Il libro di Hirose è uno excursus sulla trilogia di Deleuze e Guattari (da qui in poi D. e G.) che va dal “L’anti Edipo” del 1972 a “Che cos’è la filosofia?” del 1991 passando per “Millepiani” del 1981, riletta dal punto di vista marxista nel senso di un proseguimento della sua opera anche con altri strumenti. Ma non ha pretese esaustive, cerca infatti all’interno dei tre testi tutte quelle parti utili per interpretare le trasformazioni sociali avvenute ma anche per leggere il presente in vista della possibilità di un suo rovesciamento. Un libro che ha trovato nei testi di questi autori un terreno fertile di idee utili non tanto e non solo per rispondere alla domanda “che fare?” ma soprattutto nel cercare di individuare il soggetto collettivo che ha oggi la possibilità di agire sul mondo, in vista del suo cambiamento. Hirose trova proprio in questo senso un filo conduttore che ci racconta le trasformazioni del soggetto collettivo che storicamente ha fronteggiato il capitale mostrandoci il passaggio dal proletariato, interprete della parte negli anni sessanta e all’inizio di quelli settanta, a un soggetto minoritario che si mostra dieci anni dopo, per trasformarsi ancora nel “cittadino” raccontato nel terzo testo della trilogia, quel “Che cos’è la filosofia?” dei prima anni novanta. A questi tre testi aggiungerei il “Poscritto sulle società di controllo” (Deleuze 2000, p. 234 sgg.) che il solo Deleuze pubblicò nel ’90 su “L’Autre Journal” che in qualche modo descriveva e preconizzava gran parte dei dispositivi in uso a tutt’oggi. Con un soggetto così tanto parcellizzato e “dividuato” (termine di Deleuze) da rendere difficile una sua ricomposizione.
I processi di soggettivazione ci restituiscono infatti soggetti in divenire ai quali si contrappone un capitale che – come ci fa notare Hirose – lavora per assiomatizzazioni creando con esse dispositivi che gli permettono la sua riproduzione con una capacità plastica di adattarsi alle situazioni storiche e contingenti e agli ostacoli che incontra, compresi quelli oppositivi dei soggetti che sfrutta per assicurarsi, in qualunque modo vadano le cose, il profitto perseguito. Una macchina adattabile che si auto ripara e riproduce attraverso degli espedienti che nel linguaggio di D. e G. si chiamano processi di deterritorializzazione e riterritorializzazione, flussi e interruzioni di flusso, stacchi o innesti. Una serie di procedimenti a partire da assiomi che agiscono sul reale ma che, nello stesso tempo, hanno la capacità di produrne di nuovi per adattarsi ai cambiamenti che possono sopraggiungere. “La creazione di assiomi socialdemocratici (aumento dei salari, piena occupazione, welfare ecc.) al centro si realizza solo con la creazione complementare di assiomi di carattere opposto pe la periferia, nella misura in cui l’essenza del capitale è aumentare costantemente la quota di plusvalore” (p. 55). Un congegno il cui motore di scopo, quello che persegue la massimizzazione del profitto, è il software che presiede al funzionamento della macchina sociale. E lo è a partire appunto da un’assiomatica che la borghesia produttiva ha imposto vincendo la guerra di classe che l’ha portata al potere in ogni angolo del globo.
Forse per raccontarci il senso del ragionamento di Hirose basta un piccolo estratto da una citazione di una intervista a Deleuze che riporta proprio all’inizio del suo lavoro: “Ciò che ci interessa maggiormente in Marx è l’analisi del capitalismo come sistema immanente che non smette di spostare i propri limiti, ravvisandoli sempre su una scala ingrandita, perché il limite è il Capitale stesso”. Da cui si diparte la domanda che fa da titolo al libro: “Come imporre un limite assoluto al capitalismo? Filosofia politica di Deleuze e Guattari”. Hirose infatti non fa una disamina complessiva dell’opera dei due autori, è interessato a questa chiave di lettura e a cercare quindi una risposta a quel punto di domanda, perché proprio da quel limite assoluto si diparte la possibilità di un suo superamento. È una lettura e sono dei ragionamenti che si dipanano epistemologicamente in termini di analisi delle trasformazioni sociali, alla ricerca continua di un punto di rottura, di un soggetto che sappia prendere in mano e condurre le lotte capaci di portare il capitalismo al suo limite assoluto, in quel punto oltre il quale il capitalismo non è più capace di mettere in atto i dispositivi indispensabili per la sua conservazione. E lo fa situando e configurando la macchina sociale in base ai rapporti di forza, ai campi di forza e alle pulsioni che attraversano il corpo sociale e ne descrivono il suo divenire in un sistema metastabile che continuamente, incessantemente lavora per la riproduzione delle allocazioni di classe che lo riproducono o che lo possono mettere in crisi. Un sistema metastabile che D. e G. fotografano in quelle tre fasi diverse del suo configurarsi di cui parlavo sopra.
Gran parte del lavoro che deve fare allora il capitale, si svolge intorno a una tendenza già individuata da Marx che sarebbe quella della caduta tendenziale del saggio di profitto che mira ad allontanare scovando nuovi terreni e cercando di aumentare costantemente il profitto stesso. È questa la condanna e il limite ultimo del capitalismo. Questo spiega perché mantenere lo stesso livello di produzione viene letto come una catastrofe e perché il PIL deve crescere sempre, anche nei paesi del nord del mondo, quelli a capitalismo avanzato ad alti livelli di consumo. Se i tre libri presi in considerazione da Hirose testimoniano tre fasi diverse del capitalismo e della lotta di classe, con una soggettività antagonista che muta anch’essa nel tempo, c’è però un elemento che attraversa l’intero ciclo temporale: l’incapacità del capitale di rispondere alle manifestazioni del “desiderio” che D. e G. oppongono all’ “interesse”. “Crediamo che la società capitalista possa sopportare molte manifestazioni di interesse, ma nessuna manifestazione di desiderio, che basterebbe per fare saltare le sue strutture di base” (D. e G., Anti Edipo, p. 436). È l’irrompere delle potenzialità desideranti che segna profondamente l’apporto che i due autori hanno dato alla teoria critica e alla filosofia politica. I conflitti per l’interesse sono infatti certamente dei notevoli grattacapi per il capitale ma rientrano nelle sfide che la macchina del capitalismo immanente è programmata per affrontare. “Se è vero che la potenzialità rivoluzionaria si produce nelle lotte d’interesse delle masse sfruttate e dominate, non è meno vero che essa si attualizza effettivamente quando il desiderio si manifesta in relazione a queste lotte, tagliando fuori la causalità stessa dell’interesse”, dice Hirose (p.18).
Situazione che rimanda a un paradosso. Il potenziale rivoluzionario delle spinte desideranti è spesso riassorbito non tanto dal capitale ma nel conflitto tra desiderio e interesse che divide il soggetto antagonista e che ha portato da una parte al tradimento della spinta desiderante del ’68, dall’altra a una centralizzazione sull’ “interesse” dell’azione programmatica dei paesi socialisti che fa dire a D. e G., nel loro ultimo lavoro insieme, che il socialismo “non è mai esistito come qualcosa di distinto dal capitalismo, ma solo come la stessa marea di deterritorializzazione immanente che si riterritorializza sugli stati moderni, con l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti come due poli” dove il bolscevismo e il taylorismo sarebbero gemelli omozigoti, il che implica un’analisi del capitalismo diversa da quella sviluppata rispettivamente in L’Anti Edipo e Mille piani, dice Hirose (nota a p. 14). Certo nel passaggio tra un testo e l’altro, tra una decade e l’altra, la terminologia cambia, ma è come se cambiasse la metafora esplicativa. Quel che resta è una coppia di termini che non segnano un’opposizione o una polarizzazione effettive ma soltanto un’evocazione di diversi dispositivi semantici che lavorano sullo stesso concetto. La coppia “interesse” e “desiderio” in L’anti Edipo, quella “stato” e “divenire” in Mille piani, infine “deterritorializzazione immanente relativa” e “assoluta” in Che cos’è la filosofia? Quest’ultima, la meno intuitiva, perché, per D. e G., essere di sinistra significa tenere una posizione prospettica non legata alla centralità del sé. Percepire prima il perimetro, l’orizzonte, la proiezione desiderante e non l’interesse: “quando si percepisce prima l’orizzonte e ci si percepisce nell’orizzonte, cioè quando si percepisce sé stessi nel piano di coesistenza immanente con tutti gli abitanti del mondo, umani e non umani, presenti e futuri” (p. 16), elemento che crea negli abitanti della parte privilegiata del mondo un conflitto con i loro “interessi”.
E quindi “manifestazione di desiderio” nel libro del settantadue, “divenire” in quello dell’ottantuno e “deterritorializzazione immanente” nell’ultimo. Coloro che desiderano indipendente dai loro interessi, coloro che divengono nei confronti delle proprie istituzioni, coloro che si sganciano dai loro territori, rappresentano l’evoluzione storica dei soggetti antagonisti al capitale. I proletari in L’anti Edipo, le minoranze in Mille piani e gli emarginati in Che cos’è la filosofia? Questo non significa che la spinta causale dell’interesse di classe non abbia una sua pregnanza ed evidenza ma che il taglio libidinale che attraversa questa spinta, faccia poi passare in secondo piano l’interesse in senso stretto. È per questo che nel libro del ’72 ci sono i proletari e il modello di organizzazione risente ancora del taglio leninista, ma ci sono in forma decentrata; o, meglio, ci sono in termini complementari al lavoro del desiderio tanto che si potrebbe dire, col senno di poi, (lo dico io, lo dice Bifo ma non Hirose) che questa inerzia concettuale abbia tradito la capacità eversiva del desiderio come di fatto avvenne in Italia, il paese dal lungo sessantotto, dove L’anti-Edipo fu pubblicato nel ’75 alimentando la macchina desiderante che dette luogo alla figura dell’operaio sociale, un soggetto capace di essere attraversato dai flussi del desiderio e che sfociò nei moti del ’77, riassorbiti dalla risposta del capitale che deviò il flusso desiderante annichilendolo da una parte con la disponibilità dell’eroina a basso costo e alla forzatura armata delle parti più irriducibili, che giustificò la conseguente repressione selvaggia. Illuminante e profetico a questo proposito un articolo di Guattari “Siamo tutti dei gruppuscoli” pubblicato nell’ “Idiot Liberté” nel n.1 del dicembre del 1970:
Le classi operaie dei paesi economicamente sviluppati sono oggettivamente implicate, non foss’altro per la differenza crescente del tenore di vita relativo, nello sfruttamento internazionale dei vecchi paesi coloniali. Partecipazione inconscia poi e in tanti modi: i lavoratori rivestono più o meno passivamente i modelli sociali dominanti, gli atteggiamenti e i sistemi di valore mistificanti della borghesia – condanna del furto, dell’ozio, della malattia, ecc. – riproducendo per proprio conto gli oggetti istituzionali alienanti, come la famiglia coniugale e tutto ciò che essa implica di repressione interna tra sessi e età, oppure attaccandosi alla patria con il suo inevitabile fondo di razzismo (Guattari, 329).
Ma ritorniamo ai passaggi che la successione dei testi della trilogia deleuziana-guattariana scandisce. Soggetti in divenire rapportati alle diverse fasi di sviluppo del capitalismo. Il divenire-fuori-classe, il divenire-minoritario e il divenire-animale, sono allora le tre fasi distinte del divenire-rivoluzionario che culminano in un soggetto particolare, attraversato più da flussi di desiderio, di visione prospettica, che non da interesse diretto. Non sono infatti gli emerginati ma gli umani – quelli che partecipano ad alcune forme di diritto e godono della cittadinanza che li distinguono dai rifiutati – che mettono in pratica per primi il divenire rivoluzionario e che deteritorrializzandosi incontrano le lotte e la repressione degli emarginati. È il punto nel quale i flussi di desiderio attraversano quelli dell’interesse ponendo delle questioni alle quali il capitale non può rispondere. Ma non è il punto di arrivo. Sono passati trenta anni dalla pubblicazione del terzo testo e da allora le situazioni sono ancora cambiate. Hirose applica così gli strumenti estrapolati dai lavori di D. e G. per produrne di aggiornati. Parla allora di distruzione creativa che si muoverebbe a una doppia velocità. Da una parte il capitale petrolio dipendente che si sposta su un piano con al centro la rivoluzione eco-digitale, dismettendo le vecchie produzioni e orientandosi su altre senza riassorbire immediatamente la manodopera appena liberata, creando così una massa d’urto di disoccupati o sottooccupati, costringendo il capitale a fornire forme di sussidio non generalizzate che aprono ad altri flussi potenziali; Hirose parla di divenire-donna o di un divenire-senza-documenti. Dice anche che: “Nell’attuale momento di distruzione creativa del capitale, si stanno formando parallelamente due grandi macchine da guerra: quella dei lavoratori metropolitani abbandonati dai vecchi capitali in distruzione o svalutazione, e quella dei popoli minoritari che combattono nei punti stessi di crescita dei nuovi capitali” (vedi le conclusioni). Per cui la via di fuga definitiva, la ricerca cioè del limite assoluto del capitalismo, starebbe oggi nell’alleanza delle due macchine da guerra che si sono formate. Starebbe perciò a noi costruire i ponti e le connessioni tra le due macchine. Si tratta ancora una volta dell’incontro di un flusso desiderante con un flusso di interesse. Una partita tutta giocata a partire da questo movimento ma, questo è forse un limite del testo di Hirose, proprio nel momento nel quale il capitalismo digitale agisce sulle prospettive, sugli orizzonti che secondo la sua lettura caratterizzerebbero la portata rivoluzionaria del desiderio secondo D. e G.
Nel momento in cui il capitale digitale mette al lavoro gli algoritmi per leggere la realtà come una forma probabilistica, immobilizzandola così in un modello attraverso il quale predice un futuro che dipende da essa e dalla sua conservazione, negandoci così una visione che non sia altro che il consolidamento del presente, in definitiva negandoci il futuro tutto, negandoci la visione prospettica, la visione dell’orizzonte, l’immaginazione capace di costruire altri futuri che non siano quelli predetti dagli algoritmi eterodiretti dalle esigenze dell’accumulo capitalista. Il capitale oggi lavora sui flussi di desiderio che costituivano sino ad oggi un suo limite, anzi il suo limite assoluto.
Forse vale la pena fare un passo indietro, tornare alle trasformazioni che il capitale ha messo in atto nel nuovo millennio, quelle che attraverso iniezioni di denaro all’interno del sistema, zombificavano le vecchie produzioni offrendo lavori senza senso, di pari passo con un’altra offerta di bull shit jobs: i lavori insopportabili e sottopagati che la gente ha iniziato a rifiutare. Sono tutti movimenti che la digitalizzazione della produzione ha provocato. Quella che si basava sulla normalizzazione e quindi sullo spegnimento del desiderio, ha forse aperto altre strade al desiderio stesso. Forse è in questo incontro, nel flusso che il bull shit del lavoro genera, che i tagli di desiderio possono trovare la loro ricomposizione in nuovi flussi e riterritorializzarsi in una pratica che realizzi la loro efficacia rivoluzionaria.
Jun Fujita Hirose, Come imporre un limite assoluto al capitalismo. Filosofia politica di Deleuze e Guattari, Ombre corte, Verona 2022, pp. 130, € 12.00
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Gilles Deleuze e Felix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975
Gilles Deleuze e Felix Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010
Gilles Deleuze e Felix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996
Felix Guattari, Una tomba per Edipo. Psicoanalisi e metodo politico, Bertani, Verona 1974
Gilles Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000
Gilberto Pierazzuoli
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