La conclusione da “Ripartire dal desiderio” di Elisa Cuter

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Molto interessante in questo numero della Città Invisibile l’estratto del libro di Elisa Cuter. Si tratta della “conclusione” che non è un semplice tirare le fila del discorso che si è dipanato per le oltre 200 pagine che lo precedono, ma una riflessione sul senso che tutta l’operazione ha o potrebbe avere sia per l’autrice sia per chi la legge. Un modo anche per riportare quel lavoro sul piano politico e che, se è anche vero che il “personale è politico”, non è oggi così scontato che tutti abbiano la capacità naturale di collegare i due piani. È un libro che come dice l’autrice è stato finito di scrivere durante la pandemia (del resto non cessata), lo riproponiamo oggi nel pieno di una crisi politica e in piena campagna elettorale con la prospettiva che l’esito vada in una direzione infelice per i temi trattati da Elisa. Ma non è una operazione politicamente di ripiego. Forse l’articolazione che l’autrice dà del desiderio è un punto dirimente fondamentale tale che possa essere di auspicio anche in questa contingenza. Probabilmente è il tempo nel quale “ripartire dal desiderio”, farci i conti, ci possa portare a una consapevolezza politica utile con non mai.

Questo libro è stato scritto per la maggior parte durante i primi mesi della pandemia di Covid-19. Purtroppo o per fortuna, è stato concepito prima. E oggi, me ne rendo conto, un titolo come Ripartire dal desiderio assume tutto un altro significato rispetto a quello che voleva dire prima. Un significato molto ambizioso, e forse persino un po’ ridicolo, perché ci sono ben altre cose da cui dovremmo ripartire. Un reddito universale basato su fiscalità progressiva, per fare un esempio, o una forma di governo alternativa agli stati nazione, capace di essere all’altezza della realtà economica globalizzata, per farne un altro. Prima della catastrofe, questo titolo di lavorazione non mi aveva mai convinto del tutto: mi sembrava che quel ripartire mantenesse un che di prescrittivo, pedagogico, che manifestasse insomma gli stessi limiti retorici che imputavo al femminismo «materno» che volevo criticare. È stato proprio dopo, però, che ho deciso di lasciarlo, perché ho pensato al fatto che ripartire da qualcosa vuol dire sì «riprendere il cammino», ma il verbo, usato transitivamente, significa anche «separare», cioè creare quel conflitto che per me dovrebbe ritrovare rappresentazione nella politica. Separare implica anche «distinguere», e questo è il senso di tutto il libro: isolare delle storie, dei problemi, pur sapendo che si danno tutti insieme e contemporaneamente, ed è questo a rendere così idiosincratico il posizionamento nel conflitto di cui sopra. Infine, il verbo può significare anche l’atto del «ridistribuire», possibilmente secondo la famosa massima di Marx: «A ciascuno secondo il suo bisogno».

Anche se questo libro si concentra su sessualità e ruoli di genere, io credo che parli anche dei progetti economici e politici che ho appena nominato e che hanno bisogno di essere intesi come desiderio prima di poter costituire un programma. Sgomberare il campo da tutto quello che impedisce di aspirarvi (remore morali in primis) sarebbe un livello minimo sul quale – mi piace illudermi – potremmo metterci tutti d’accordo. Ho sostenuto che la necessità di concentrarsi sul privato e la conseguente ansia di normare o moralizzare l’ambito della sessualità nascono anche da un senso di crescente impotenza sociale nei confronti di altri problemi macropolitici. Devo ammettere che questo è uno dei paradossi più grandi che vedo nella nostra epoca, perché penso che questo malinteso nasca proprio da una serie di assunti che, ideologicamente, non mettiamo più in discussione. Il primo è che la dimensione collettiva di alcune questioni ci renda più difficile la loro risoluzione, invece che rendercela più accessibile grazie allo sforzo e all’ingegno collettivo. Il secondo, per converso, è la convinzione che il privato, quello dell’identità e del sesso, sia un ambito nel quale possiamo sperare di detenere più potere e controllo. Per me è vero esattamente l’opposto. Qui emerge la differenza sostanziale tra due elementi che ho usato talvolta nel libro come sinonimi: interesse e desiderio. Un’organizzazione sociale che si proponga di mediare tra differenti interessi in modo razionale ed equo mi sembra quantomeno plausibile – l’annosa questione naturalmente è come fare, cioè una faccenda di strategia. Il desiderio invece introduce proprio quella negatività, quel conflitto che non si lascia semplicemente educare, civilizzare, razionalizzare. È precisamente ciò che non ci consente di avere una ricetta, una Cosa Giusta da Fare, una direzione precisa da seguire per avere la certezza che andrà tutto bene. È questo è il suo limite e anche il suo vantaggio.

Il desiderio è in un certo senso la rivoluzione permanente, quasi la negazione dell’utopia realizzata una volta per tutte. Eppure è proprio per questo che il sesso ha qualcosa da insegnarci sulla politica: proprio perché non è una soluzione, ma l’inizio del problema. Il sesso è la prima cosa che crea un conflitto che chiede costantemente di posizionarsi. Aprirsi a questo conflitto, ascoltarlo, lasciare che questo ci permetta di definirci e allo stesso tempo che ci trasformi non è automatico. Proprio come non basta, spero di averlo dimostrato, essere donne per essere automaticamente fautrici di una rivoluzione, così non basta ovviamente provare desiderio per essere in grado di seguirlo. E, soprattutto, anche quando questo accade, non possiamo prevedere gli esiti.

Il desiderio nasce dalla frustrazione, dalla presa d’atto di una mancanza, e molto spesso ci ritorna. Può fare saltare le nostre convinzioni, può fare del male a noi e agli altri. Ha conseguenze incontrollabili. È un rischio, una sfida.

Inoltre, l’abbiamo già detto, è sempre determinato, ognuno ha il suo. È per questo che il tema del desiderio fa esplodere la soggettività nel campo politico. E se già è un problema riconoscere e nominare il proprio oggetto del desiderio, parlare di desiderio in astratto è quasi impossibile. Un modo per farlo è parlarne in contrapposizione ad altri principi, come ho fatto io contrapponendolo all’etica. Anche in questo libro il desiderio ha funzionato come risorsa critica, che permette di individuare quelle cose che si frappongono alla sua comprensione, al suo ascolto, ma che non offre nessuna semplice pars construens – posto soprattutto che anche il suo ascolto non offre nessuna garanzia di soluzione. Parlando di desiderio, quindi, in questo libro, sono stata in grado di dire cosa non voglio, cosa non mi piace, cosa mi sembra problematico, cosa ci allontana dal guardare in faccia il problema, molto più di quanto non sia stata in grado di dire cosa vorrei.

Ho criticato l’idea che il genere possa essere un fondamento essenziale e naturale, e allo stesso tempo quella secondo cui dovremmo semplicemente prescindere dalle sue specificazioni quando si tratta di sesso. Ho contestato l’atteggiamento pruriginoso che ancora permane attorno al sesso, e allo stesso tempo ho espresso i miei dubbi verso chi sostiene che tutte le sue contraddizioni, ambiguità e lati oscuri debbano essere superati in vista di una sua «naturalizzazione» che si crede progressista. Ho ironizzato tanto sulle casalinghe asservite e docili quanto sulle le donne in carriera, tanto sulle le Madri altruiste quanto sulle Jeune-Filles egocentriche. Immagino un lettore comprensibilmente esasperato chiedermi: ma allora cosa vuoi? Saprei rispondere senza troppe esitazioni in quanto comunista, e lo farei con l’ennesimo slogan da attaccare al cruscotto: il posto di una donna non è in cucina, non è in fabbrica, non è in azienda, non è in un film di Hollywood… è nella rivoluzione. Con la doverosa specificazione che questo vale a mio avviso non solo per le donne, ma per le persone in generale.

È proprio in quanto donna, invece, che non saprei rispondere. È la più classica domanda che si poneva Freud: cosa vuole la donna? Io, in effetti, non lo so. Non so cosa voglia dire essere una donna, e non ho prescrizioni da dare, non ho raccomandazioni etiche da fare a nessuno. Ho un’identità di genere che mi ha dato questa società, e un orientamento sessuale che ho scoperto e si è formato sulla base di quello che desideravo, e non viceversa. Ho degli interessi individuali, delle preferenze estetiche, delle ossessioni erotiche, delle persone che amo. Queste cose sono le mie, non sono universalizzabili, e non sono stabili, non sono date una volta per tutte. È proprio questo a fare del desiderio qualcosa di diverso da un progetto o da un contratto.

Il desiderio ci porta in luoghi che non conoscevamo prima. Ci dice qualcosa su quello che siamo, su dove stiamo, ma queste indicazioni si possono leggere solo a posteriori. Ci fa scoprire cose sulla nostra identità in modo insperato, come un effetto collaterale. Voler parlare di desiderio in astratto, addirittura invocare il desiderio come punto da cui ripartire è una contraddizione logica, un limite del linguaggio che si tenta costantemente di forzare. Se nominare le cose vuol dire definirle, chiuderle, fissarle, stabilizzarle, come si dicono quelle cose che non sono fisse, che si muovono, come la dialettica, come il desiderio? E, soprattutto, ha un senso farlo? È giusto? È etico? Riconoscere, nominare, seguire il desiderio, l’abbiamo detto, è anche un rischio. Ciò che mi fa sperare di essere riuscita a rendere giustizia a questo elemento potenzialmente deflagrante dell’esistenza umana è proprio il fatto che, mentre so che c’è chi, concluso e mandato in stampa il suo libro, si sente di aver contribuito a qualcosa, di aver fatto qualcosa di buono per sé o per gli altri, e si sente dunque soddisfatto, io ora sono terrorizzata.

Elisa Cuter Ripartire dal desiderio, minimum fax 2020

© Elisa Cuter, 2020

© minimum fax, 2020

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