Ecologia oscura

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L’ecologia si deve disfare della Natura, del concetto di natura. La natura premurosa o leopardianamente matrigna che sia, è uno sfondo, qualcosa di esterno che segna profondamente il senso dell’Antropocene. L’ecologia di Morton è allora un’ecologia che non ha bisogno della Natura.

Questo libro di Morton è probabilmente quello più ricco e complesso della sua produzione. È perciò un libro difficile, arduo nella lettura, ma ricco di soddisfazioni, spunti e rimandi. È un testo interdisciplinare nel senso più alto del termine. L’ecologia oscura è infatti una forma di messa in discussione di tutte quelle presunte ecologie lineari che navigano in superficie e che non sarebbero capaci di una lettura profonda del modo di abitare il pianeta da parte degli umani e non umani. Raccontare in maniera puntuale di cosa parla il libro, è allora parimenti difficile. Quello che propongo è qualche spunto, qualche suggestione che mi ha coinvolto e che mi ha costretto a usarla come a farne una glossa. Morton è infatti un autore eccentrico, a volte esuberante nelle metafore e nelle invenzioni linguistiche, ma la materia, difficile da interpretare anche di fronte alla inefficacia dei gridi di allarme che si sono elevati da più parti, si presta a questa revisione degli strumenti ermeneutici per trovare qualcosa che riesca a fare presa su di essa; una materia dunque scivolosa in superficie, afferrabile allora soltanto attraverso l’oscuramento dei collocamenti più facili, lineari e limpidi che hanno dominato il pensiero ecologico fino a qui.

La conoscenza ecologica, quell’insieme di fattori che possono richiamarci a una forma di orrore condito da una qualche rassegnazione venata da una gioia maligna che ci fa sgranare gli occhi di fronte alla catastrofe.  Quella politica ecologica basata sulla colpa che secondo Morton è alla base di strategie da “ritorno alla natura” dove la colpa sarebbe questo allontanamento. L’ecognosi è allora la serietà mortale. «L’alternativa è giocare oppure rimanere paralizzati dalla paura: In assenza di un atto di reificazione, l’orrore diventa simile a ciò che designa il termine latino horrere – semplicemente “rizzarsi”, come se i peli del tuo corpo si mettessero sull’attenti.» (p. 176)  Dice Morton, un brivido, qualcosa che ha a che fare con il comportamento estetico che secondo Adorno (citato da Morton) è la capacità di rabbrividire in qualche modo. E dove la soggettività è quella cosa che si libera «dalla cieca paura del brivido» ma è allo stesso tempo «il vero e proprio dispiegarsi di quest’ultimo; nulla è vita nel soggetto tranne il fatto che esso rabbrividisce, reazione alla signoria totale che lo trascende. La coscienza senza brivido è quella reificata. Il brivido in cui la soggettività dà segno di sé senza già sussistere è, invece, l’esser toccato da un altro L’atteggiamento estetico si plasma su di lui, invece che assoggettarselo. Nell’atteggiamento estetico tale costitutivo riferimento del soggetto all’oggettività sposa l’eros alla conoscenza.» (Adorno) L’orrore, questo tipo di orrore è ecologico dice allora Morton. L’orrore è la sensazione, il brivido, l’accapponarsi della pelle all’incontro con l’altro, ma è una forma di orrore segnato da un incontro, da un toccarsi, dall’essere toccato. Non è infatti detto che l’orrore ti congeli: c’è un’agenzialità residua, quella che esprimono i non umani quando giocano. Quella di un gatto che ti mordicchia ma che allo stesso tempo dichiara che quello non è un morso, che è soltanto un gioco. L’orrore da rifuggire non è questo orrore, l’orrore che paralizza è la serietà. La mancanza di brividi, quando non c’è una relazione estetica. Eppure siamo tutti costruttori di giocattoli dice Morton. Ogni “far finta” è un mondo in miniatura, è la costruzione di un modello, di un prototipo, di moduli con cui pensare. «Giocattoli svincolati dalla temporalità propria dei bisogni aziendali» (p. 177). La costruzione dei giocattoli non è infatti altro che la realizzazione di temporalità di gioco che «oltrepassano l’arco temporale della agrilogistica» (ibidem). L’incontro con l’altro provoca un brivido e uno spaesamento, l’unheimliche freudiano che Masahiro Mori traduce nel fenomeno della “uncanny valley” (zona perturbante o valle perturbante). La ricerca analizza sperimentalmente come la sensazione di familiarità e di piacevolezza generata in un campione di persone da robot e automi antropomorfi aumenti al crescere della loro somiglianza con la figura umana fino ad un punto in cui l’estremo realismo rappresentativo produce un’inversione delle reazioni emotive positive destando sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine paragonabili allo unheimliche. Perché non è il completamento altro che turba ma quello che ha un che di familiare come dice Freud e come illustra la valle del perturbante di Masahiro Mori. Anche per questo il riconoscimento facciale e le routine algoritmiche connesse sono pericolose e tendono al discrimine. In un certo senso recuperano la fisiognomica instaurando tutta una serie di diversità, di non conformità, quella che permette di collocare cose familiari, somiglianti ma non coincidenti in un classificatore. Quelle che aprono alla negazione che come dice Virno è la porta per dichiarare qualcuno meno umano, non umano; che apre la porta a un’empatia perturbata, rovesciata che ha permesso l’orrore dei campi di sterminio nazifascisti da parte di banali esecutori.

L’elemento che provoca il perturbamento è l’apparenza inquietante di una somiglianza che travalica l’oggetto. L’indeterminatezza tra animato e inanimato, tra umano e non umano. La valle si fa più profonda di fronte all’androide somigliante e allo zombie. Il razzismo consiste nell’operazione di trasformazione degli umani in qualcosa di meno umano, in un abitante della valle. «Gli esseri che i razzisti chiamano subumani, inumani, coloro che sono trattati peggio di quelli che chiamiamo animali – considerando come il partito nazista abbia sostenuto i diritti degli animali e come Hitler fosse affezionato al suo cane Blondi. Questo è perfettamente in accordo con il nazismo. I cani sono naturali; gli umani nella Uncanny valley non lo sono. La natura è un concetto razzista» (Qui).

Timothy Morton è un autore con una cultura multidisciplinare incline a creare concetti anche attraverso la coniazione di nuovi termini quali: iperoggetto, agrilogistica, noi mesopotamici, ecologia oscura, ecognosi, subscendenza (modo di relazionarsi degli oggetti). È uno dei pensatori che dichiaratamente fa riferimento alla OOO, l’ontologia orientata agli oggetti, che è una forma di Flat Ontology, di ontologia piatta, non gerarchica. In una intervista dichiara infatti che la OOO è la prima e unica filosofia “occidentale” che possa tollerare. Perché è radicalmente anti-antropocentrica. Rifiuta di considerare gli umani come speciali in un modo che li rende superiori agli altri esseri. Non che gli umani non siano importanti, certo che lo sono. Ma invece di dire “siamo tutti uguali perché siamo tutti fatti di atomi” – il che significa che nulla di ciò che facciamo è così significativo – OOO afferma: “siamo tutti uguali perché siamo tutti persone, che si tratti di scoiattoli o di esseri umani”. L’OOO si basa su alcuni principi più o meno condivisi da tutti coloro che dichiarano di farvi riferimento. Uno di essi è che in OOO il superamento del concetto di causa efficiente che mette perciò in discussione la centralità gerarchizzante delle agency degli umani e dei non umani. L’arte ha, per esempio, una causa ed effetto non locale. Quello che fa è alterare direttamente il principio di causa ed effetto. La dimensione estetica, che è dove realmente accade l’arte è infatti la dimensione causale stessa. Per questo i testi di Morton – anche in ossequio alle sue origini – fanno spesso riferimento all’estetica, una forma di epigenesi delle cose rispondente a un’ontologia piatta.

Anche il termine Antropocene è un altro concetto anti-antropocentrico. Il concetto allude al modo in cui il nostro modo di essere come specie incide sul reale simbiotico. Tutto ciò che è sepolto nella crosta terrestre è in gran parte accidentale. E sebbene quello strato sia antropomorfo, perché formato da umani, non è antropocentrico, perché non ha nulla a che fare con il rendere gli umani padroni e signori di tutto. In realtà, quello che sta dicendo è che gli umani sono la specie tra le specie, il che risulta aver fatto qualcosa di molto, molto classico. Si scopre che hanno scatenato il riscaldamento globale e, di conseguenza, un’estinzione di massa, la sesta nella storia del pianeta. Per questo Antropocene non è un concetto antropocentrico, ma il contrario.

L’agrilogistica è un termine che si riferisce al paradigma che si è creato con l’invenzione della agricoltura (che porta al fatto che siamo a tutt’oggi dei mesopotamici), coincide con il desiderio degli umani di trascendere le loro condizioni materiali. Questo desiderio, che chiamiamo rivoluzione del Neolitico, finì per scatenare un maggiore approfondimento delle condizioni materiali del cosiddetto Antropocene. La cosa buffa è che questo modello di agricoltura che associo strettamente allo sviluppo del concetto di Natura (iniziato in Mesopotamia ma anche in America Latina, Cina, Indonesia, Africa e altre parti del mondo intorno al 10.000 a.C.) è stato pensato per permettere alle persone di affrontare il moderato riscaldamento globale, noto anche come Olocene, che è il periodo che precede l’Antropocene. E, come conseguenza della logistica che ha cominciato a funzionare, o ad operare, come un programma per computer, che è la logistica ancora in vigore oggi, questo tipo di agricoltura ha finito per creare così tante persone che ci è voluta un’industria per sostenerla, ed è così che siamo finiti nella società industriale. Quella logistica ha anche contribuito molto all’avvento di un riscaldamento globale più dannoso, quindi potremmo dire, con un po’ di feroce ironia, che “per prevenire il riscaldamento globale, gli esseri umani hanno peggiorato il riscaldamento globale”. Questo è il ciclo in cui siamo immersi. Queste considerazioni diventano più evidenti se si fa riferimento alla concezione delle temporalità che l’Antropocene e i suoi derivati presuppongono nella sua visione.

La crisi degli ordini simbolici è una caratteristica della nostra epoca e in particolare quella successiva alla rivoluzione industriale. Essa proviene dall’incontro, dalla fasatura, di vari processi. Ma l’oggi è il semplice risultato di un processo per il quale la crisi dell’ordine simbolico ha radici profonde che trova la sua origine in quel peccato originario che è l’invenzione della agricoltura che ha dato inizio a quel paradigma agrilogistico nel quale siamo immersi anche oggi, A quella rivoluzione del neolitico che segna anche l’attuale posizionamento della nostra epoca per il quale – e per Morton – siamo tutti ancora dei mesopotamici. In ciò che accade ora ci sono processi che stanno accadendo da migliaia di anni. Il capitalismo stesso è una manifestazione del neolitico così come lo stesso ambientalismo ecologista nella sua presa di posizione reattiva è esso stesso una manifestazione del processo agrilogistico e si esprime all’interno della stessa temporalità. Il tempo e lo spazio non sono contenitori inerti dei processi che accadono al loro interno. Questi processi sono le interconnessioni tra gli oggetti che avvengono in questo spazio-tempo.

La temporalità non è una successione lineare del tempo, la storia è allora una serie di catastrofi inserite una nell’altra, piuttosto che una sequenza di eventi posti uno dietro l’altro. Una sequenza ricorrente di incapsulamenti che richiama la figura dell’uroboro, immagine usata per la chiusura di ogni capitolo. Questa interpretazione delle temporalità è favorevole ai non umani perché, alla scala temporale del riscaldamento climatico, la storicità umana diventa inoperante. Il concatenamento delle epoche è un gioco insiemistico dove un insieme ne contiene un altro con un regresso all’infinito L’ossigeno in atmosfera testimonia una catastrofe legata all’emersione dei batteri. Il loop batteriologico contiene l’Antropocene. Il Batteriocene precede e ingloba l’Antropocene, ma pur precedendolo in realtà avviene ora, accade adesso. Il Cianidrocene – il momento caratterizzato dall’emersione della strana danza di morte e vita tra gli acidi nucleici, le proteine, i polimeri di cianuro e di idrogeno – anche esso accade ora in un loop, in una ricorsività del tempo che permea e caratterizza questa epoca fatta di tanti suoi sottoinsiemi. C’è un altro loop, un’altra catastrofe che è quella di quando le cellule hanno iniziato a replicarsi dando luogo al Mimeocene e così via. Con l’Aimocene, un riferimento al ferro e ai conseguenti campi elettromagnetici che permettono alla vita di proteggersi dai raggi solari, che ingloba tutto ed è ancora una volta il tempo attuale: anche questo loop accade ora. Questi accadimenti temporali accadono ora in quella adessità che non è possibile ridurre a un punto atomico di una qualsiasi scala temporale.

Altro aspetto del suo pensiero è il rimando ad alcuni caratteri della filosofia continentale come la decostruzione. La decostruzione chiama la metafisica della presenza, l’idea che esistere è essere costantemente presente. Quell’idea è radicata nello spazio sociale e corrisponde grosso modo all’idea di Natura, che è uno dei motivi per cui abbiamo problemi così gravi e con noi anche la Terra. Si potrebbe dire che la decostruzione e l’ontologia orientata agli oggetti, così come l’adesione a tutte le correnti del pensiero teorico di sinistra, come il marxismo o l’anarchismo, sono lo sfondo del pensiero dietro questo particolare metodo di filosofia ecologica.

Timothy Morton, Ecologia oscura, Logica della coesistenza futura, Luiss, Roma 2021, pp. 214, € 20.00

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Altre indicazioni bibliografiche

Masahiro Mori (1970), Bukimi no tani – The uncanny valley (K. F. MacDorman & T. Minato, Trans.). Energy, 7(4), pp. 33–35.

Theodor W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, pp. 466-467

Gilberto Pierazzuoli

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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