Nella settimana scorsa diverse vicende che riguardano l’infosfera e il Capitalismo Digitale hanno riempito i giornali e noi della Città Invisibile che dal gennaio 2020 abbiamo una rubrica fissa sull’argomento, non ne abbiamo fatto parola. Il fatto è che la nostra è una rubrica ospitata dentro un quindicinale e si occupa principalmente di indagare le trasformazioni sociali, politiche e antropologiche prodotte dall’uso capitalistico di queste tecnologie. In questo caso qualcosa bisognava dirlo perché dalla cronaca spicciola sono saltate fuori delle implicazioni di non poco conto.
Per primo c’è stato il crollo delle cripto valute generato da una operazione finanziaria abbastanza azzardata, ma che ha messo in evidenza la fragilità del sistema. Una piattaforma di scambio, la FTX, una specie di banca per le valute digitali, aveva come fondi di riferimento gli FTT, una cripto valuta che aveva emesso a proprio piacere una società sorella. Svelata la commistione e con la paura di non poter vedere riconosciute le FTT detenute, gli investitori hanno cercato di rientrare, provocando il crollo di FTX che ha richiesto la bancarotta assistita. In seguito a questo evento tutte le criptovalute hanno subito grossi ribassi a testimonianza di una crisi strutturale di tutto il comparto.
Meta, il nuovo nome della piattaforma a cui fa riferimento Facebook, ha perso il 70% del proprio valore nell’ultimo anno. Il titolo ha bruciato negli ultimi tre mesi 65 miliardi di dollari di capitalizzazione, mentre la divisione Reality Labs, che si occupa di sviluppare l’universo alternativo, ha perso 9,4 miliardi di dollari in nove mesi. Così Meta ha licenziato 11 mila dipendenti e sta mettendo in opera delle strategie di risparmio passando per esempio alla condivisione della scrivania, visto che molti dei dipendenti trascorrono la maggior parte del loro tempo fuori ufficio. Le ragioni sono le più varie. La crescita dei social avvenuta nella pandemia si è arrestata e la concorrenza si comincia a sentire, come quella della piattaforma cinese Tik Tok, ma anche per lo spostamento di molti utenti su Mastodon che garantisce dei livelli di sicurezza e di tutela della privacy più alti. C’è poi sicuramente il riflesso della crisi macroeconomica globale e di quella dello e-commerce in particolare, che ha fatto diminuire il gettito pubblicitario.
Non va certamente meglio sul fronte di Twitter, situazione che aveva provocato il tentativo di smarcarsi da parte di Elon Musk che aveva iniziato le pratiche per l’acquisto della piattaforma e che non ha poi potuto recedere dall’acquisizione. In questo caso, viste le caratteristiche della piattaforma, la concorrenza di Tik Tok e quella di Mastodon sono certamente ancora più dirimenti.
Ma non è soltanto un fatto di semplice concorrenza. Probabilmente il modello di business ha dei problemi. Il grosso degli introiti delle bigtech infatti viene dalla pubblicità che è, volente o nolente, legata alla economia reale, ma le scelte macroeconomiche dell’occidente “sviluppato” vanno sempre di più verso forme di delocalizzazione e smantellamento delle capacità produttive locali tanto che quella che chiamiamo economia reale è sempre di più compressa e sostituita da produzione di servizi e dalla finanziarizzazione selvaggia. Le linee di crescita e di sviluppo tecnologico vanno poi in direzioni forse troppo azzardate. Il metaverso di Facebook dipende da interfacce ingombranti e poco agevoli e l’acquisizione di Oculus del 2014 per 2 miliardi di dollari non ha orizzonti di sviluppo molto rosei. Dai primi visori Oculus Rift agli attuali Meta Quest 2 i passi avanti non sono così strepitosi e difficilmente avranno la possibilità di farci transitare nel metaverso rimanendo di fatto delle sofisticate interfacce di gioco. Un salto di qualità sarebbe quello delle interfacce neurali come Neuralink ma sulle quali è scettico, almeno nel breve periodo, anche quel tecno-entusiasta di Nick Bostrom. Comunque la si pensi non è una tecnologia dalla quale aspettarsi ritorni economici a breve. Prevede infatti che si innestino nel cervello umano degli elettrodi se non dei veri e propri chip per riuscire a dialogare direttamente per via neurale, aprendo la strada al cyborg definitivo che rimanda a umani potenziati anche dal punto di vista cognitivo. Ma la follia non è questa in sé e per sé, sono le ricadute socio politiche che queste potenzialità aprono come quelle di progetti eugenetici per il miglioramento della specie che rimandano a una visione del mondo come minimo raccapricciante.
Si tratta delle visioni a lungo termine che si sono trasformate in una vera e propria ideologia che alimenta settori dell’Alt right e del Light right americano e ai quali guardano con favore anche alcuni rappresentanti delle destre europee. Il “testo di riferimento” più aggiornato è probabilmente What We Owe The Future di William MacAskill tanto che Elon Musk ha ritwittato un collegamento al suo libro con il commento: “Vale la pena leggere. Questa è una stretta corrispondenza con la mia filosofia”. Ma quale è questa filosofia? Il lungo termine è ovunque dietro le quinte – ha un enorme seguito nel settore tecnologico – e i sostenitori di questo punto di vista stanno tirando sempre più i fili sia dei principali governi mondiali che dell’élite imprenditoriale. Il longtermismo è una visione del mondo quasi religiosa, influenzata dal transumanesimo e dall’etica utilitaristica, che afferma che potrebbero esserci così tante persone digitali che vivranno in vaste simulazioni al computer, milioni o miliardi di anni nel futuro che uno dei nostri obblighi morali più importanti oggi sarebbe intraprendere azioni che garantiscano la nascita del maggior numero possibile di queste persone digitali. Da questa visione allucinata e fantascientifica, negli ultimi due decenni, un piccolo gruppo di teorici, per lo più con sede a Oxford, è stato impegnato a elaborare i dettagli di una nuova visione morale del mondo chiamata longtermism, che sottolinea come le nostre azioni influenzino il futuro a lungo termine dell’universo: migliaia, milioni, miliardi e persino trilioni di anni da adesso. Questo ha radici nel lavoro del già citato Nick Bostrom, che ha fondato il Future of Humanity Institute (FHI) nel 2005, e di Nick Beckstead, ricercatore associato presso FHI e responsabile del programma presso Open Philanthropy. Secondo i longterministi, l’umanità avrebbe un proprio “potenziale”, che trascenderebbe i potenziali di ogni singola persona, per cui, non riuscire a realizzare questo potenziale, sarebbe estremamente negativo. Ma elevare la realizzazione del presunto potenziale dell’umanità al di sopra di ogni altra cosa, potrebbe aumentare non banalmente la probabilità che le persone reali – quelle vive oggi e nel prossimo futuro – subiscano danni estremi, persino la morte, ma questo, in quella prospettiva e per quel modo di vedere, non sarebbe eticamente sbagliato. Si consideri che l’ideologia a lungo termine inclini i suoi aderenti ad assumere un atteggiamento spensierato nei confronti del cambiamento climatico e delle sue conseguenze nefaste che, se non comprendessero l’estinzione totale della specie, sarebbero cosa di poco conto rispetto al fatto di non dover rallentare lo sviluppo e la ricerca tecnologica oggi. Bostrom, per esempio, dichiara che le due guerre mondiali, l’AIDS e l’incidente nucleare di Chernobyl, per quanto tali eventi siano tragici per le persone immediatamente colpite, nel quadro generale delle cose, anche le peggiori di queste catastrofi sarebbero semplici increspature sulla superficie del grande mare della vita. Con il suo collega al Future of Humanity Institute, Carl Shulman, Bostrom ha esplorato la possibilità di ingegnerizzare esseri umani con un QI molto alto mediante lo screening genetico degli embrioni per i tratti “desiderabili”. Poi selezionando un embrione su 10, creandone altri 10 da quello selezionato e ripetendo quel processo 10 volte, gli scienziati potrebbero creare una persona radicalmente migliorata con guadagni di QI fino a 130 punti. Bostrom elenca inoltre le “pressioni disgeniche” come un rischio esistenziale, il rischio cioè che più di tutti andrebbe scongiurato, per cui le persone meno “intellettualmente talentuose” (quelle con “QI inferiori”) supererebbero in numero le persone con intelletti superiori. Si predica anche la ridistribuzione del sesso (e non del reddito) che ha creato quelle forme di “discriminazione sociale” come gli incel. Ma anche questa chicca: “il problema principale” con l’Olocausto era che non c’erano abbastanza nazisti! Dopotutto, se ci fossero stati sei trilioni di nazisti disposti a pagare 1dollaro ciascuno per realizzare l’Olocausto, e solo sei milioni di ebrei disposti a pagarne 100.000 ciascuno per prevenirlo, l’Olocausto avrebbe generato 5,4 trilioni di dollari di surplus per i consumatori [citato da Bryan Caplan in un dibattito con Hanson]. In una visione di lungo termine salvare una vita in un paese ricco sarebbe perciò sostanzialmente più importante che salvare una vita in un paese povero a parità di altre condizioni. Questo perché i paesi più ricchi hanno sostanzialmente più innovazione e i loro lavoratori sono molto più produttivi economicamente. Da cui si deduce che, come dice in un’intervista Hilary Greaves, un’altra ricercatrice associata a Hanson e MacAskill: pensiamo intuitivamente che trasferire ricchezza dai ricchi ai poveri sia il modo migliore per migliorare il mondo, ma linee di pensiero a lungo termine suggeriscono che qualcos’altro potrebbe essere ancora meglio, vale a dire, trasferendo ricchezza nella direzione opposta (Cfr. le critiche di Émile P. Torres).
Ma ritorniamo alla crisi economica attuale delle Big Tech. Le ragioni sono tante, compresa la guerra intestina che il capitale solleva anche in direzione dei suoi consimili. Una mossa di Apple ha aperto gli occhi su un aspetto mai preso precedentemente in seria considerazione: la diminuzione della quantità di dati disponibile per alimentare il processo di accumulo capitalistico. La casa della mela ha arricchito il comparto per la salvaguardia della privacy implementando una funzione anti tracciamento per i tracker di terze parti e, visto la sua leadership nel mercato statunitense, questo ha comportato un calo pesante della disponibilità di dati per le altre aziende. Ma non sarebbe finita qui: Apple si appresterebbe a richiedere degli interessi non soltanto sull’acquisto delle App dal suo store ma anche sui proventi che quelle stesse App consentono ai suoi produttori. Sono le conseguenze del sistema chiuso che l’azienda ha creato, un vero e proprio ecosistema che si alimenta a partire dall’appeal che il brand è riuscito ad avere nei confronti dei consumatori. La risposta di Facebook (Meta) è stata giocata ancora una volta alle spalle dei consumatori, ecco un titolo di un giornale online: “Meta avrebbe escogitato un modo per bypassare i sistemi anti-tracciamento di iOS, introdotti da Apple mediante il servizio App Tracking Transparency: ciò potrebbe portare a una raccolta non autorizzata di dati personali e una conseguente violazione della privacy degli utenti iOS”. Ma la guerra non è soltanto intestina, è anche geopolitica e i contendenti sono allora MAGA vs BATX: Microsoft, Amazon, Google ed Apple da una parte e Baidu, Alibaba, Tencent e Xiaomi dall’altra. Senza citare Huawei che era stato già scaricato dagli americani e che deve fare a meno di Android e di ogni App dell’altro ecosistema, quello, in verità molto più aperto, di Google. Ma il terreno dello scontro più importante, in questo caso, non sono i dispositivi mobili ma le infrastrutture per le reti per il 5g. Come non lo è in definitiva il mondo globalizzato per il fatto che i giganti cinesi fanno affidamento per ora principalmente al mercato interno.
Ma proviamo a fermare le bocce e a guardare con calma lo scenario non limitandoci agli ultimi tempi. Lo sviluppo della capitalizzazione delle Big Tech americane è avvenuto a partire da una situazione non normata perché non prevista, con il risultato che poche aziende monopoliste si sono accaparrate il mercato e hanno condizionato lo sviluppo del capitalismo nella direzione nella quale ci troviamo oggi. Aziende che eludono le tasse e che fanno il bello e cattivo tempo come più le aggrada, creando pochi posti di lavoro se commisurati agli introiti che sono in ballo. E se qualificano ancor più i lavori al vertice della piramide, fanno ampliamente il suo contrario per tutto il resto, creando così un fenomeno di proletarizzazione del ceto medio dell’emisfero nord del mondo, facendo poi disperdere le briciole in direzione del mondo restante. Che ruolo ha in questo l’Europa? Pressoché nessuno. Nel suo atlantismo gratuito ha lasciato fare agli americani. L’Italia ha per esempio smantellato la sua industria manifatturiera non sostituendola con niente altro. Questa tabula rasa dei regolamenti comunitari nei confronti delle attività del comparto digitale e della rete, ha permesso che la deregolamentazione del lavoro favorisse l’emergere di figure della delivery, veri e propri schiavi del terzo millennio. Se guardiamo bene, il jobs act è proprio questo: una legge che permette che aziende dell’e-commerce e quelle che aderiscono al modello produttivo just in time e on demand, basato sulla logistica di fare il loro porco comodo. L’unica cosa che allora urge è una legge europea sul trattamento dei dati che metta fine a questa orgia estrattiva. E, se guardiamo ai due contendenti mondiali che occupano i vertici di questo scenario. vediamo che la Cina (a novembre 2021) ha promulgato la Personal Information Protection Law, che sullo sfruttamento commerciale dei dati personali è ancora più rigida della legge europea. Un abbozzo di legislatura che ci prova ma, non osando mettere il bastone tra le ruote dell’alleato atlantico, favorisce soltanto quest’ultimo, mentre e come al solito, negli USA una legge federale per la protezione dei dati semplicemente non c’è.
Ma torniamo a Elon Musk e a Twitter. Non potendo recedere, l’acquisto è andato a buon fine. Ma di che tipo di operazione si tratta? Twitter non è (solo) un prodotto tech (e Musk non è solo un imprenditore tech) dice Carola Frediani in Guerre di Rete e prosegue:
“Intanto perché non stiamo parlando solo di un social network e di un miliardario tech. Ma di una delle piattaforme più influenti in termini mediatici (e di circolazione di informazioni, e di giochi di potere) acquistata dall’uomo più ricco del mondo (ma questo è davvero il meno), ma anche dall’imprenditore tech che (a torto o a ragione) è considerato da molti come il più innovativo e visionario; ma anche da un influencer del mondo internet e delle criptovalute, nonché un modello per ragazzini in tutto il mondo che hanno visto i documentari su di lui su Netflix; e, dulcis in fundo, da una personalità che ha manifestato forti e specifiche idee politiche, idee sulla società, il presente e il futuro dell’umanità”.
Musk non è certo un benefattore dell’umanità e ha cercato da subito di modificare il modello di monetizzazione di Twitter. Sfruttando anche i difetti e le problematiche che angustiavano la piattaforma in relazione alla presenza di account falsi, ha ben pensato che il bollino per garantire l’autenticità degli account delle persone che contano fosse a pagamento. In un primo tempo a 20 dollari il mese poi ridimensionato a 8 anche, si dice, in risposta alla reazione stizzita di Stephen King che aveva affermato che avrebbero dovuto pagare lui per essere sulla piattaforma (la risposta di Musk è stata che si doveva pur pagare le bollette). Sì perché Twitter è un modello di comunicazione non uno a uno ma uno a molti. Se hai molti followers hai molto audience, se non ce l’hai ti parli semplicemente addosso. È quindi uno strumento ideale per le campagne mediatiche che pubblicizzino un personaggio politico o uno del mondo dello spettacolo ma anche un prodotto raccomandato da quell’uno a molti che sono gli influencers. Per questo, il suo uso disinvolto da parte di Trump che “forse” ha anche un po’ esagerato nel prendersi certe libertà comunicative.
Ma se non c’è sbocco che tenga per il modello di business legato alla pubblicità, e se il mondo della delivery non può reggere all’infinito nell’offrire soltanto lavori di merda, le speranze high tech saranno sempre di più legate allo sviluppo delle AI (intelligenze artificiali) per poter sperare nel buon funzionamento delle auto a guida automatica e autonoma, ai droni per le consegne e a tutti quei settori dove è possibile implementare le AI stesse, come la domotica e l’internet delle cose per un futuro anch’esso automatico dove il comando umano dovrà avere sempre meno senso in barba alla libertà sbandierata dai paladini di questo scempio sociale e umano che è il Capitalismo Digitale. Il fatto è che le AI sono arrivate a una fase del loro sviluppo nella quale passi avanti decisivi non sembrano essere all’orizzonte. Non siamo entrati nel mondo postumano o transumano, ma in uno totalmente disumano, ma non nel senso che scalza l’umanità dal suo ruolo di dominio rispetto al resto del mondo, ma che l’umanità e il mondo stesso perdano gli ultimi barlumi di senso e di agency, sostituiti dalla agenzialità automatica della macchina digitale asservita al profitto.
Gilberto Pierazzuoli
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Splendido lavoro Gilberto, ma riposa sulla falsa assunzione che Musk sia un visionario: un delirio di onnipotenza, giova ricordarlo, è qualcosa di ben diverso da una visione.