Da “Il soggetto imprevisto” di Federico Chicchi e Anna Simone

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Pubblichiamo qui con il gentile permesso della casa editrice, dell’autrice e dell’autore un brano tratto dalla conclusione del libro di Federico Chicchi e Anna Simone, Il soggetto imprevisto. Neoliberalizzazione, pandemia e società della prestazione, Meltemi, Milano 2022, pp. 181, € 18.00

Un testo che  si domanda – in questo tempo fuori dai sesti, nel quale si incrociano vettori che hanno oggi una valenza trasformativa come forse mai prima nello sviluppo della società occidentale – che peso ha avuto e avrà l’evento pandemia? Un fenomeno che piomba dentro una crisi sistemica con trasformazioni in atto, divenendo ora elemento di rivelazione di processi la cui portata la misureremo in un futuro che si fa sempre di più nebuloso, ora elemento che accelera quegli stessi processi o che li devia in direzione impensate. In questo nodo caotico, se non apocalittico, dove agiscono forze contrastanti che comunque annunciano che tutto non sarà come prima, il lavoro di Chicchi e Simone cerca di darne una possibile lettura e di rivelare delle possibilità che si possono aprire. Ma non è un libro sulla pandemia, su un evento episodico, ma su qualcosa che ha turbato la programmazione sistemica del capitalismo contemporaneo. Da soggetto imprevisto, anche se prevedibile, il virus è così piombato nel calderone ribollente dell’attualità mescolando ancora di più gli ingredienti che la caratterizzano. Il virus fa infatti la sua comparsa dentro un processo di neoliberalizzazione selvaggia, dentro l’imposizione di una società della prestazione, all’interno di una crisi climatica che non è soltanto una proiezione pessimistica sui futuri possibili ma una patologia in atto che mostra già i suoi effetti. Dentro una globalizzazione eterodiretta dal capitalismo contemporanea che se da una parte annuncia l’avvento di un’era ipertecnologica, dall’altra usa la tecnica come un’arma di assoggettamento di massa che ha partorito i nuovi schiavi digitali: i fattorini della delivery, gli autisti di Uber e tutti i lavoratori dei lavoretti che ha prodotto il passaggio dall’analogico al digitale. Chicchi e Simone si interrogano allora nell’intento di trovare, nella congiuntura attuale, le opportunità trasformative che la deflagrazione pandemica ha provocato.

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  1. Conflitto

Stiamo attraversando un tempo in cui la tecnocrazia sembra prendere piede sulla democrazia, un tempo in cui il ritorno della “forma Stato” si è andata ripresentando, ma solo attraverso i volti negativi dei nuovi nazionalismi e/o sovranismi e i volti, altrettanto negativi, della “mercatizzazione” delle istituzioni statali. Nonostante l’Unione europea sia determinante per uscire dalla crisi pandemica attraverso il piano di investimento Next Generation Europe, non possiamo oggi certamente dire di trovarci dinanzi al bisogno di ripensare un nuovo modello di sviluppo, né tantomeno dinanzi ad una politica che ascolta e fa propri i conflitti che attraversano la società pandemica. Tutti i dispositivi della società della prestazione funzionano secondo una modalità che mira incessantemente a disinnescare e metabolizzare le pratiche di resistenza e di attrito che emergono in seno al capitalismo. Così, per evitare che prevalga un falso e beffar- do orizzonte di pace sociale e tentare di aprire uno scenario di pratiche realmente trasformative, per costruire a parti- re da questo le basi di una società della restituzione e della giustizia sociale, il primo e imprescindibile passaggio che dobbiamo percorrere è quello di rimettere al centro del fare sociale le pratiche del conflitto. Affinché questo sia possibile occorre, in altre parole, riconquistare la sensibilità antropologica del conflitto, dare nuovo respiro all’idea che la lotta sia un’esperienza, la quale aprendo all’imprevisto, produce la costituzione di un nuovo sentire, fondamentale affinché le trasformazioni sociali non siano solo determinate dall’alto, e per recuperare quel sensibile che, per dirla con le sugge- stive parole di Éric Sadin, l’individuo tiranno pare impedirci di raggiungere[1]. Si tratta, cioè, di sperimentare, attraverso l’apertura di un’alterità, uno spazio della condivisione che si collochi al di là delle sabbie mobili della ego-crazia. Si tratta di sperimentare nuovi modi di vivere e desiderare che sappiano rompere il sempre più pervasivo comando digitale dell’algoritmo. Cosa più facile a dirsi che a farsi?

Occorre convincersi del contrario, non temere di prendere una posizione. A diverse latitudini del nostro pianeta si diffondono, infatti, nuove pratiche conflittuali che riescono a superare le trappole del capitalismo variegato e che inaugurano inedite condizioni di opportunità sociale. Pensiamo, ad esempio, a quanto accaduto nel mese di aprile del 2022, nel cuore della società per eccellenza del nuovo capitalismo digitale: per la prima volta nella sua storia, in uno stabilimento Amazon, quello di Staten Island a New York, denominato JFK8, la maggioranza dei lavoratori (il 55%, per l’esattezza) guidati dall’ex impiegato Amazon Chris Small, si è espressa a favore dell’elezione di una propria interna rappresentanza sindacale. e questo nonostante i milionari investimenti in propaganda, e non solo, che Jeff Bezos ha utilizzato per tentare di impedire che questo potesse avvenire. Ma non è solo Amazon che mostra un’inedita fragilità a riguardo. Anche i lavoratori di un Apple Store ad Atlanta, ad esempio, hanno richiesto al National Labor Relations Board (l’agenzia federale che tutela i diritti dei lavoratori nel settore privato) di poter ottenere una propria rappresentanza sindacale. Inoltre, come riportato anche dalla rivista Wired, in un altro Apple Store, questa volta a Manhattan (il Grand Central Terminal) si sta portando avanti un movimento a favore del riconoscimento di una rappresentanza sindacale nella più importante impresa hightech del mondo. In particolare, le intenzioni di quei lavoratori sono quelle di unirsi al Workers United, il sindacato che ha sostenuto con successo le rivendicazioni dei lavoratori di Starbucks. Il movimento di sindacalizzazione dei negozi Apple pare inarrestabile e moltiplicandosi si inserisce in un ampio movimento di conflittualità dei lavoratori delle grandi aziende tecnologiche americane, che fino a pochi mesi fa sembravano inscalfibili rispetto alla loro capacità di governo della conflittualità capitale-lavoro. oltre a questi imprevisti successi dei lavoratori dei grandi store americani, in tutto il mondo si moltiplicano le azioni conflittuali dei lavoratori del digitale. I driver di Uber, i rider delle piattaforme di food delivery, molti gig workers sperimentano forme originali e innovative di mobilitazione e sciopero per portare il conflitto tra lavoratori che prima di oggi sembra- vano addirittura inorganizzabili e allergici a qualsiasi forma di rivendicazione collettiva[2]. Questi esempi, tra gli innumerevoli che potremmo qui presentare, sono il sintomo evidente che qualcosa si agita nella pancia apparentemente piatta del capitalismo prestazionale. Soprattutto, se pensiamo come al conflitto nel mondo del lavoro si affianchino oggi sempre più azioni rivolte a chiedere giustizia climatica, diritti sociali, civi- li, lotte per la difesa delle minoranze, anche e finalmente non solo umane, nonché vertenze contro il lavoro gratuito, mal pagato, precario, femminilizzato. Certo, tutto questo è ancora insufficiente e coinvolge direttamente solo una minima parte delle soggettività che fanno esperienza, diretta e indiretta, del- lo sfruttamento messo in atto dal feroce capitalismo estrattivo. Cosa fare, dunque, per valorizzare il conflitto al di là della sua puntuale manifestazione locale e metterlo a disposizione di una nuova e grande stagione di trasformazioni sociali? Di seguito proviamo a puntualizzare delle coordinate a riguardo.

In primo luogo, occorre che il conflitto venga agito sui margini, sulle frontiere del capitalismo dove maggiore è l’incandescenza delle questioni in gioco. Quali frontiere? Quelle esterne che segnano il dentro e il fuori del capitale, la sua geometria variabile, e contemporaneamente quelle interne dove l’eterogeneità delle logiche dello sfruttamento capitalistico, sussuntorie ed estrattive, vengono improvvisamente a contatto. Infatti, non sempre le diverse operazioni che il capitale organizza per rispondere all’imperativo dell’accumulazione sono tra loro immediatamente e contemporaneamente realizzabili. Lo spazio politico del governo delle contraddizioni che inevitabilmente si manifestano a riguardo è lo spazio in cui è necessario aprire e sostenere i tempi della nuova conflittualità democratica. In tal senso appare sempre più urgente costruire una cartografia dei margini, delle tensioni e delle aporie, del capitale, confidando in nuove ed inedite forme di ripoliticizzazione del mondo contro lo sfruttamento trasversale e generale[3].

In secondo luogo, e di conseguenza, riteniamo che sia arrivato il momento di pensare la sociologia come una scienza e un sapere che, così come avvenuto nel momento costitutivo della nostra disciplina, generi oltre che una cartografia dei nuovi conflitti organizzati secondo il modello dell’arcipelago, anche e soprattutto uno strumento utile al fine di prendere coscienza rispetto alla situazione che ci è capitata in destino. Secondo noi, infatti, tessere legami e creare condivisioni continue tra i movimenti sociali, gli attivisti e le attiviste, le nuove forme di politicizzazione e le scienze sociali importantissime, ad esempio, sono le esperienze di neo-mutualismo sperimentate dentro la pandemia significa restituire alle scienze sociali la vocazione originaria di un sapere “posizionato”.

  1. Economie della restituzione

Il conflitto, secondo noi, deve avere come obiettivo l’inaugurazione di una politica della restituzione e della democrazia sostanziale. Dentro la grande crisi del capitalismo iniziata all’inizio di questo nuovo e per ora disastroso secolo, le nuove generazioni sono state defraudate delle risorse che sarebbero potute servire per sostenere i loro diritti futuri. La precarietà, infatti, è diventata una condizione generalizzata. Rompere la solitudine dei corpi e dei desideri, catturati da un lato dai dispositivi narcisistici dei social media e dall’altra normalizzati dalle recalcitranti illusioni identitarie, è l’obiettivo di lungo termine cui il conflitto deve tendere. Al di là dello status di lavoratori, e consapevoli di quanto sia dilagante il malessere sociale e singolare, riteniamo che oggi vi siano i presupposti per pensare economie della restituzione in grado di rimettere al centro la questione del corpo. Il corpo è il luogo per eccellenza dell’alterità. Riconoscerne la centralità significa risignificare il conflitto e far circolare il desiderio. Se i corpi, entrando in risonanza, producono una tensione aperta e continuativa tra l’istituire e l’istituito atti- vano un processo generativo di simbolizzazione che produce un orizzonte di alterità e permette così ai corpi di sentire e sperimentare, nella costruzione del vivere in comune, la gioia dello stringersi del rapporto tra desiderio e godimento. “La prassi emancipatrice è prassi istituente o attività cosciente di istituzione[4], ma è anche prassi per ripensare una misura del vivente che, come avevamo affermato ne La società della prestazione, potrebbe condurci nella direzione di riaprire su un’idea di giustizia e di giudizio politico, anche al di là dei di- ritti positivi; di considerare centrale la dimensione del corpo così come si vuole forgiare attraverso i dispositivi della prestazione, anche a partire dalle forme manifeste della sintomatologia che mostra. Il sintomo, nella sua accezione più ampia che il corpo precarizzato e mortificato del soggetto manifesta con sempre maggiore urgenza nella società contemporanea, indica l’esistenza di una eccedenza che non può venire mai consumata del tutto, indica uno spazio di incurabilità che dobbiamo imparare a riconoscere e apprezzare allo scopo di restituire alla vita dei corpi la dignità che meritano.

La restituzione è una pratica complessa, tanto quanto il continuo farsi e disfarsi del sociale. Per restituzione occorre intendere molte cose. essa non riguarda la logica del dono, né tantomeno solo la logica redistributiva o, peggio, la logica “gestionale” del disagio sociale. La necessità di insistere sui margini, intesi come i tempi e gli spazi dove avviene la cattura del valore da parte del capitale, a partire dalle tensioni che qui si determinano, rivendicare la necessità di una spessa trama affettiva e sociale, non quantificabile e non mercificabile, in grado di favorire l’esigenza di una cura che si produce in aperto contrasto con lo sfruttamento della sfera della riproduzione sociale (come abbiamo analizzato nei capitoli precedenti), trova il telaio di una nuova misura simbolica senza implicare il godimento ripetuto e contabile della misurazione. Insiste- re e sostare sui margini in senso restitutivo significa pensare la cittadinanza a partire “dalla prospettiva dei non cittadini, dei rifugiati, dei lavoratori migranti privi di documenti (…) dalla prospettiva di coloro che sono esclusi abissalmente”[5] e, aggiungiamo noi, significa anche comprendere le logiche di “inclusione differenziale” che qui, sui confini, si producono e s’articolano senza pausa. D’altra parte, è bene essere consapevoli che nessuna restituzione è possibile se non si assume in essa anche la dimensione economica del buon vivere.

C’è una dimensione materiale, insomma, che non può essere più separata dalla sfera emozionale e desiderante: non c’è desiderio senza corpo, non c’è corpo senza desiderio, potremmo dire. In tal senso, accanto alla necessità di veder- si riconoscere i diritti fondamentali e di dissociare l’idea di una nuova giustizia sociale dal principio di “concorrenza”, come si legge nel PNRR, ribadiamo l’opportunità di fare della rivendicazione di un reddito di base incondizionato e universale uno strumento di una nuova economia restitutiva. Tale strumento, in questa prospettiva, può anche diventare una potente arma compositiva, un milieu privilegiato delle diverse istanze dell’arcipelago della crescente conflittualità contemporanea. Il reddito di base è, infatti, uno strumento restitutivo che, se rivendicato dal basso attraverso le lotte sui margini, strappandolo alle logiche meramente redistributive e paternaliste delle politiche statali neoliberali, può aprire a impreviste e alternative dinamiche regolative del rapporto contemporaneo tra vita e lavoro.

  1. Materialismo sensibile

Se mettiamo al centro il corpo, non possiamo neanche esimerci dal tentativo di risignificare la qualità della sua materia. Lo status di lavoratori, come avveniva nella società salariale, non è più sufficiente per capire cosa accade davvero alle soggettività. Ci serve, insomma, un materialismo sensibile. La pandemia ci ha servito su un piatto d’argento la possibilità di ripensare la qualità dei nostri corpi atomizzati, sempre più provati da una condizione di solitudine e da legami sociali sempre più esposti alla fragilità e alla precarietà. eppure, rischiamo di sprecare l’occasione che il soggetto imprevisto ci ha consegnato per inceppare il super-egoico principio di prestazione, per toglierci dal posto individualizzato, mercificato e triste in cui mirano a metterci il principio di concorrenza e l’instabilità generalizzata.

Il materialismo sensibile è sia il frutto che la radice di una certa misura tra i corpi. Una misura che ha come perno fenomenologico del suo fluire il bisogno di desiderare l’altrove, nonché l’ambizioso progetto di ricostruire il legame sociale e la relazione, di fare una società degna di nota, oltre ogni logica io-cratica e performativa. “Il corpo vale nella sua materialità, in quanto metafora di intrecci, inscrizioni/incorporazioni, trame collettive con altri corpi”[6]. Nella pandemia e nel governo dell’emergenza che ne è seguito, si sono così moltiplicate le occasioni per sottolineare e ribadire le disparità di classe rispetto all’accesso alla cura, alla casa, al reddito, all’istruzione, in una logica in cui è prevalso l’asservimento tecnocratico dei corpi[7]. L’impronta neoliberale e paternalista dell’inclusione differenziale sulle nostre vite attraverso il management e altri dispositivi che mirano a capitalizzare persino il disagio sociale, il tentativo continuo di estrarre valore dalle nostre emozioni, dai nostri desideri, al fine di mercificare ogni singolo frammento dell’esistenza attraverso la governamentalità algoritmica, ormai ha subito un’accelerazione tale da non consentirci più di agire forme di rimozione più o meno consapevoli. Come ci mostrano anche i dati dell’Agenzia Nazionale del farmaco, il sensibile, spesso, precipita nell’angoscia e nell’invasività immunitaria dei dispositivi di governo sui corpi. È un caso, ad esempio, se gli studenti medi chiedono misure specifiche per far fronte al loro disagio psichico che ha origine nell’alienazione da solitudine e lavoro online durante i momenti più difficili della pandemia? Ritrovare una dimensione del desiderio e dell’altrove è lo spazio costitutivo del materialismo sensibile, dare vita a nuove istituzioni della cooperazione sociale tra i corpi il suo obiettivo fondamentale. Il pensiero femminista, da questo punto di vista, ci ha infatti dimostrato quanto sia importante immaginare un sapere della cura generativo, ovvero basato sulla pratica della relazione. La cura, infatti, non è un dono, il sintomo generalizzato della cosiddetta “sindrome della crocerossina”, un atto di bontà e di altruismo dequalificato o, peggio, mercificato, come spesso accade cinicamente attraverso alcune forme di care economy e care washing del tutto rispondenti al paternalismo neoliberale o al filantropismo inteso come superamento della cultura del Welfare, bensì un modo per ripensare il materialismo e i processi di politicizzazione. Come? Attraverso la necessità di fare del corpo uno strumento della sottrazione e, al contempo, della generazione di nuovi spazi del conflitto al fine di fecondare nuovi mondi, decisamente più sensibili.

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[1] È. Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune, Luiss University Press, Roma 2022.

[2] Su questo si veda il pregevole volume di M. Marrone, Rights against the machine!, Il lavoro digitale e le lotte dei rider, Mimesis, Milano-Udine 2021

[3] b. hooks, Feminist Theory: From Margin to Center (1984); tr. it. Elogio dei margini, Tamu, Napoli 2020

[4] D. Dardot, C. Laval, Del comune o della rivoluzione del XXI secolo, DeriveApprodi, Roma 2015, p. 346

[5] B. De Sousa Santos, La fine dell’impero cognitivo. L’avvento delle epistemologie del sud, Castelvecchi, Roma 2021, p. 428

[6] C. Morini, Vite lavorate. Corpi, valore, resistenza al disamore, Manifestolibri, Roma 2022, p. 147

[7] Ibidem

 

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