Tradizionalmente intesa come una questione di alleanze tra umani, la politica può essere intesa come una pratica di alleanze e opposizioni non solo tra umani ma anche con altri esseri viventi? Isabelle Stengers torna su questa tesi difesa di recente da Léna Balaud e Antoine Chopot. Proponiamo il suo articolo nella traduzione di Gilberto Pierazzuoli.
La versione originaria in lingua francese è stata pubblicata il 13 gennaio 2022 qui.
Di Isabelle Stengers avevamo anche tradotto la sua introduzione alla edizione francese del libro di Anna Tsing, Il fungo alla fine del mondo, citato anche in questo articolo.
Sul libro di Léna Balaud e Antoine Chopot, Nous ne sommes pas seuls. Politiques des soulèvements terrestres, Seuil, 2021
Nous ne sommes pas seuls (Non siamo soli) inizia con una storia che si ripeterà spesso in seguito, quella degli argentini che hanno stretto un’alleanza con l’amaranto che è diventato resistente al Roundup commercializzato dalla Monsanto come la sua soia transgenica. Questa resistenza all’erbicida sparso sui campi ma che contamina anche tutti gli esseri viventi intorno, è stata amplificata grazie al lancio di palline di terra mescolate a semi resistenti in campi ancora “illesi”. Gli argentini si sono fatti carico di questa insubordinazione vegetale alla monocoltura industriale.
Precedentemente i contadini argentini, rovinati dall’estensione galoppante dei campi di soia transgenici, avevano invece usato l’arma delle parole, ampiamente riprese e commentate: “la soia è cattiva”. Lena Balaud e Antoine Chopot non menzionano questo precedente, per quanto interessante possa essere, poiché la soia transgenica non può essere separata dal suo mondo, quello della Monsanto. Questa soia fa parte di quella che chiamano “seconda natura”, quella degli esseri viventi formattati per il lavoro. È sia quando l’amaranto si vendica e sia quando gli umani formano alleanze e ritrasmissioni che la situazione diventa politica. La soia rivela la “malvagità” del nemico, ma l’amaranto gli si mette di traverso. E riecheggia così un passato in cui l’amaranto non era solo una pianta altamente commestibile, ma una divinità per i popoli del Messico precolombiano, motivo per cui la sua coltivazione fu vietata dai coloni. Non è solo la terra che sorge ma, con essa, gli antichi dei si vendicano.
Politica delle influenze mondane
Oggi, in Francia, dopo molti altri paesi, si sta sviluppando una nuova sensibilità ai mondi viventi minacciati dalla devastazione ecologica della terra, che incontra l’ostilità dei militanti anticapitalisti che colgono in essa un sentimentalismo apolitico, pericoloso e borghese. Vai a dire agli umani sfruttati che devono camminare nella foresta e imparare che fanno parte della rete della vita. C’è solo un vero compito, porre fine al capitalismo, e questo compito appartiene agli umani, che solo sanno chi è il nemico. Il libro di Balaud e Chopot interviene in questo dibattito in un modo che non può che stupire per la ricchezza delle sue analisi e l’audacia delle sue tesi. Oltre ad essere una vera e propria summa, mobilita le conoscenze e fa emergere le situazioni più diverse.
Così, quando si tratta di “influenze mondane”, di sensibilità alla devastazione che sta distruggendo il tessuto della vita terrena, non dimenticheremo per un momento che questo attenzione non può essere apolitica: “costituisce un modo di cogliere, dall’interno, ciò che è accaduto nel mondo.” (pag. 81). Non si tratta, quindi, di crogiolarsi nel vago senso di colpa che accusa l’”umano” devastante. Il popolo Cree, il cui territorio si trova nella regione subartica del Canada, invoca la figura mitologica di Atuush, un orco dal cuore di ghiaccio, per caratterizzare le persone che si sono ammalate, le quali, essendo contagiose, si astengono da ogni rapporto di reciprocità verso umani, animali e piante. Ed è in questo modo che, resistendo a un grande progetto di diga idroelettrica sulla baia di James, i Cree caratterizzavano coloro per i quali si trattava di una questione di sviluppo. Il nostro modo di accettare ciò che ci restituisce lo “sviluppo” evoca l’insensibilità di Atuush. Ma anche qui non è una questione di colpa. È la storia capitalista, elusa dai critici apolitici, che ha portato i soggetti della modernità “a rompere massicciamente i loro obblighi verso i loro vicini e gli altri conviventi umani. (pag. 81). Questo è l’asse del libro: combattere il capitalismo è guarire il lavoro stesso, mettere al lavoro non solo gli esseri umani ma anche gli animali, le piante, i fiumi, in nome del progresso e dello sviluppo. Se il nostro mondo ci rende Atuush è perché, collaborando a questo mettere in atto, le istituzioni statali hanno fatto dell’asocialità una legge e le istituzioni sociali ne hanno fatto una norma.
Una politica della trasversalità?
Il mio tono, finora, traduce la mia stima per un libro profondamente impegnato ed esigente, che affronta frontalmente le condizioni di una politica della trasversalità, l’unica, senza dubbio, all’altezza del compito perché ciò contro cui lotta non si è fermato da dividere, da creare opposizioni, da distruggere connessioni.
Tuttavia, questo libro mi ha anche sollevato un problema e ho deciso di approfittare dell’offerta che mi è stata fatta dalla rivista Terrestres per scrivere questa recensione nel tentativo di esplorarlo. Perché, in occasione della pubblicazione del libro di Anna Tsing, “Il fungo della fine del mondo. Sulla possibilità di vivere tra le rovine del capitalismo”, alcuni membri di questa rivista, al cui comitato editoriale appartengono gli autori di Nous ne sommes pas seuls, presero una posizione che mi costringe a interrogarmi sulla questione delle cosiddette influenze “non politiche”. Tsing, hanno sottolineato, non sembra determinata a combattere contro questo capitalismo che sta rovinando il mondo. Peggio, sembra ritenere che il capitalismo lasci dei margini dove è possibile vivere, e tutto sommato felicemente, ad esempio raccogliendo funghi…
Forse questo tipo di accusa traduce inizialmente la sfiducia verso un pubblico facilmente influenzabile che si sarebbe lasciato sedurre dai racconti di Tsing. Ma, e su questo tornerò, questa sfiducia fa parte del problema politico. Coloro che muovono le accuse hanno senza dubbio ben capito cosa cercava Tsing ma, nella migliore tradizione razionalista, la loro paura riguarda il pubblico, che non ha diritto a resoconti che lo facciano sentire, senza specificare a come pensare, ciò che sente. Senza indurlo a passare dal sentimento al giudizio. Tsing può ben descrivere, e descrivere bene, questo non basta, deve denunciare le illusioni mantenute da coloro che descrive. E se il successo del libro di Tsing fosse venuto dal fatto che il “pubblico” si è sentito ben trattato, non c’è bisogno di sentirsi dire, tra l’altro, che non si dovrebbe aderire alla definizione data della loro “libertà” dai raccoglitori di funghi dell’Oregon? E se Tsing potesse farli essere sensibili alle emozioni e, nello stesso tempo, potesse farli pensare? Questo successo sarebbe, per me, politico perché solleva la questione della politica della conoscenza che è parte integrante dell’ecologia capitalista. Tsing resiste a una politica “educativa” perché si rivolge allo stesso tempo ai suoi colleghi e al pubblico. Ed è ai colleghi che chiede di liberarsi dell’armatura metodologica che li rende insensibili alle influenze mondane, di osare assaporare, di lasciarsi contaminare e trasformare da incontri e storie che fanno sentire e pensare al luogo in cui estrarre dal loro campo ciò che alimenterà le loro definizioni.
Il vero obiettivo di Tsing mi sembra il modo in cui sono stati individuati razionalità e giudizio “scalabile”, portando definizioni valide ovunque e a qualsiasi scala. Mette in discussione un imperativo trasversale di scalabilità che ha fatto convergere questa definizione di razionalità con tutte le operazioni che producono scalabilità, dalle monoculture alla gestione umana. Sia il lavoro capitalista che le istituzioni statali hanno continuamente beneficiato di tale convergenza. Tsing fa politica attraverso l’ambiente, il suo ambiente che ha voltato le spalle agli influenze mondane.
Come lottare?
Le mie riserve quindi non riguardano l’asserito legame tra la modernità, e più specificamente la modernizzazione, e la devastazione ecologica e sociale dei mondi, né al fatto che il capitalismo sia il vettore di questa modernizzazione. In effetti, possiamo dire che il cosiddetto capitalismo neoliberista, che potremmo battezzare “capitalismo scatenato”, si è fatto carico della dimostrazione in modo tale da poter parlare di “rivoluzione”. Il capitalismo è riuscito a liberarsi da ogni costrizione, a far regnare l’ideale di un mercato libero. È diventato il capitalismo della “cattura” descritto da Anna Tsing, il saccheggio senza dover rendere conto a nessuno. Se c’è un episodio in cui si può parlare di “stregoneria”, è questo, ecco perché Philippe Pignarre ed io abbiamo parlato di “stregoneria capitalista”1.
Oggi il capitalismo, sollevato da ogni riferimento al progresso, lascia che i suoi pagliacci zombificati promettano la salvezza attraverso l’innovazione, ma non ha più bisogno che ci facciamo ingannare da queste promesse. Ha messo in discussione lo stato e le istituzioni normative che credevano di svolgere la loro parte semi-autonoma in una storia che ha fatto rima con modernizzazione, sviluppo e progresso. Mentre è in gioco l’abitabilità della terra, la devastazione ecologica e l’impoverimento continuano con rinnovato vigore, l’ordine diventa apertamente repressivo. Possiamo ora parlare, con Anna Tsing, della frenesia di un capitalismo saccheggiatore che estrae tutto ciò che può finché può: “tutto deve essere fatto” 2prima che il negozio chiuda definitivamente i battenti. Oppure, con Bruno Latour, i “ricchi” avendo capito che la ricchezza non può essere condivisa: guai ai poveri, ai soprannumerari, alle zone devastate e inquinate dove devono sopravvivere. E peccato per la terra.
Lena Balaud e Antoine Chopot, però, non si fermano a queste peripezie che, però, forse contano se la domanda che risuona oggi da tutte le parti è “come combattere? “. Ciò che il capitalismo sta mostrando oggi non è altro che il suo vero volto: quello di Atuush. La semi-autonomia di ciò che oggi è schiavizzato non è mai stata altro che un’illusione. C’è un’ecologia del capitalismo definita dalla distruzione del tessuto della vita, ed è contro questa che devono articolarsi i principi dell’unica lotta politica valida, quella che ha sempre avuto come posta in gioco l’abitabilità della società: la Terra. “Formiamo una comunità politica con coloro le cui azioni dividono il mondo lungo una linea di conflitto che può essere riconosciuta come la nostra.” (105)
Qui ogni parola viene soppesata perché «a differenza dell’internazionalismo sindacale del XIX e XX secolo, la comunità di coloro che hanno come orizzonte l’abitabilità non può essere omogeneizzata: il nome dato da ciascun gruppo che costituisce questa comunità, e la linea di demarcazione con il nostro comune l’avversario non può che essere situata, localizzata. È ogni volta una formulazione locale ma portatrice di più di sé stessa, rivolta a chi vorrebbe riconoscersi in essa, che contiene le ragioni che avremmo per stare dalla stessa parte. (pag. 105)
Ho citato questo passaggio senza la minima ironia perché è ammirevole nella sua intelligenza concettuale. La Francia ha il dono di produrre questo tipo di intelligenza dando la giusta importanza alla verità, creando, o istituendo, un “noi” la cui universalità alla fine emerge intatta anche se trasformata, capace di essere riconosciuta sia da coloro per i quali il conflitto politico è una faccenda propriamente umana sia da coloro che apprezzano il ripristino dei rapporti di appartenenza a mondi viventi minacciati di distruzione. Un “noi” per il quale la politica sarà antagonista o non lo sarà.
Linea di conflitto, linea di divisione
Ancora una volta, sto cercando qui di capire perché, dopo una prima lettura più che interessata, ho sentito instaurarsi un certo imbarazzo. Eppure non sembra mancare nulla. L’arte dell’attenzione, il bisogno di imparare a sentire e a lasciarsi trasformare dalle relazioni coltivate con i mondi viventi, sono molto presenti in “Nous ne sommes pas seuls”. C’è tutto, il numero degli autori citati è impressionante. Tuttavia la maggior parte di loro è presente come supporto occasionale per una dimostrazione che li interpella senza ascoltarli troppo.
Questo libro non smette mai di fare appello alla sensibilità strettamente corporea che condividiamo con animali, piante, insetti, vale a dire anche all’ambiente percettivo e attivo che è quello che ognuno vive e che gli autori chiamano simpaticamente “spazio sensibile”3. Contro ogni eccezione umana, esso evoca il tessuto della vita come «questa miriade di spazi sensibili intrecciati e differenziati» (218). Ma che dire dell’attenzione richiesta dal groviglio dei legami umani? Qui la definizione è netta: si tratta di «non rinunciare mai a questa capacità determinante che gli esseri umani hanno di condividere un comune che li renda capaci di organizzarsi insieme ma anche di formulare i termini di un conflitto. (107) E l'”uno” qui non è l’articolo indeterminativo, è quello della linea divisoria, come lo definì Bernard Aspe per opporsi a un pensiero speculativo sognante la composizione, la politica “in atto”, che esige un “salto”, una discontinuità. Spezza, si potrebbe dire, lo spazio dei sensi, operando la divisione tra «loro e noi»4
Comprendiamo fin troppo bene che viene rifiutata l’ipotesi di pratiche politiche che rispondano all’ingiunzione di comporre, di “vivere insieme”, tra amici e nemici (91). Ma chi sono i “loro”? L’arte del nemico non è stata quella di confondere il più possibile questa domanda, oltre che di dividere gli “amici” al di fuori dei momenti eminentemente semplificatori dell’azione conflittuale? La linea di demarcazione richiesta dalla definizione antagonistica di politica non pone problemi quando si è impegnati. D’altra parte, mi sembra avere il grave difetto di offrire al comune avversario uno spazio di manovra ideale per dividere, per suscitare accuse di tradimento, per creare quelle che Philippe Pignarre ed io abbiamo chiamato alternative infernali 5. Di cui la storia della ZAD di Notre-Dame-des-Landes, dopo l’abbandono del progetto aeroportuale, offre un esempio eloquente.
Abbiamo appreso dagli attivisti americani un’arte della composizione che specula prima dell’azione sui modi di divisione che dovremo renderci capaci di affrontare, chissà che non basti la linea di demarcazione, che la fiducia non è che possa essere robusta di fronte a prove eminentemente prevedibili, solo se integra la conoscenza della sua precarietà. Come accogliere la consapevolezza che ciascuno dei nostri molteplici “spazi di senso” possa intrecciarsi e differenziarsi e che il comune avversario potrà trarne vantaggio?
Che cosa ci ha fatto il capitalismo?
La grande forza della dimostrazione di “Nous ne sommes pas seuls” è la sua definizione non marxista di lavoro, non un universale antropologico ma la chiave dell’ecologia capitalista. La resistenza al lavoro diventa così una bussola comune per gli attivisti oggi, sia che combattano per la difesa della natura o contro lo sfruttamento umano. Questa resistenza deve essere trasversale perché il lavoro, visibile o invisibile, ha un impatto sia sugli esseri umani che sui non umani. Tutti sono coinvolti in una relazione di valore che non è primariamente strumentale (la questione non è di rispetto “morale”) ma capitalista – il valore, per produrre profitto, deve circolare. “La costante accumulazione e circolazione del valore esige una trasformazione costante e radicale della materia del mondo. Presuppone che nulla abbia valore in sé, in ciò che è già lì, la Terra in tutto il suo spessore relazionale e storico. (pag. 121). Ecco perché “sia che si sia discendenti delle enclosures europee o delle sue colonie, sia che si sia ridotti allo stato di ‘nature particolari’, soprannumerari, migranti o proletari, e infine, umani o no, subiamo la stessa produzione di vulnerabilità di massa , ogni volta in modo situato e incommensurabile, ma sempre necessaria al buon funzionamento della megamacchina del profitto. (131) Sono, ogni volta, «gli spazi di senso del vivente che vengono negati, vincolati, troncati, artificializzati, mutilati, ridotti, costretti alla trasformazione.” (219)
Dalla pianta in monocoltura alla scrofa in allevamento intensivo, entrambe mantenute in vita da fungicidi o antibiotici fino a…? Dal canto mio, direi, tra tanti altri, fino ai ricercatori oggi messi all’opera dall’imperativo dell’innovazione, che sono sempre più vulnerabili al cinismo e all’opportunismo. Anche ai politici quando si trovano costretti a mentire. Anche ai “gestori delle risorse umane” mutilati al punto da diventare aguzzini. Come osservano Balaud e Chopot: “Se c’è davvero una certa magia che possiamo riconoscere nel capitale, è quella di riuscire a produrre valore con tali esseri mutilati. (130) Ma come portare l’uomo così mutilato al rifiuto del lavoro, per «far sì che le influenze di paura, di disgusto, di disperazione e i desideri di vivere più intensamente che ci attraversano oggi possano cristallizzarsi nella forma di una rabbia condivisa: quella del rifiuto di collaborare”? (146) Il punto interrogativo è mio perché se si tratta di un capitalismo dotato di magia con cui abbiamo a che fare, dobbiamo procedere con cautela, interrogandoci sul funzionamento di questa magia.
Come affrontare ciò che è stato vincolato?
Se l’ecologia capitalista è capace, con tutti i mezzi, di legare esseri che “si lasciano prendere” 6, mi sembra che come tutta la magia essa proceda non attaccando la loro debolezza ma sfruttando la loro forza, che li rende vulnerabili e incompleti. È qui che potremmo tornare su Tsing, per il caso degli scienziati. È la passione per i loro successi, quando riescono a definire efficacemente determinati esseri in una modalità scalabile, discreta (scienze teorico-sperimentali), che li ha resi reclutabili da un’ecologia capitalista per nulla interessata a questa definizione ma a ciò che essa consente: sia di fare e di tacere. Quanto agli scienziati che devono accontentarsi di rendere “metodologicamente” scalabili i loro oggetti, la loro triste passione li ha messi al servizio della ragione e dell’ordine pubblico, cioè del potere di tacere, ed è per loro e per loro che Tsing sta cercando di riaccendere le passioni dell’indagine attenta e sensibile nonché aperta all’avventura delle definizioni.
Naturalmente la loro sottomissione in nome dell’economia della conoscenza dovrebbe coinvolgere gli scienziati “messi al lavoro” nella lotta politica, e alcuni lo fanno. Ma come rivolgersi a tutti coloro, a tutti coloro che, nonostante le loro lamentele, stringono i denti? La divisione “loro” contro “noi” parla alla loro immaginazione? Risveglia una sensibilità che apre il proprio spazio di senso?
Vorrei citare la resistenza contro gli OGM in Europa come esempio di successo in questo senso. In questo caso, l’operazione classica, di mettere a tacere gli oppositori etichettandoli come arretrati, irrazionali e antiprogressisti, è fallita. Gli scienziati non si sono sentiti attaccati come complici del nemico ma hanno sentito critiche localizzate e concrete che hanno fatto balbettare gli esperti di scalabilità. Questo è ciò che ha fatto riconoscere a molti scienziati che gli OGM brevettati seminati su milioni di ettari avevano poco a che fare con gli OGM di laboratorio e ha fatto sentire loro la portata della loro ignoranza. E sia le autorità pubbliche che l’industria hanno percepito il pericolo. La grande impresa di comunicazione volta a riconciliare i cittadini europei con la “loro” scienza aveva un’unica ossessione: fare di tutto per evitare che ciò accada di nuovo: lo spazio di senso degli scienziati deve rimanere appannaggio della “scienza”, mutilato dalla loro alleanza con lo sviluppo e ordine pubblico (fare e mettere a tacere). Forse dovremmo pensare qui in termini del tipo di alleanza politica che Chopot e Balaud concepiscono prima di tutto in modo interspecifico, con esseri della natura, esseri che non si tratta di rappresentare, o di arruolare in un conflitto che non è il loro. Forse gli scienziati, e si può pensare anche agli avvocati e agli ingegneri, agli infermieri, a tutti coloro che vedono la loro pratica svuotata di significato, potrebbero anche chiedere una simile pratica di alleanza. Non basta notare che oggi c’è diserzione nei centri di ricerca e nelle università, e che alcuni vengono a unirsi a gruppi politici impegnati in una lotta egualitaria e imparano mestieri che non li riducano alla miseria del lavoro. Se si tratta di resistere alla magia capitalistica che attacca la forza, non la debolezza, degli operatori, forse bisogna anche considerare l’alleanza come “trame di alterità”, che “riconnettono contesti associati che erano tenuti distinti da un regime di potere, senza però fondere la loro alterità e le loro situazioni. (309). Per quanto non innocente e compromessa nella storia del capitalismo possa essere la loro pratica, forse è necessario stringere un’alleanza con ciò che le rende e li rende praticanti in un modo che “lasci loro la libertà di seguire le proprie vie e i propri fini” (333).
Se un avvocato partecipa a un gruppo di lavoro con abitanti di comuni minacciati di sfratto, se un agronomo conduce una ricerca partecipata con i contadini sui vecchi semi, se un farmacista collabora alla valutazione dell’inquinamento delle acque e del suolo, è una questione di “politica in atto” nel senso di cosa richiede la linea di demarcazione? Si può parlare di alleanza politica, se i praticanti coltivano legami con le lotte ma mantengono un legame con le loro pratiche e le istituzioni da cui dipendono? Un’alleanza modifica chi la compone, scrivono i nostri autori (346). Insegnare agli operatori che ciò che è importante per loro, ciò che è la loro forza, può essere trasmesso e amplificato al di fuori delle istituzioni, non significa forse suscitare una modifica dell’ecologia delle pratiche interessate, aprirli ad una sperimentazione di ciò che diventa la loro forza quando si esercita in relazione ad ambienti recalcitranti, che non si tratta più di far tacere ma di attrezzare?
Alleanze con la “terza natura”
Le alleanze politiche previste da Balaud e Chopot riguardano gli esseri di quella che chiamano la “terza natura”, non quelli della “seconda”, mutilati, o quelli della “prima”, che non si è riusciti a mettere all’opera e che vivono o sopravvivono negli interstizi della modernità. La terza natura designa gli esseri che, per ragioni proprie, ostacolano il lavoro capitalista.
Il miglior esempio di questa alleanza è naturalmente quello dei contadini argentini con l’amaranto. L’amaranto ha mostrato insubordinazione quando, invece di lasciarsi sradicare da Roundup, si è moltiplicato nei campi sabotando la monocultura. Quelli che lanciano palle di terra cariche di semi hanno seguito un “suggerimento politico non umano”, l’hanno raccolto e amplificato. Ma l’amaranto resta commestibile e prolifera in modo incontrollabile solo perché gli spazi desertificati dalla monocultura transgenica gli lasciano campo aperto. È quindi “selettivo”, attacca solo alcuni usi del mondo. Ma, in questo senso, ha poco a che vedere con la terza natura «scatenata» – dalle alghe verdi ai funghi assassini di alberi e ai virus – il cui potere devastatore non ha il minimo bisogno che si amplifichi la sua azione.
In Proliferations, che sarà pubblicato da Wildproject, Anna Tsing condivide il suo orrore per la distruzione delle foreste nelle isole dell’Indonesia da parte della vite Merremia, che continua la sua inesorabile diffusione anche se il disboscamento è cessato. “Quando guardo la Merremia mi sento coperta e soffocata dal suo sipario. Ma sterminare la Merremia non farà che scalfire la superficie. Se non fosse Merremia, sarebbe un altro rampicante. Non è la pianta che ritengo responsabile. Furono pratiche industriali e imperialiliste intenzionalmente disattente a creare la possibilità di questi nuovi tipi di mondi selvaggi. Possiamo cambiare questo? A voi l’ardua sentenza” 7. Come Tsing, Balaud e Chopot si oppongono alla soluzione dell’eradicazione, ma non sembrano condividere il terrore di Tsing. Le proliferazioni, propongono, possono fungere da “bio-indicazione politica di situazioni di ingiustizia ambientale” che dovrebbero essere monitorate per “amplificare la portata di una lotta la cui direzione non è più decisa solo da noi.”
Una lotta? È forse lì che ho intuito ciò che ha suscitato la mia riluttanza di fronte a una proposta importante e notevolmente motivata. L’argomento, anche se fa eco a situazioni cariche di influenze (La lotta del collettivo Village de la Loire, gli apprendistati di Abrakadabois alla ZAD di Notre Dame des Landes, ecc.) li mobilita in una dimostrazione che, per prevalere, fa tacere queste influenze mondane che sono disordine e terrore. Non sembra mai esitare, balbettare: la dimostrazione procederà imperturbabile, servirà da bussola per l’azione. Quanto a me, ho imparato, con la strega Starhawk, la forza del lamento. Siamo feriti, abbiamo dolore, e sapere come dirlo è anche politico. Forse è anche una condizione della politica egualitaria che Lena Balaud e Antoine Chopot prendono di mira.
« Breathe deep
Feel the pain
where it lives deep in us
for we live, still,
in the raw wounds
and pain is salt in us, burning
Flush it out
Let the pain become a sound
a living river on the breath
raise your voice
Cry out. Scream. Wail.
Keen and mourn
for the dismembering of the world. »8
____________________________________ Note |
|
1 | P. Pignarre et I. Stengers, La Sorcellerie capitaliste. Pratiques de désenvoûtement, La Découverte, 2005. |
2 | A. Tsing, Le Champignon de la fin du monde, Les Empêcheurs de penser en rond/La Découverte, 2017, p. 396 |
3 | L’espressione viene da Dominique Lestel, “Il prosciugamento della vita in comune attraverso la perdita della biodiversità», su domesticationetfabricationduvivant.wordpress.com, 5 novembre 2015 (en ligne |
4 | Vedi « Le temps de l’œuvre, le temps de l’acte Entretien avec de Erik Bordeleau avec Bernard Aspe », paru dans Inflexions 5, « Simondon: Milieu, Techniques, Aesthetics » , mars 2012, 160-183. En ligne : http://1libertaire.free.fr/BAspe01.html |
5 | In La Sorcellerie capitaliste, La découverte, 2005 |
6 | Muriel Combes, La vie inséparée, Paris, Dittmar, 2011. Vedi la 3a tesi conclusiva. |
7 | Estratto da Proliférations, che sarà pubblicato a febbraio da Wildproject |
8 | Starhawk, Truth or Dare. Encounters with Power, Authority and Mystery, New York, HarperCollins Publishers, 1987, p. 30-31 |
Isabelle Stengers
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