto lo dice lei stessa quando auspica di trovare «il coraggio non solo di ribadire i luoghi comuni, persino quelli del caro, vecchio Karl [il Marx del film di Raoul Peck], ma anche di intraprendere la produzione collaborativa di una conoscenza del presente che potrebbe aiutarci a uscirne» (p. 25, enfatizzazione mia).

Ragionamento sui dati e sul capitalismo. I dati li produciamo tutti o almeno tutti quelli connessi alla rete. Li produciamo ma non li possediamo. Li possiedono i padroni della rete che sono poi gli stessi che possiedono i mezzi per monetizzarli. Dunque il neoproletariato è quello che non riesce a trarre benefici dal potere predittivo di queste informazioni, ma ne subisce le conseguenze sia che la predizione si riveli giusta o sbagliata. Da queste e altre considerazioni Mckenzie Wark ipotizza un nuovo scenario: non si tratterebbe più di capitalismo ma di qualcosa di peggio. La classe dominante attuale non esercita il suo potere attraverso il possesso dei mezzi di produzione, né attraverso il possesso della terra come facevano i proprietari terrieri, «La classe dominante del nostro tempo possiede e controlla l’informazione» (Wark, p. 11). Siamo a una svolta antropologica abortita: mai come oggi c’è stata la possibilità di avere accesso a informazione e beni gratuiti e di godere dell’abbondanza e della disponibilità degli stessi ma, all’inverso, dobbiamo subire l’esistenza di un sistema di monopoli, banche e governi che cercano di mantenere privata, scarsa e commercializzabile ogni cosa. Questa situazione non rimanda alle cosiddette sfaccettature del capitalismo come quella finanziaria o quella delle speculazioni immobiliari, ma a una situazione più complessiva nella quale il vecchio capitalismo si conserva in sacche residuali, seppur importanti, mentre il nuovo sistema pervade tutte le realtà e non soltanto quelle il cui core business è il trattamento dei dati e della informazione. Ogni azienda oggi è tenuta alla digitalizzazione dei processi e a investire in ICT. Anche le aziende automobilistiche sono dentro il business dell’informazione, guadagno infatti di più dai prestiti che dalla vendita delle auto. Molta produzione, nel passaggio da analogico a digitale, si è smaterializzata divenendo pura informazione (musica, film, libri). La produzione stessa con le macchine a controllo numerico è informazione. La logistica è in sé informazione e la logistica è oggi il settore più importante che guida l’innovazione del sistema di produzione e di scambio. Ci sono poi le piattaforme di servizio che prelevano una sorta di gabella dal trattamento di quella informazione che fa incontrare la domanda con l’offerta (Airbnb, Uber, The Fork, Booking.com) o Google e i social network che monetizzano in pubblicità il loro monopolio delle informazioni che prelevano dai nostri comportamenti. «L’informazione è ormai il mezzo per controllare le catene di distribuzione globali che raggiungono il cuore del cosiddetto mondo sottosviluppato» (p. 13) L’informazione regola cioè l’accesso a quelle forme residue di produzione manifatturiera che il vecchio capitalismo sfrutta, a sua volta sfruttato da questa sua nuova espressione. Il nuovo sistema economico preconizzato da Mckenzie Wark sarebbe perciò una forma di ipercapitalismo che subordina il vecchio sistema. Le applicazioni più esplicite della AI (Artificial intelligence) sono ad esempio dei sistemi di chatbot come Echo Alexa di Amazon che sono delle interfacce per trasformare i tuoi desideri in una forma comprensibile alla macchina. Una volta istallato Alexa Echo, il tuo compito è quello di addestrarla a imparare cosa è l’umano, ovviamente non nella sua complessità, questo alla macchina e al Capitalismo Digitale non interessa, ma esclusivamente come consumatore. La narrazione è allora questa: “Alexa saprà tutto di te, forse anche più di te stesso ed è al tuo servizio”, così recitano gli spot pubblicitari. In realtà Alexa è lì proprio per imparare il modo migliore per venderti qualcosa, ma non soltanto a te. Con i tuoi dati Alexa impara qualcosa anche degli altri umani intesi soltanto come consumatori. Alexa la installi a casa tua ma lei non abiterà con te, Alexa ha la testa tra le nuvole. Quella che abita con te non è altro che un sensore, un microfono spia che te hai comprato per farti spiare. Alexa è sul cloud ed elabora i dati che tu le fornisci gratuitamente. Alexa è un sistema che sfrutta il tuo lavoro nel suo addestramento senza darti in cambio nessuna remunerazione.

Sul cloud abita anche Amazon Turk che fornisce una logistica sofisticata la quale, tenendo conto dei flussi di energia, lavoro, risorse e prodotti, li gestisce fornendoti tutto quello che ti occorre (che occorre al Capitalismo Digitale). Anche la manodopera a basso costo per produzioni tipiche del capitalismo antico. Forza lavoro sfruttabile anche perché imprigionata in quei confini che il neoliberalismo aveva aperto ai mercati ma non agli umani. Il blocco dei flussi migratori non serve a tutelare il decoro del nord del mondo, serve a ridurre in schiavitù le popolazioni del sud. Ma anche dove il capitalismo mostra il suo volto più antico, l’ipercapitalismo, quello che Wark chiama la classe vettoriale o quello che io chiamo Capitalismo Digitale (scrivendo i due termini con l’iniziale maiuscola), riesce ad estrarre anche da qui informazioni, quel surplus che servirà per produrre modelli predittivi che subordinano ulteriormente ogni attività alla stessa economia politica dell’informazione. Il termine vettore e classe vettoriale chiarisce il rapporto che la nuova classe nei confronti dell’informazione. L’importante non è il possesso delle informazioni, di quante se ne ha, l’importante è il possesso del vettore e cioè dei protocolli legali e tecnici che rendono “scarsa l’informazione”, la rendono meno disponibile. Non importa possedere, l’importante e controllare.

Un modello in cui non si è altro che utenti e ogni azione compiuta nel raggio d’azione dell’Echo, ogni movimento compiuto col proprio telefono appresso, ogni cosa fatta sul proprio lap top, ogni cosa registrata di te o su di te mentre vivi la tua vita, è catturata da un vettore e inserita in un computer per capire come meglio usarti a maggior gloria di Amazon, Google, Apple o qualche altra azienda posseduta o controllata da un nuovo tipo di classe dominante, la classe vettoriale (p. 17).

Una caratteristica distingue il nuovo capitalismo: la monetizzazione è qui il frutto di una operazione principalmente estrattiva e non produttiva. Ma anche da questo punto di vista sopravviene una differenza. Nel capitalismo classico l’estrattivismo rimanda alla rendita, alla proprietà della terra, ma per quanto riguarda invece il Capitalismo Digitale, siamo di fronte a un elemento di continuità e di un altro totalmente nuovo. La continuità consiste nel modo di appropriazione, nell’uso delle enclosures, le recinzioni delle terre comuni all’origine e le varie forme di proprietà intellettuale oggi. Questo comporta che quando trattiamo l’informazione, si presuppone che la merce di cui vogliamo appropriarci abbia delle soluzioni di discontinuità tali da poter venire recintate, da poter descrivere attraverso un brand, un brevetto, una qualsiasi forma di proprietà intellettuale. Mentre il contadino e l’operaio producono merci equivalenti, il lavoratore cognitivo (quello che Wark chiama la classe hacker) deve produrre elementi differenziali, anche creativi, tali da poter essere riconoscibili come proprietà intellettuale. La sussunzione al capitale fisso del saper fare della forza lavoro, è in questo caso evidente e profonda. Ma non si tratta di un sapere astratto, del sapere di un intelletto “generale”, ma di qualcosa di più “particolare”, di più intimo e concreto. Quello che Franco Berardi (Bifo) chiama l’anima messa al lavoro. Una rivoluzione che passa dal disciplinamento al coinvolgimento. Dal distacco alienante della produzione fordista dove domina lo scollamento tra vita e lavoro, alla presa ammorbante che il Capitale Digitale esercita sulla vita, ma non – di nuovo – la vita astratta, ma quel grappolo di relazioni che fondano il soggetto plurale e che sono fatte di emozioni, incontri, sofferenza e piacere che vengono assorbite dalle macchine per restituirci in uscita una nostra astrazione: la descrizione media probabilistica delle nostre anime, del nostro saper fare, del nostro saper amare, del nostro saper parlare. Una volta la macchina sussumeva un sapere astratto, adesso è la macchina che lo crea assorbendo e annichilendo quello concreto.

La quarta rivoluzione industriale produce un proletariato inconsapevole dal quale estrae una grande quantità di informazioni che precedentemente circolavano nel comune; le parcellizza, le fa diventare discrete (e quindi digitali) per incanalarle in flussi macchinici che le rendono merci appetibili. Per trasformare l’abbondanza in scarsità, si limita semplicemente il fatto che siano a disposizione. Quello che era a disposizione, l’informazione che liberamente circolava, viene ingabbiata nella rete informatica, deviata nei cloud proprietari delle grandi compagnie e restituita a pagamento. C’è ancora un residuo di produzione e qualcosa che richiama il vecchio capitalismo: produciamo infatti informazione senza possedere i mezzi per realizzarne il valore. E quando parliamo di produzione smaterializzata non siamo di fronte a oggetti evanescenti, ma al fatto che oggi invece che oggetti produciamo informazioni sugli oggetti.

La forza lavoro nelle produzioni dell’infosfera non è un soggetto alienato e inconsapevole, è soltanto resa impotente da quel meccanismo di appropriazione che caratterizza il Capitalismo Digitale. Conosce cosa e come si produce, ma non ha i mezzi per intervenire. Mai come adesso essa ha l’opportunità «di pensare e agire come classe producendo non soltanto conoscenza collaborativa ma anche prototipi sperimentali di un altro modo di vivere» (Wark, p. 23). Cosa che il proletariato del vecchio capitalismo aveva come attributo di una negazione, il fatto cioè di non avere nulla da perdere in maniera tale che poteva principalmente ribellarsi, ma non aveva la possibilità di esperire e forse soltanto immaginare degli altri modi di vivere. Per questo il vecchio proletariato era legato agli eventi dirompenti, allo spezzarsi delle catene. Per questo oggi la rivoluzione può invece essere pensata come processo. Attenzione, non è che le cose sono diventate più facili, anzi. La mancanza che costituiva il motore delle rivolte proletarie era una cosa tangibile, se ne aveva coscienza. Il difficile era la costruzione del socialismo a partire da quelle rivolte. Oggi i recinti del Capitalismo digitale imbrigliano l’informazione, la sottraggono ai suoi produttori, la rendono indisponibile. Le enclosures informatiche producono l’effetto opposto della massificazione. Questa era di pertinenza dei media elettrici. La distruzione della cultura popolare cara a Pasolini avvenne per opera della televisione restituendo una cultura bassa e di massa. È il passaggio dal capitalismo classico al neocapitalismo, ma non ancora all’ipercapitalismo dell’oggi. Il neocapitalismo produceva e produce ancora (l’abbiamo detto, non tutti i vecchi modi di produrre si sono estinti, sono semplicemente subordinati al nuovo) soggetti trasformandoli in massa, allo stesso modo nel quale produceva in massa gli oggetti (Wark, p. 162). Pasolini – dice Wark – «coglie un punto chiave: il fatto che la classe operaia non sia riuscita a trasformare il capitalismo non significa che non l’abbia fatto qualcun altro. Tra gli effetti di questa rivoluzione interna c’è una trasformazione della lingua dal basso verso l’alto, che è pienamente riuscita. Il tentativo della rivoluzione esterna di occupare gli apparati ideologici e costruire una cultura controegemonica a partire dalle sovrastrutture verso il basso era già sorpassato. Il marxismo raffinato è stato abbandonato tra le sovrastrutture obsolete» (Ivi, pp. 161-162).

La classe hacker, quella dei lavoratori/produttori dell’informazione, dunque, nonostante il fatto che sia una classe più consapevole, rimane impotente, non dispone della rabbia proletaria che le permetta di deviare i flussi macchinici, mentre, sull’altro versante, permangono bloccati da fattori inerziali i modi di produzione teoricamente obsoleti. Ma non è l’inerzia borghese, è una forma di inerzia generalizzata che porta acqua soltanto al mulino della oligarchia dell’informazione. È l’inerzia che disegna il paradigma odierno e coglie nello stesso tempo il fatto per il quale è intravedibile la possibilità tecnica di una forma di automazione che liberi molti umani dallo ignobile ricatto del lavoro salariato, proprio nello stesso momento nel quale si sta facendo strada l’opinione che questo sistema energivoro è insostenibile.

Dall’altra parte invece, uno sparuto gruppo di oligarchi informatici interpreti di una nuova forma di capitalismo, si conquista una posizione monopolistica attraverso la quale gestisce e controlla tutti i flussi della informazione, impedendo che possa essere utilizzata in termini costruttivi dal resto del mondo.

Mckenzie Wark, il capitale è morto il peggio deve ancora venire, Nero NOT, Roma 2021, pp. 193, € 18.00

Gilberto Pierazzuoli

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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