La nostra rubrica prosegue con una storia, forse sconosciuta ai più: la storia di Peppino Valarioti e dell’antindrangheta in Calabria.
Per definire meglio il contesto entro cui ci muoveremo e capire fino in fondo l’importanza di questa storia, è necessario fare un passo indietro e chiedersi: “che cos’è la ‘ndrangheta?”. Per rispondere a questa domanda, e orientarci nel garbuglio di vicende che racconteremo, faremo riferimento ad un libro appena pubblicato, Sulle tracce dell’antindrangheta. Approfondimenti, testimonianze e strumenti per le scuole, scritto dalla sociologa Sabrina Garofalo.
La ‘ndrangheta è un potere organizzato nella forma della signoria territoriale, dunque «una forma di dominio capillare e personalizzato, ovvero presente su un territorio – inteso come risorse ma anche come capitale di relazioni umane e simboliche – e sulle persone. Nei contesti caratterizzati da forte signoria territoriale viene meno la differenza tra il privato ed il pubblico, poiché diventa predominante la logica dell’apparenza e della omologazione rispetto all’agire condiviso che è fortemente influenzato dalla forza intimidatoria che rappresenta la chiave per comprendere il fenomeno mafioso». È un potere totalizzante, che trae la propria legittimazione dall’uso della violenza, ma questa da sola non è sufficiente per ottenere e conservare il consenso, per questa ragione diventa indispensabile nella vita e nelle relazioni quotidiane del territorio. «Nella vita quotidiana si fa esperienza dei diritti e dei doveri, della cittadinanza, e di tutto ciò che è identificabile come ambito concreto in cui sperimentare una certa qualità della vita. È importante affermare che le mafie sono trasversalmente attraversate dal non godimento dei diritti e, anche al proprio interno, sono caratterizzate da una bassa qualità della vita stessa e da una costante e vissuta angoscia della morte e della violenza».
L’aspetto della territorialità è stato essenziale per la costituzione nel tempo della ‘ndrangheta: la Calabria è la regione in cui questa organizzazione criminale si è formata, ma la Calabria è una regione percepita come marginale nel contesto italiano. Di ciò che succede in questa terra non si parla, e quando lo si fa non sempre si cede la parola a chi la conosce bene ed ha la possibilità di non precedere seguendo solo il senso comune. «In Calabria non ha sede nessuna testata giornalistica nazionale. E questo dice molto su come viene costruita la narrazione su questa terra.»
E allora, di ‘ndrangheta si parla poco e ancor meno delle esperienze e delle pratiche di antindrangheta, e questa mancata conoscenza e lo stereotipo che relega questo fenomeno a una dimensione prettamente calabrese, hanno consentito che la ‘ndrangheta crescesse e costruisse relazioni sempre più forti e capillari che valicassero i confini della regione.
Ma noi siamo qui per parlare di Peppino Valarioti, e questa parentesi è stata utile per costruire un contesto attorno alla sua storia. Giuseppe, detto Peppino, nacque nel 1950 a Rosarno e morì a Nicotera nel 1980, due comuni che nel tempo sono diventati la base operativa di importanti ‘ndrine: la ‘ndrina dei Pesce, che ritornerà più avanti nella storia, nel caso di Rosarno e la ‘ndrina dei Mancuso a Nicotera. La storia delle due cosche, inevitabilmente, si è intrecciata nel tempo e ha determinato l’andamento della vita nei comuni e nell’intera zona.
Peppino nacque in una famiglia di piccoli agricoltori del rosarnese e a metà degli anni ’70, dopo una laurea in lettere classiche, iniziò la sua militanza politica tra le fila del Partito Comunista Italiano. Il suo impegno si concentra soprattutto verso la tutela dei diritti degli operai, dei braccianti e degli studenti, ma Valarioti aveva in mente un piano politico preciso per la Calabria, a partire dalla Piana di Gioia Tauro in cui è collocato il comune di Rosarno: per tutelare i diritti ed il lavoro e per promuovere lo sviluppo socioculturale ed economico del territorio pensava che fosse indispensabile coniugare l’impegno politico al contrasto alla ‘ndrangheta. E che non potesse esistere miglioramento sociale laddove esiste una criminalità organizzata che schiaccia i “poveri cristi”, come li definiva Valarioti, e che dalla loro subordinazione trae beneficio.
Nel 1979 Peppino si candida col PCI alle elezioni comunali di Rosarno, un comune dove c’è una fortissima commistione tra politica e ‘ndrangheta. È una campagna elettorale tesissima, contraddistinta da diversi episodi di violenza, come un incendio appiccato nella sezione comunale del PCI o l’auto bruciata al compagno Peppino Lavorato. Le elezioni si sarebbero svolte nel giugno del 1980 e, nonostante le intimidazioni, i comunisti vinsero e Peppino sarebbe diventato il sindaco di Rosarno. Nella notte tra il 10 e l’11 giugno i compagni festeggiano quella vittoria, che non era solo una conquista politica ma avrebbe potuto determinare un momento di svolta per il contrasto alla ‘ndrangheta.
Come abbiamo detto, però, il legame tra politica e ‘ndrangheta era fortissimo e la vittoria di Valarioti era una pessima notizia per le ‘ndrine del territorio.
In quella notte di festeggiamenti, Valarioti fu ucciso con due colpi di lupara in quello che, a tutti gli effetti, possiamo definire un omicidio politico. Quell’assassinio fu un colpo durissimo per il movimento anti-ndrangheta calabrese e segnò l’inizio di una stagione di sangue.
Il processo, che in teoria avrebbe dovuto fare chiarezza sui mandanti e dare giustizia ad un uomo morto a trent’anni per un progetto politico, fu un travaglio: iniziò nel 1982 nel Tribale di Palmi e vide come imputato Giuseppe Pesce, capobastone della ‘ndrina dei Pesce di cui abbiamo già parlato. Pesce, alla fine, fu assolto con formula piena. Gli assassini di Peppino continuavano a non avere un volto, ma nel 1983 riaffiorò la speranza di fare chiarezza: Pino Scriva, il primo collaboratore di giustizia calabrese, indicò la ‘ndrina dei Pesce e quella dei Piromalli – altra influente ‘ndrina nella Piana di Gioia Tauro – come i mandanti e gli esecutori dell’assassinio di Valarioti e l’assassino sarebbe stato Francesco Dominello, che però era stato ucciso a sua volta nel 1981.
Nonostante le testimonianze di Scriva, Giuseppe Pesce fu nuovamente assolto in Appello. Da allora, nonostante le richieste di riaprire le indagini, non è ancora stata fatta giustizia sull’omicidio politico che costò la vita a Peppino Valarioti.
Francesca Pignataro