Il copyright e il diritto di autore nell’infosfera

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È di questi tempi la presenza sempre più massiccia di software test to immagine e di AI generatrici di testo. Si tratta di due algoritmi che avendo in input un testo, generano un’immagine oppure un testo più esteso, con le caratteristiche richieste in input. È la stessa tecnologia alla base delle chatbot che, più che essere una conquista dell’umanità, è un modo per risparmiare mano d’opera ed è connesso con le esternalizzazioni e le delocalizzazioni permesse dallo strumento dei call center. Di questi aspetti e del fatto che sostituiscano prestazioni lavorative ad alto impegno cognitivo con i cosiddetti lavoretti (bull shit jobs), ne avevo già parlato, quello che volevo invece sottolineare adesso è il ruolo che in questo ambito gioca il copyright. Prendiamo il caso delle immagini generate da questi programmi – il discorso è molto simile per i testi – uno degli interrogativi che vengono posti è quello su chi sia l’autore delle stesse. L’umano che ha scritto le istruzioni o il programma (la macchina) che le ha generate? Alcuni artisti hanno intravisto le possibilità creative del medium riuscendo a confezionare immagini di grande appeal e ne rivendicano giustamente la proprietà in termini autoriali. Ottenere un’immagine di qualità non è infatti né immediato né facilissimo; certo è un mezzo che permette di dipingere anche a chi è imbranato con colori e pennelli, ma è una problematica già superata in rapporto alla fotografia, che non ha ucciso le arti visive ma le ha arricchite di nuove possibilità. Ma dietro questa posizione ci sono da prendere in considerazione delle sottigliezze non così evidenti. In gioco è quello che c’è dietro al mezzo espressivo. Per quanto riguarda la fotografia, per essa, pur non usando soltanto soggetti e cose del mondo, della natura – ma anche delle altre, costruite appositamente dal fotografo – non si pone il problema della proprietà delle immagini che il fotografo inquadra. Ci sembra ovvio che le immagini che il mondo produce o contiene, per esempio un tramonto, siano di tutti, così come è ovvio che se qualcuno ci chiedesse i diritti per aver usato un tramonto o un gattino (al quale per altro nessuno ha chiesto il permesso per fotografarlo), lo prenderemmo per pazzo.

Non così per quanto riguarda le immagini usate dagli algoritmi per auto addestrarsi e alle quali fare riferimento nel generare una risposta alla query data in input alla macchina. Esse sono un patrimonio della umanità. Cosa che a me pare perfettamente comprensibile ed è nient’altro che il “general intellect” marxiano che spesso sembra all’opposto di difficile comprensione. Il capitalismo – e in misura macroscopica quello digitale – si appropria del sapere comune, della cultura umana, per generare profitto. Per farlo, e non sempre, mette a disposizione degli strumenti che ne riescono a fare un uso proficuo, spesso gratuitamente perché sa che il loro uso genera altra informazione che esso può capitalizzare e quindi monetizzare in forma indiretta. Diciamo che produce degli strumenti che sarebbe giusto che fossero, direttamente o indirettamente, retribuiti. Ma, appunto, per farlo usa un bene comune prodotto da tutti. Se è giusta questa retribuzione sarebbe giusto anche che si usasse qualcosa di simile per compensare tutti gli umani che quel sapere e quella base di dati, hanno prodotto e continuano a produrre. La perversità è il copyright, un sistema che dovrebbe tutelare la remunerazione dei prodotti dell’ingegno ma che si distorce nella appropriazione degli stessi, spesso non da parte della singola persona, dell’autorə che l’ha prodotto, ma della struttura che lo distribuisce. È il solito giochino: le piattaforme di rete si intromettono tra produttore e consumatore chiedendo il pedaggio spesso sproporzionato nei confronti dello sforzo occorrente. Così tutto il delivery tipo Uber o Airbnb e altre ancora. Sono disposto a pagare l’uso dell’algoritmo che mi permette di fare più facilmente delle cose, quello che non capisco è perché tu, o chi per te, non debba pagare niente a chi produce la materia prima: quella conoscenza incarnata nel general intellect di cui sopra. Se pensiamo al copyright sulla vita, come per esempio sui semi, che ha permesso e permette un sistema agroalimentare a ciclo chiuso dove devi comprare il seme geneticamente modificato per resistere ai diserbanti a base di glisofato che tu stesso produci, fai una operazione doppiamente dannosa: riduci le varietà delle specie e i benefici che questa varietà comporta, avveleni con l’erbicida (più volte dichiarato cancerogeno) e rendi inutile il saper fare contadino (che teneva conto di un’infinità di fattori che tenevano l’ambiente in equilibrio) forzando il gesto colturale verso l’agricoltura intensiva che impoverisce i suoli a fronte di uno spreco alimentare che cozza pesantemente sulla redistribuzione delle risorse, nel momento in cui la fame del mondo si ripresenta agli onori della cronaca o che ci opprime come un fantasma che popola le nostre visioni del futuro.

Stessa cosa per le immagini nella rete. I motori di ricerca interrogati all’uopo ci restituiscono immagini inerenti alla nostra domanda, offrendoci anche un modo attraverso il quale filtrare quelle certamente di libero dominio ma, quest’ultime, sono molto poche rispetto all’insieme delle immagini presenti in rete. In più non è che tutte le altre siano “proprietarie”, coperte da copyright, soltanto è che non si sa, a meno di non incappare in quelle che riportano in filigrana la loro appartenenza a qualcun(o) (non metto la scwa perché penso che questo sia un comportamento tendenzialmente maschile). Ecco che la rete si è popolata di immagini protette che non fanno riferimento a un contesto, un ambito che potrebbe essere realmente proprietario, ma proprio di quelle basilari, quelle generaliste, quei segni iconici che proprio per il fatto di esserlo fanno riferimento a un sapere comune: una freccia, uno schermo, un albero generico e non nessun albero in particolare: appunto l’icona dell’albero. Qualcosa che in termini saussuriani fa riferimento alla langue e non alla parole: a un ambito di conoscenza comune che è immanente al linguaggio. Si potrebbe dire a un bene comune, facendo di nuovo un atto di cannibalizzazione del sapere e che ci porge il conto.

Ecco perché – in questi tempi dissestati – un reddito di base universale e incondizionato sia sempre di più urgente. Più il capitale, e quello digitale in particolare, si arricchisce espropriando il sapere comune e più crea disoccupazione o lavori di merda. E lo fa, riesce a farlo, soltanto appropriandosi di un bene comune sacro al pari dell’acqua e dell’aria.

Ci fanno allora ben pensare la tendenza, seppur non macroscopica, alla dismissione, alla non accettazione di lavori di merda con paghe di merda che il capitalismo cerca di propinarci. Non è un programma politico ma un sintomo che ci fa meno disperare.

Le immagini che illustrano l’articolo sono state prodotte dall’artista e filosofo fiorentino Francesco D’Isa

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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