‘La pandemia è un cancello tra un mondo ed un altro. Possiamo attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro odio, dei nostri pregiudizi, la nostra avidità, le nostre banche dati, le nostre vecchie idee, i nostri fumi morti e i cieli fumosi. Oppure possiamo attraversarlo con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso. E a lottare per averlo.’ Arundhati Roy
Da questo passaggio oscuro della pandemia/sindemia, e dalla crisi sociale, ambientale e climatica, si può uscire in due modalità, la prima è che tutto torni come prima, la seconda è provare ad immaginare un mondo diverso e a costruire un modo di vita individuale e collettivo differente dal passato. E’ il tema del libro La vita lucida, un dialogo fra l’analisi sociologica di Lelio Demichelis e quella filosofica di Paolo Bartolini, con la postfazione di Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista.
‘Perché La vita lucida? Perché il passaggio storico che attraversiamo è insidioso, immerso nella confusione di un cambiamento incessante che nulla cambia davvero’ , scrivono gli autori nell’introduzione. Lucidi si diventa volgendo il lume della ragione critica, non solo verso le configurazioni del potere attuale, ma anche in direzione delle nostre ombre, della complessità, ‘in territori liminali al confine fra conscio ed inconscio, là dove saggezza, poesia, gentilezza e pensiero meditante cooperano per intensificare la vita e strapparla al riduzionismo e alla barbarie’ scrive Benasayag.
‘Aprirsi al sapere ma anche e soprattutto al non-sapere dunque, ma per imparare l’arte della cura reciproca, allentando la presa dell’economia del profitto sulle nostre vite, liberando sogni, pratiche e passioni non conformi’, per sfuggire all’uniformazione indotta dal potere tecno-capitalista.
La gabbia/pentola
‘Si, dovremmo (avremmo dovuto) cogliere l’invito di Arundhati Roy, varcare il cancello e lasciare alle nostre spalle la gabbia/pentola in cui ci tiene il tecno-capitalismo’ e ribadire con forza che ‘ il mito della crescita illimitata è un’assurdità, che l’imprenditorializzazione del sé è oscena e che il neoliberismo è una prigione per umani cronicamente indebitati’….’E invece stiamo tornando indietro, abbiamo chiuso il cancello davanti a noi’.
La gabbia/pentola richiama la metafora delle rane di Noam Chomsky: ‘ovvero se una rana viene buttata viva nell’acqua bollente di una pentola, comprende immediatamente la gravità della situazione e cerca di uscirne e di salvarsi; se invece viene messa nell’acqua fredda e poi questa acqua viene fatta riscaldare lentamente, la rana non si accorge del ‘problema’, vive l’aumento della temperatura come una sorta di ben-essere o di comfort-zone (e queste sono il consumismo, l’industria culturale, la società dello spettacolo e dello spettacolare, i social e le community in rete) e quando l’acqua è diventata troppo calda è anche troppo tardi per mettersi in salvo. Il primo caso è quello della pandemia; il secondo, quello della crisi ambientale, ma anche della crisi sociale, con le disuguaglianze e l’impoverimento di massa che continuano a crescere.’
Rane lesse e formattate
‘Con la complicità e la pressione anche sulla politica di un’ ‘io’ formattato da decenni a un egocentrismo compulsivo e incapace di responsabilità e di vivere secondo un doveroso principio di realtà o meglio di responsabilità ambientale e sociale (e sanitaria), che devono essere rimossi o subordinati e così resi funzionali al funzionamento del tecno-capitalismo, oggi variabile assolutamente indipendente ed impazzita’.
Quel che chiamiamo tecnocapitalismo, è un patologico, ambiguo riduttore di complessità, scrivono gli autori nell’introduzione; mentre per Benasayag, nella postfazione, tecnocapitalismo sta a significare che ‘nel presente (ma per il futuro non possiamo sapere) la tecnica è totalmente al servizio del capitale’.
Quel tecnocapitalismo, in cui ’ogni consumatore, ogni lavoratore, ogni partecipante ai social è un Peter Pan che non deve crescere, ma deve continuare a credere di poter giocare come un bambino, appunto nella ripetizione sempre di nuovo del sempre uguale tecno-capitalista’. Che ci fa correre in modo inarrestabile verso la novità, nel tentativo di soddisfare desideri fittizi: ‘Dopo ogni innovazione tecnologica, ne aspettiamo un’altra: automobili, tablet, smartphone, internet.. ‘ E così grazie a questa tecnocultura ci evolviamo inconsapevolmente in Homo Cyborg.
Quel tecnocapitalismo che ‘è ontologia, teleologia e teologia, è ideologia totalizzante e totalitaria (ma di un totalitarismo che non vediamo crescere, come le rane di Chomsky non percepiamo l’acqua che si riscalda); che produce non solo merci ma, attraverso le merci e soprattutto la tecnica, uomini formattati secondo le proprie esigenze’.
‘Anche quella che era la sinistra politica…..vive come le rane di Chomsky credendo che l’acqua che si riscalda sia quella delle terme dove è andata a rigenerarsi…..Diventando anch’essa parte funzionale del sistema, offrendo ‘una adesione conformista alla logica del mainstream: languida nelle parole d’ordine, incerta e banale nelle proposte, lontana dalla società.’
Come si esce ?
Si domandano i due autori de La vita lucida, da questa pandemia comportamentale globale (neoliberalismo & nuove tecnologie), che tutti più o meno abbiamo introiettato, che ha cancellato socialità e responsabilità, per renderci sempre prestanti, performanti, flessibili, e soprattutto competitivi con gli altri e con noi stessi, che ha industrializzato il pathos, fino a farlo diventare automatismo psichico e normalità e ordine stabilizzato di vita-adrenalinico e insieme dopaminico per superare ogni limite, per essere sempre davanti a tutti.
La retorica del sistema è TINA (There Is No Alternative) non ci sono alternative: ‘Il potere già prepara il suo ‘capitalismo sostenibile’, si appropria di parole d’ordine e di aspirazioni trasformative, riducendole al mantra di una crescita green che è possibile solo nelle teste confuse di leader illusi o menzogneri’
‘Contro questa società (…) non basta definirsi alternativi o disobbedienti: bisogna fare dell’antagonismo alla civilizzazione uno stile di vita […] Per raggiungere questo traguardo non basta decostruire il mondo civilizzato (antropocentrico, meccanicista, sessista) ma occorre de-civilizzare noi stessi, de-civilizzare il nostro immaginario. In questo modo, forse, riusciremo a vincere il dominio della civilizzazione, che vuole trasformare la natura, trasformando l’essere umano in un categoria produttiva’. Ma non basterà affidarsi unicamente all’antagonismo, ‘la disobbedienza, da sola, genera acredine, sofferenza, gorghi stagnanti’.
‘La transizione epocale in cui siamo immersi – e qui arriva il punto cruciale – non contempla soluzioni ‘riformiste’ ai problemi che ci assillano e, contemporaneamente, non si concilia con la paranoia degli ideali rivoluzionari che hanno macchiato di sangue il Novecento’.
Tessere una trama nuova
Bisogna tornare a immaginare, dopo tre secoli di nichilismo che ci ha annichilito l’immaginario, a recuperare un’etica umana ed umanistica, e un pensiero critico non solo calcolante, come vuole il sistema, ma anche complesso meditante, meditativo e responsabile, per sfuggire all’uniformazione indotta dal potere tecno-capitalista.
‘Abbiamo già un terreno comune di lotta, valido in linea di principio per tutti gli umani che abitano la Terra: resistere alla deriva ecologica e sociale innescata dagli sviluppi di lungo periodo del tecnocapitalismo’.
‘Ci serve allora un’idea, una grande idea che non deve diventare ideologia, né grande narrazione. Occorre cioè-provo a spiegarmi meglio-un agire, ma avere/vivere/immaginare anche una dimensione sovra-individuale-che appunto sappia cogliere in sé il meglio delle forze antagoniste esistenti, ma dando a queste forze una idea (una idea molteplice, plurale, non omologante, non unidimensionale, non gerarchica-ancora spezzare il potere anche dell’idea stessa, per evitare che diventi potere incontrollato), un’ orizzonte, un’isola sconosciuta da cercare più che da raggiungere’.
Verso l’isola sconosciuta
Occorre cercare una barca, come l’uomo di Saramago e immaginare l’isola sconosciuta, come trasformazione collettiva e personale, per un co-divenire gentile, per un inesauribile processo di umanizzazione. ‘Non si dà trasformazione del mondo senza una concomitante e profondissima, trasformazione psicospirituale dei singoli’.
‘Penso, invece, che il lavoro che ci attende sia quello di rintracciare in noi stessi, nella nostra quotidianità, ciò che sfugge alla norma, ciò che non si lascia contabilizzare, ciò che eccede gli schemi del dare e dell’avere, e si sottrae al mercato delle prestazioni e del profitto.’
L’amore rivoluzionario di Etty Hillesum, come esempio: ‘Ad ogni crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravvivremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola.’
Elogio del flou
‘Sarebbe un errore credere che la vita lucida sia quella condensata in un sapere razionale completo o nella pretesa di ‘capire’ l’intero dell’esperienza umana (e non solo). Dobbiamo quindi fare un passo di lato e riflettere su nuove forme dell’agire che sappiano convivere con lo sfuocato, con l’incerto, con l’indefinito. Con il flou, appunto’, scrive Miguel Benasayag, nella postfazione. ‘Uscendo dall’illusione di essere creature perfettamente individuate, risolte, “in sé”’ e ‘costituendo un immaginario alternativo e sovversivo rispetto a quello dominante’. Il flou, un termine che in francese ha diversi significati, qui designa una condizione di apertura, di pluri-dimensionalità, di consapevolezza della molteplicità, di possibilità appunto. ‘L’azione collettiva, per attraversare quest’epoca buia e promuovere la vita, deve invece articolarsi con altre dimensioni dell’essere, sottili e sfuggenti, aperte e molteplici.’
‘E’ tempo di essere un po’ pazzi’, per non morire tecnocapitalisti. E di tecnocapitalismo.
Gian Luca Garetti
Paolo Bartolini, Lelio Demichelis, La vita lucida, Jaca Book, Milano 2021, pp. 201, 20 euro
Gian Luca Garetti
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