Prima di tutto una premessa: per anni non ho visto Sanremo, non mi interessava e preferivo utilizzare il mio tempo per fare altro, ma negli ultimi tre anni ho iniziato a seguirlo con una certa costanza. Mi incuriosiva capire i meccanismi di un programma nazional popolare e mi sono approcciata con curiosità, non per giudicare in modo troppo serio o agguerrito. Qualcosa mi fa storcere il naso e qualcosa di diverte, ma lo guardo come programma di intrattenimento e con una certa leggerezza. Non mi aspetto le esibizioni musicali del secolo e neppure grossa filosofia, ma se la Rai decide di voler affrontare temi sociali pretendo la faccia con criterio.
E veniamo alla quarta sera: la co-conduttrice è stata l’attrice Maria Chiara Giannetta e a lei è toccato il monologo della serata. L’attrice ha interpretato il ruolo di Blanca, una carabiniera cieca. Capisco avrebbero parlato di persone disabili e quindi smetto di commentare in modo scemo il festival con le mie amiche e inizio ad ascoltare con serietà.
Maria Chiara Giannetta spiega che si è impegnata per entrare nel personaggio di Blanca e spesso stava a casa senza luce per provare a capire le sensazioni che vive una persona cieca e per restituire la stessa sensazione al pubblico, sia in sala che a casa, ha chiesto a tutti di chiudere gli occhi e ascoltare perché avrebbero sentito la sensazione che lei ha provato.
A quel punto la mia fronte inizia a corrucciarsi perché temevo veramente la piega che il monologo avrebbe potuto prendere, mi sembrava tutto molto retorico: se non ci vedi allora senti cose che gli altri non riescono a sentire? Se non ci vedi impari a ottimizzare al meglio gli altri tuoi sensi, non diventi un guru spirituale. Ma ero ancora pronta a dar fiducia al monologo perché è pur vero che io sono una criticona e, magari, a volte esagero. Da qui, però, il tracollo.
L’attrice spiega di essere stata affiancata da cinque persone per entrare a pieno nel ruolo, lei li definisce i suoi guardiani. E chi sono questi guardiani? Sul palco Giannetta, effettivamente, non è sola e con le ci sono tre donne e un uomo. A quel punto penso: “ok, ora parleranno loro e spiegheranno qualcosa”. No.
Sono persone senza cognome, sono persone senza un’identità, diventano solo lezioni di vita per Giannetta.
Abbiamo Michela, senza cognome, che le ha inviato dei video di come fa il caffè a casa da sola o di come rifà il letto. Azioni quotidiane descritte quasi come eccezionali e perché questo è disturbante? Perché sono le persone abile a decidere qual è il modo “normale” di svolgere azioni quotidiane, ma quelle azioni si possono fare in modo diversi e ogni persona sviluppa un modo personale di fare al meglio quel qualcosa. E da qui arriva la lezione di vita: Michela, senza cognome, ha insegnato all’attrice come vivere seguendo il proprio tempo e non affannandosi e correndo. Sul problema delle lezioni di vita torniamo dopo, per ora soffermiamoci sulla storia del seguire i propri tempi. Michela segue i suoi temi, ottimo, tutti dovremmo farli e dove sta il MA? Nel discorso si crea uno strano parallelismo in cui sembra che le persone disabili vivano una vita più semplice, lontani dalla frenesia del presente, ma no. Magari Michela sì, ma in generale no. Poter decidere di seguire solo i propri tempi, senza affannarsi, è un privilegio che non tutti possono godersi per il modo nel nostro sistema sociale è costruito. Noi persone disabili non viviamo in un mondo bucolico, viviamo nella vostra stessa società con le stesse regole del gioco con la sostanziale differenza che le regole del gioco non sono state pensate per includere anche noi e spesso dobbiamo affannarci pure di più.
Poi arrivano Marco e Sara, anche loro senza cognome, che si muovono in luoghi assurdi senza difficoltà e la loro lezione di vita a Giannetta è stata quella di farle capire che non c’è nulla di male nel chiedere aiuto. Cosa sono i luoghi assurdi? Dei teatri con corridoi stretti e senza linee di orientamento, guida e sicurezza in grado di rendere lo spazio accessibile anche per le persone non vedenti. Ma torniamo alle parole di Giannetta: è vero, non è una vergogna per nessuno chiedere aiuto, ma qui ho sentito un altro colpo al cuore perché mi è quasi sembrato si stessero normalizzando le barriere architettoniche. Doversi muovere in luoghi assurdi per le esigenze specifiche di una persona non è giusto. Le persone disabili spesso devono adattarsi a situazioni non ottimali, ma adattarsi non rende questa cosa meno ingiusta.
Poi arriva Maria, senza cognome anche lei, atleta paraolimpica, di cui c’è dato sapere che è testarda e che a 19 anni è salita su un treno verso Roma senza bastone e senza cane guida.
Poi arriva Veronica, che non era sul palco, e anche lei senza cognome anche se è una campionessa nazionale di scherma e di lei conosciamo il rapporto col suo cane guida e il modo in cui la aiuta nella sua quotidianità.
Perché mi sto appesantendo? Perché il problema non è tanto Sanremo, ma il modo in cui in Italia si continua a parlare delle persone disabili.
Nessuno delle persone presenti ha parlato, a farlo per loro è stata una donna abile. Queste persone cieche erano sul palco in quanto simboli, in quanto lezioni di vita per gli altri. Non si parlava di loro in quanto persone con una vita e una personalità, ma persone a cui manca qualcosa e che nonostante questa mancanza vivono. L’attenzione non era verso queste persone cieche, ma verso la loro cecità.
Erano mascotte che servivano a ricordare alle persone vedenti quanto fortunate siano nella vita.
Nota bene: il problema non è Maria Chiara Giannetta, il problema è la Rai e il problema siamo tutti ogni volta che alimentiamo questa costruzione della realtà sia con le nostre parole che con le nostre azioni sia con le politiche che si sceglie di implementare.
Non siamo mascotte.
Abbiamo una voce.
Abbiamo una vita.
Non siamo la nostra disabilità, ma viviamo in un mondo che ci disabilita e ci lascia credere non sia normale vivere a pieno.