Assembramenti di Felice Cimatti

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Assembramenti sediziosi

Il libro si divide in 18 piccoli capitoli, introdotti da una fotografia in bianco e nero che illustra qualcosa che possa accompagnare il ragionamento sul tema degli “assembramenti”, cominciando anche dal fatto che l’immagine stessa dà luogo a uno di questi, accostando uno o più cose nella rappresentazione. Le foto sono così immagini di relazioni. Le relazioni permeano la realtà pur essendo dei legami metastabili che sussistono soltanto il tempo di prenderne atto. La realtà è in divenire. Essa è un continuum dove le emersioni e le condensazioni “individualizzanti” avvengono all’interno di una materia perturbata dove dunque le cose sono eventi anch’essi metastabili che creano nuovi perturbamenti e alleanze – gli assembramenti del titolo – e dove, le cose stesse, sono dunque più soggetti che oggetti.

È dunque un libro sulla ontologia, ma in un senso tutto particolare e risponde alla esigenza di
e gli umani – l’antropos di antropocene – da quella posizione centralizzata e verticistica caratteristica della civiltà occidentale, quella che culmina nel capitalismo e nelle sue attuali declinazioni. Una forma di pensiero per la quale il mondo, la natura, è qualcosa di esterno e quindi a disposizione della specie umana che lo ha così depredato, provocando quella crisi ambientale, dove l’unica via di uscita non può essere altro che un ulteriore intervento sulla natura stessa. Si tratta infatti, non di un cambio di rotta, ma di un ulteriore intervento delle tecnologie umane sulla natura stessa. Una possibilità e un’occasione in più per il capitale. È un esigenza – quella del decentramento umano – che attraversa tutto il pensiero critico con punte di esasperazione tali da mettere addirittura in discussione il diritto stesso all’esistenza su questo pianeta della specie umana (Zapffe).

Si inizia dalla prima immagine, quella che è anche centrale per il ragionamento di Cimatti: il campo (che pubblichiamo in altra parte della rivista). Questo perché esso è la metafora che ci restituisce il luogo topologico ove più agenti si possono incontrare, dove si possono cioè formare assembramenti. Ma il campo non è soltanto un contenitore, è esso stesso un agente che subisce e provoca nello stesso tempo degli ulteriori assembramenti, in una catena infinita degli stessi che vanno così a costituire quel magma di fondo che è il mondo; mondo che non è quello che l’umano osserva trovandosi così in una posizione esterna rispetto allo stesso, ma che lo comprende e con il quale interagisce o meglio ancora intra-agisce. Un luogo mai vuoto: «Se un campo senza umani (e animali) è vuoto, questo significa che il mondo è una sorta di palcoscenico per le azioni degli umani» (p. 9). Il campo offre a Cimatti anche la possibilità di fare dei ragionamenti su dei concetti fondamentali del pensiero occidentale e in particolare sulla distinzione aristotelica tra potenza e atto. L’assembramento bambino-pallone, che il campo evoca come possibilità, esiste certamente in potenza, è potenziale in quanto suscettibile di attuazione, ma la sua realtà, in questo caso, sarebbe semplicemente un’ombra e si esplicherebbe totalmente soltanto nel passaggio all’atto. Ma «questo modo di intendere il campo, tuttavia, è limitante, perché lo priva della capacità di essere produttivo di qualcosa di realmente sorprendente, cioè di assembramenti che non esistevano nemmeno potenzialmente», (p. 11) dice l’autore che ci fa notare che non si può sapere in anticipo che cosa succederà nel campo. Un campo che, come abbiamo visto, non si può considerare vuoto anche perché, in quel caso non sarebbe altro che un mero contenitore.

E qui inizia il gioco dei sinonimi che permette all’autore di confrontarsi con altri pensatori. Il sinonimo concettuale di campo è allora la “carne” di Merlau-Ponty. La carne diventa «il sostrato vitale e vitalizzante di ogni assembramento» allora «il mondo è campo, e a questo titolo sempre aperto» aggiunge Merleau-Ponty (p. 154). Ma quello che è più interessante è il fatto che il concetto di “carne” non sia pensabile attraverso la coppia potenza/atto. Questo avviene perché la potenza è subordinata all’atto che le è anteriore in senso metafisico e non cronologico, portandoci alla situazione per la quale si priverebbe il campo della sua autonoma agentività. «In questo caso, invece, ci interessano quegli assembramenti che appaiono del tutto imprevisti, ossia quelle potenze che non implicano nessun atto» (p.12).

È qui che spunta fuori il concetto deleuziano di “virtuale” che «non è subordinato al carattere globale che involge gli oggetti reali, dato che non solo per la sua origine ma nella sua propria natura, il virtuale è brandello, frammento, spoglia, non rispetta la propria identità» (Deleuze, p. 132). Il virtuale non è in attesa di un atto perché per esistere non ha bisogno di rispettare la propria identità. Per capire questa affermazione bisogna però capire la differenza tra il realizzabile, che riguarda il possibile, e l’attualizzabile che, per comodità esemplificativa e per essere in linea con il ragionamento di Deleuze, assegniamo esclusivamente al virtuale. «L’attualizzazione del virtuale avviene sempre per differenza, divergenza o differenziazione. […] In questo caso l’attualizzazione, la differenziazione è sempre un’autentica creazione, non si dà per l’imitazione di una possibilità preesistente» (p. 274). È qui, per inciso, che il ragionamento di Cimatti interseca per un attimo quello del penultimo libro di Agamben (L’irrealizzabile) che gli è anteriore ma non così tanto da permettere a Cimatti di averlo già letto, dove l’irrealizzabile è proprio il suo contrario: «la realtà non è l’effetto di una realizzazione, ma un attributo inseparabile dell’essere. Il reale, come tale, è per definizione irrealizzabile» (Agamben, p.8). Non a caso nel testo di Agamben non appare nessuna occorrenza del termine “virtuale” che in qualche modo mette in discussione l’opposizione tra potenza e atto, introducendo qualcosa che non realizza una possibilità posseduta a priori ma ne crea una nuova. Il virtuale è allora l’imprevisto. Qualcosa che accade per una differenziazione casuale e non causale. Sono le mutazioni del virus di cui Cimatti ci parlerà un po’ più avanti.

In discussione è l’indispensabilità della causa efficiente anch’essa alla base del pensiero occidentale. Pauli in un carteggio con Jung, citato nel capitolo dedicato al “caso”, propone per le manifestazioni di elementi acausali, il termine “incarnazione”. «Il concetto di “incarnazione” coglie in modo suggestivo il carattere ‘creativo’ e inaspettato (acausale) dell’assembramento: quest’ultimo, infatti, prende forma in un determinato “esser così” solo perché accade proprio così. Non esiste una causa dell’incarnazione – cioè dell’improvviso prender forma di una pura virtualità – non può esistere, perché se esistesse non sarebbe che il normale effetto di una causa antecedente» (p. 150). Un evento che non è ancora diventato reale è appunto dell’ordine del possibile mentre uno virtuale non è prevedibile, è un’invenzione della natura che non esisteva nemmeno in potenza. In gioco c’è il concetto di spontaneità della natura senza la quale il mondo sarebbe il luogo in cui le cose accadono perché provocate da una causa efficiente o perché prodotte dall’attività umana. In entrambi i casi le cose sarebbero allora solo e soltanto degli oggetti inerti in attesa di una causa esterna.

Ma il testo di Cimatti – in una lettura implicita e non dichiarata – non tratta di problemi epistemologici fine a sé stessi o importanti soltanto dal punto di vista della disciplina, la metafisica e l’ontologia, ma illustra un concetto che è di enorme aiuto per comprendere il disastro ambientale individuandone molte delle cause proprio all’interno di un certo modo di pensare le cose. Il fatto che esse siano inerti e alla nostra mercé, oppure che siano capaci di relazionarsi e di strutturarsi in assembramenti, cambia completamente il nostro orizzonte prospettico. Ma non costruisce il concetto di assembramento per avere il riconoscimento della sua creazione originaria in un gioco generativo alla Latour (attanti, mediatori, ANT) o alla Mortom (iperoggetti, iposoggetti, ecologia oscura) ma nemmeno alla Haraway le cui “invenzioni” non sono sistematizzate ma hanno una loro giustificazione nel momento in cui aprono a suggestioni in una direzione essa sì proficuamente creativa (il cyborg e l’oncotopo), lo usa, invece, all’interno di un costante dialogo con i contributi speculativi e con delle sinonimie concettuali come “la carne” di Merleau-Ponty, “il rizoma” e “i concatenamenti” di Deleuze e Guattari ripetutamente citati. Non a caso il termine assembramento ha parentele etimologiche con l’inglese assemblage usato in quella letteratura per tradurre appunto il francese agencement da noi tradotto spesso con concatenamenti. Termine quest’ultimo prezioso come non mai a proposito di quello che vogliamo veicolare con lo stesso. «Esso indica l’action d’arranger (sistemare) ou d’agencer, mettre en ordre (che si potrebbe tradurre con il “rimettere” di rimettere a posto), pratiche che hanno a che vedere con gesti quali quelli dell’organizzazione, della disposizione, del mettere assieme (anche relativamente a oggetti nello spazio)» (Pierazzuoli, pp. 102-103). Un termine valigia che in francese richiama una serie di significati che rimandano a una sua agentività, a una potenzialità performativa che gli permette di creare e sciogliere legami, di fare connessioni, concatenamenti (appunto) e nodi, di costituirsi e regolare campi di forze, di stabilire relazioni e mettere in ordine il lavoro di altre agency. Si potrebbe dire che agencement è il piano di lavoro dove si espletano e si rivelano i potenziali di agency delle cose, di umani e non umani. La polisemia corrisponde così a una molteplicità di funzioni. Funzioni dai contorni evanescenti, mutanti; pronte a mostrarsi in altre configurazioni. In Mille piani, la prima parte che introduce il concetto di rizoma, fa largo uso del termine “agencement” tanto da far pensare che il testo si organizzi più intorno ad esso che non al rizoma. L’agencement opera in maniera simile alla macchina desiderante. Il piano su cui il desiderio si costruisce non preesiste ad esso, ma si dà con esso, si costruisce con esso. Si costruisce all’interno di un agencement o per merito di un agencement.

E il confronto spazia tra vari autor*, di Merleau-Ponty abbiamo già detto, ma c’è Wittegenstein: «La caratteristica distintiva dell’oggetto è appunto la sua “non-indipendenza»: infatti «noi non possiamo concepire alcun oggetto fuori della possibilità del suo nesso con altri oggetti» perché gli oggetti non hanno caratteristiche proprie ma soltanto relazionali. «Il soggetto che pensa, che immagina, non v’è» altrimenti sarebbe staccato dal mondo, e non potrebbe né vederlo con gli occhi né commentarlo attraverso il linguaggio (citazioni a p. 22 e 24). C’è Ernesto De Martino: Non vediamo la cosa, vediamo il significato socialmente condiviso di quella cosa (p. 28). Le cose, la loro relativa indipendenza, fanno anche paura. Per questo è possibile pensare alla fine del mondo, cosa relativamente più inusuale per le popolazioni amerindie. «L’assembramento di cose tra cose che cos’è infatti se non una minaccia che ci ricorda che le cose non hanno bisogno di noi» (p. 30). E si spazia tra saggistica e letteratura dove La passione secondo G. H. di Clarice Lispector costringe a un confronto tra il guardare e l’essere guardato. A intercettare lo sguardo dell’altro come lo sguardo dell’animale. Ci viene in mente quella esperienza perturbante che racconta Derrida nel momento in cui incrocia lo sguardo della sua gatta: «Mentre me ne sto nudo sotto lo sguardo di ciò che chiamano “animale”. Nella mia fantasia prende forma un’immagine, una sorta di classificazione alla Linneo, una tassonomia dal punto di vista delle bestie» ragionando sul fatto che gli esperti di animalità, se così si può dire, non ci abbiano, nessuno mai, parlato del fatto che gli animali li hanno mai “visti visti” del fatto che «non hanno mai incontrato lo sguardo di un animale posto su di loro (senza parlare della loro nudità); quand’anche si siano visti visti , un giorno, furtivamente, dall’animale, non ne hanno tenuto alcun conto (tematico, teorico, filosofico); non hanno potuto trarre alcuna conseguenza sistematica dal fatto che un animale potesse, stando loro di fronte, guardarli, vestiti o nudi, e, in una parola, senza parola, senza alcuna parola, rivolgersi a loro; non hanno tenuto alcun conto del fatto che ciò che chiamano “animale” poteva guardarli e indirizzarsi a loro da lì e da tutta un’altra origine» (Derrida p. 50). Anche i filosofi (fa i nomi), i cui «discorsi sono forti e profondi, ma tutto avviene come se non fossero stati guardati, loro, e soprattutto non nudi, da un animale rivolto verso di loro» (p. 51). Cimatti va oltre dicendo che guardare è essere guardato, toglie all’umano il monopolio dello sguardo. Non sono gli umani che guardano, è la luce che le cose riflettono a colpire la retina, ma non è un gioco capzioso; ogni sguardo è in realtà un assembramento possibile perché non c’è uno sguardo da fuori che osserva il mondo, lo sguardo è nel mondo, crea trame, evoca, relaziona. In fondo assembramento non significa altro che questo, che non ci si può mai tirare fuori dal mondo (p.43).

Le entità sono allora emersioni cangianti di concatenamenti, di agencements. Degli accadimenti che turbano il fluire immaginario del mondo. Il mondo è uno sfondo caotico, un Caosmo direbbe Guattari. «Michel Serres nello straordinario libro dedicato al De rerum natura, sostiene che prima delle cose ci sono “i turbini”, perturbazioni/vibrazioni della materia che possono prendere, temporaneamente, la forma di una cosa o di un evento. […] Lo spazio è tempo rallentato, il tempo è lo sfaldarsi dello spazio: Il mondo è l’accadere del clinamen di Lucrezio, ossia “la turbolenza” perturba la catena altrimenti imperturbabile della materia. […] Turba lo scorrimento dell’identico, come Venere ha turbato Marte» (p. 61). All’inizio c’è lo scarto, il clinamen, un movimento imprevisto, una deviazione, un accidente generativo. «È la regola ad essere l’eccezione, mentre lo scarto è la condizione normale del mondo» (Ibidem). Il “turbine” è potenza che travalica il linguaggio e ogni classificazione «non perché non siano ancora sufficientemente dettagliate, al contrario, perché lo sono troppo, perché vogliono costringere il mondo dentro categorie disgiuntive, mentre il mondo è congiunzione» (p. 63). Il clinamen è generativo di cose in quanto differenze; un mondo in cui l’indifferenziata caduta degli atomi, in questo caso una ripetizione, si sviluppa nell’inesauribile formazione di nuovi assembramenti, la differenza dice Deleuze. Ma non una differenza da, ma una differenza in sé che non avendo alcun modello non è la realizzazione di nessun possibile. Di nuovo il “virtuale”. Il virtuale sorprende; gli assembramenti non sono infatti neppure pensabili, non possono cioè fare riferimento a una categoria preesistente.

Non siamo cose, siamo persone, dice il pensiero occidentale. Non ci sono cose, soltanto persone, dice quello amerindio. Il mondo non è fatto allora di cose ma di relazioni, di assembramenti fra persone. Persone come le nuvole, i giaguari, i morti, i cacciatori, i sassi, la foresta e gli alberi. Qui il pensiero selvaggio, nella sua inciviltà, ma nella sua profonda visione culturale, dà una lezione di civiltà all’Occidente. Qui Viveiros de Castro con le “metafisiche cannibali” e il “prospettivismo cosmologico” dell’Amazonia, arricchisce il bagaglio di riferimenti utili a darci un’idea del potere concettuale dell’assembramento.

Ma dove l’assembramento svela il suo potere dirompente è nel momento in cui ci permette di connettere l’ente con l’essenza.

«Gli Enti non vanno pensati mediante la coppia potenza-atto, bensì a partire dal concetto di “virtualità: secondo la prima opzione ogni ente possiede in potenza delle possibilità di realizzazione. In questo modo continua ad esistere un’essenza, un modello dell’ente, che poi si può o no attualizzare; ma l’essenza delimita il campo degli incroci possibili con altre entità. Il concetto di assembramento, invece, permette proprio di fare a meno dell’idea di “essenza”, lasciando quindi l’assembramento del tutto libero di ‘sperimentare’ connessioni non previste, né prevedibili, affatto innaturali, dall’essenza: “il solo pericolo è di confondere il virtuale con il possibile. […] Il virtuale, viceversa, […] possiede di per sé una realtà piena. […] In secondo luogo, il possibile e il virtuale si distinguono ancora in quanto l’uno rinvia alla forma d’identità nel concetto, mentre l’altro designa una molteplicità pura […] che esclude radicalmente l’identico come condizione preliminare. […] [L]’attualizzazione del virtuale avviene sempre per differenza, divergenza o differenziazione» (p. 107, citazione da Deleuze, pp.273-274).

Considerazione fondamentale che permette a Cimatti, attraverso il concetto di assembramento (ma anche a quello di “virtuale” che riprende da Deleuze), di fare a meno del pregiudizio metafisico che distingue la cosa dalle sue relazioni, l’essenza dalle sue relazioni concrete. È quel pregiudizio che secondo Agamben caratterizza il pensiero occidentale e che la OOO, malgrado i suoi sforzi (e intenti) verso il decentramento degli umani, non mette in discussione, postulando al contrario una essenza in sé delle cose. Le polarità potenza/atto e essenza/esistenza e la separazione tra la filosofia e la tecno-scienza, che hanno fatto da volano alle capacità di sviluppo dell’Occidente, hanno però nello stesso tempo portato alla situazione attuale dove, allo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate, fa da contraltare lo scempio ambientale, le disuguaglianze come non mai prima e l’ingiustizia sociale che chiedono ormai perentoriamente una via di uscita. Questa non arriverà di certo attraverso la coniazione di un concetto, ma sicuramente il provare a pensare in maniera diversa attraverso il suo uso, ci può fare incamminare sulla strada di un cambio di rotta radicale in vista della possibilità di vivere in un mondo più giusto: persona tra persone, persona plurale.

In sintesi direi che l’operazione di Cimatti risponde con eleganza a un’esigenza fondamentale del pensiero filosofico e politico attuale: il decentramento dell’umano, umano che allora non deve essere più al vertice della piramide ontologica; e lo fa proponendoci un’ontologia non gerarchica, facendo un’operazione opposta da quella che nell’ambiente anglosassone va per la maggiore. Quella OOO (Ontologia Orientata agli Oggetti, già affrontata in un lavoro precedente dell’autore: “Cose”) oggetto principe del realismo speculativo che domina quell’ambiente e che comunque ci ha dato contributi notevoli nel campo dell’ecologia politica come quelli di Timothy Morton. Là dove per quest’ultimi il fuoco è concentrato sull’oggetto, Cimatti, con il concetto di assembramento, lo sposta sul “soggetto di relazione” ricucendo insieme tante di quelle suggestioni che hanno attraversato il pensiero filosofico contemporaneo e che ho provato a enumerare sopra aggiungendone altre che la lettura del testo di Cimatti mi aveva provocato. Ciò rende il testo qui sopra forse troppo denso di rimandi esterni, ma è il sintomo del valore del lavoro di Cimatti che attraverso un concetto – l’assembramento declinato nelle sue innumerevoli sfaccettature – riesce ad assembrare un quadro che riunisce tutti quei rimandi in una visione unica, in uno strumento direi oggi indispensabile.
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Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993
Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997
Gilberto Pierazzuoli, Una cosmo-politica per Gaia, in: a cura di Andrea Ghelfi, Connessioni ecologiche. Per una rigenerazione: leggendo Haraway, Stengers e Latour, ombre corte, Verona 2022
Giorgio Agamben, L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia, Einaudi, Torino 2022
Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, 2022
Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006
Michel Serres, Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio, Palermo 1980

Felice Cimatti, Assembramenti, Orthotes, Napoli Salerno 2022, pp. 170, € 17.00
Le Immagini sono state prodottte da un AI su input testuale di Gilberto Pierazzuoli.

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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