Medea, il desiderio e la cura

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Ancora sul desiderio (parte IV) Qui le altre tre

Che il soggetto sia soggetto di desiderio o, meglio ancora, che sia determinato dal lavoro del desiderio è un assunto che gira intorno a Hegel (in particolare al passo della Fenomenologia dello spirito su “Signoria e Servitù”) e alle sue varie interpretazioni: da Kojève a Judith Butler e a Catherine Malabou che scomodano anche Derrida e Foucault. L’incontro con l’altro attraverso il quale si ha l’esperienza originaria di vedere fuori di sé un altro sé, fa sì che si possa accedere alla propria autocoscienza. L’incontro con l’altro apre da subito una dinamica; che essa sia di tipo dialogico o dialettico è una questione che qui non interessa, quello che importa è che questa dinamica sia attraversata da flussi di desiderio.

Diotima

«Perché l’uomo [e la donna] sia veramente umano, perché si differenzi essenzialmente e realmente dall’animale, occorre che il suo Desiderio umano in lui effettivamente prevalga su quello animale. Ora, ogni Desiderio è desiderio di un valore. Il valore supremo per l’animale è la sua vita animale: Tutti i Desideri dell’animale sono, in ultima analisi, una funzione del desiderio che esso ha di conservarsi la vita. Il Desiderio umano deve dunque prevalere su questo desiderio di conservazione. Detto altrimenti l’uomo “risulta” umano solo se rischia la propria vita» (Kojève, pp. 20-21).

È la vita biologica, quella del corpo che è qui in discussione. Il Desiderio umano è invece non biologico e ha a che fare con la dimensione linguistica dell’esistenza. «Il nostro scambio è sempre condizionato e mediato dal linguaggio, da convenzioni, da una sedimentazione di norme che sono sociali nel loro carattere intrinseco e che eccedono sempre la prospettiva parziale di chi è impiegato nello scambio» (Butler, p. 42). Ma non si tratta dell’ennesima polarità corpo-mente, ma semplicemente della condizione ontologica «di un essere per cui lo stare dentro di sé si rivela imposssibile» (ibidem).

È dunque un’operazione che separa – distingue – il significato dal referente. Le parole, e ancor più la scrittura, possono essere separate dalle cose materiali. Si può giocare con le parole. Si separa così il simbolico dal biologico. L’atto del separare entra così nell’esistenza come potere del linguaggio. La dinamica signoria servitù si alimenta da questa possibilità. È la via scelta dal signore, mentre il servo è colui che resta legato alla dimensione animale di salvaguardia della propria vita. Ma il signore, la relazione, il linguaggio, le relazioni discorsive stesse, permettono non soltanto di uscire dalla dimensione della pura sopravvivenza, aprono anche a una dimensione sovrana, a una apertura, all’apertura che il desiderio ha verso mete diverse dal semplice evitare la morte. Il piano simbolico è a portata del signore che sottolinea questo aspetto disprezzando il piano materiale.

È su questo terreno che si dipanano le relazioni non mercantili di cui ho parlato sopra. Quelle per le quali i valori in gioco possono essere suntuari e non materiali. Le dinamiche del debito, del dono, della reciprocità che il dono introduce così come le distruzioni creative. Un ambito dove, come avevo accennato, il rapporto, la relazione, non è tra soggetto e oggetto. Dove il soggetto soppianta l’oggetto. È il lavoro (ἐνέργεια, energeia) del desiderio che si mobilita nell’incontro con l’altro. La sopravvivenza del sé svelata dall’incontro con l’altro, che è un te fuori di te, che allora fa sì che tu voglia un riconoscimento; vuoi che l’altro ti riconosca: desideri che l’altro ti desideri. Qui il desiderio non ha oggetto, lavora tra due soggetti. Ma questo ambito, il piano delle relazioni simboliche, è quello che il pensiero occidentale ha abbandonato riducendo il simbolico al linguistico. Introducendo, per esempio, la moneta come equivalente universale (vedi qui). Il socius primitivo (nel senso di anteriore) è però un ambito che non copre soltanto le immaterialità del desiderio. Il sé è un corpo, anche l’altro è un corpo. È quel corpo che secondo Butler Hegel non ha visto e che le lei fa emergere tra le pieghe dei ragionamenti di Hegel stesso. Il soggetto desiderante-tutto, è un corpo. «Interiorizzare la propria finitudine, significa anche riconoscere il proprio corpo» dice Malabou (p. 51) (Da notare che il titolo della versione inglese è traducibile con “Che tu sia il mio corpo per me” a sottolineare il carattere di scambio bidirezionale).

Bisogna però fare attenzione: quello che ho chiamato socius primitivo, il pensiero selvaggio, quello che conservava l’incantamento del mondo, non sono società del dono. Società basate sul dono per di più disinteressato. Il dono non è mai disinteressato. Proprio per questo Derrida ne mette addirittura in discussione l’esistenza a partire dal fatto che se è interessato non sarebbe un dono. Il dono innesca invece una catena di coinvolgimenti, di relazioni tra creditorə e debitorə. È un ambito nel quale circolano abbondantemente flussi desideranti al contrario del mondo occidentale dove i flussi sono perennemente manipolati e deviati verso l’oggetto. Il primo è un mondo dove i flussi circolano tra i soggetti, il secondo è invece un mondo dove il desiderio è rivolto a un oggetto. Dono e debito non sono contrapposti. Nel socius primitivo il debito è alla base della relazione e il dono è il suo innesco. Innesca infatti i concatenamenti di reciprocità di cui ci ha parlato Mauss. Reciprocità è un termine che ben rende conto del fatto che si tratti di una relazione tra soggetti e non tra soggetti e oggetti. Un mondo dove l’oggetto del desiderio è un soggetto. Nel mondo occidentale, e nel capitalismo come sua espressione più attuale, il debito è invece un dispositivo di assoggettamento e l’assoggettamento è un modo per oggettivare chi lo subisce. La dinamica soggetto/oggetto non è immanente al desiderio, è una sua articolazione che favorisce i rapporti mercantili. L’affermare che il desiderio trovi il suo “oggetto” nel voler essere desiderati, lo spiazza: ci sono due soggetti e non un soggetto e un oggetto. È lo stesso ambito della dinamica “servo signore” nella Fenomenologia dello spirito di Hegel di cui abbiamo parlato sopra.

Riesumare il dono nei comportamenti che fanno riferimento al terzo settore, o alla cura è una falsità e una sua (del dono) perversione. Il dono, in quelle società che ne farebbero uso, in realtà non esiste nel senso che lo intendiamo oggi. Quello che chiamiamo dono è una cessione a credito, soltanto che il credito non è in sé una misura di qualcosa, di qualcosa di quantitativamente determinato, di oggettuale, è un rapporto di reciprocità che si è aperto. Anche la cura dell’altro non è una donazione, non è un atto di carità, ma una relazione fondamentalmente biunivoca. La cura è dovuta non certo per bontà o peggio ancora per ruolo. La cura è dovuta quando e in quanto è imposta. L’ambito semantico allargato del termine dono incontra tangenzialmente o ingloba parzialmente tutto un gruppo di termine. Come la charis, la grazia, la gratitudine, la grazia come amore divino; ma anche il debito il credito (vedi anche sopra).

Allegoria di Charis

“Così la “grazia” derivata dall’aggettivo latino gratus, rimanda in prima istanza ad indagare i suoi derivati più diretti, come “grato” ed “ingrato”. Grato è un termine ambivalente: è colui che testimonia riconoscenza, ma anche colui che è gradito. È questo un primo tassello del puzzle di concetti che girano e fondano la “grazia” stessa. Da queste prime accezioni non emerge comunque il senso religioso di “grazia”. Per ritrovarlo occorre che si faccia presente (che eserciti il proprio influsso) il termine greco kháris che vanta con “grazia” una parentela del tutto particolare. Benveniste (pp. 151-153) rintraccia le più antiche parentele dell’aggettivo gratus, “sanscrito: inno di lode da cui ‘dare lode, lodare’ poi: ‘elogio’. Qui funziona un primo spostamento (proprio dell’indoiranico) che porta ad ‘inno di grazia’, per ‘rendere grazie (a un dio). [..] La kháris greca ed i suoi derivati, comportano anche khará “gioia” e khaíro “rallegrarsi e rallegrare”. “Provare piacere”, “volere”, “far volere, incoraggiare”, “che ha voglia di”, “voglia”, “avere voglia, desiderare fortemente”. “‘Kháris’ valorizza la nozione di piacere, di godimento (anche fisico) […] Il latino gratiosus può significare ‘che prova riconoscenza’ e ‘che è fatto per far piacere, gratuitamente’ […] gratis […] vuol dire ‘senza pagare’.” [..] Anche il termine greco carisma (χάρισμα, “charisma”) deriva dal sostantivo χάρις, “cháris” (grazia) (Pierazzuoli, pp. 136-137)

Si può, in quest’ultimo caso, intuire le connessioni valoriali del termine che richiamano più degli elementi di prestigio che non elementi contabili. E il prestigio è legato ai corpi, ai soggetti. E tra i corpi corrono flussi di desideri che vanno nelle due direzioni. In questo ambito la cura non deve essere dovuta. Non si può assegnare un ruolo di cura. Ma di nuovo non è volontariato, non si tratta di un atto bonario, né di un atto dovuto. È una relazione biunivoca tra corpi. Certo, la connessione tra dono e grazia se da una parte passa per il concetto di carità, dall’altra instaura il concetto di un’aura che corrisponde all’atto della donazione, che viene acquisita da colui che dona. Colui che dona entra così nelle grazie non solo del ricevente ma più in generale nelle grazie di tutti. Certamente la considerazione che gli altri hanno di te è un plusvalore di codice che se non modifica il socius certo lo movimenta.

Il ruolo di cura che il capitalismo assegna al femminile non ha invece niente di naturale, è  un dispositivo di assoggettamento che lo lega al patriarcato. È anche un dispositivo di sfruttamento: il capitale si appropria gratuitamente (esso sì) del lavoro di riproduzione femminile. Intorno a questo stato di cose i legami tra la cura e l’alone valoriale di “bene”, agiscono per consolidarlo.

Ci sono due figure del femminile della mitologia greca che hanno a che fare più o meno direttamente con il desiderio. Esse si riferiscono più al piano umano che non a quello divino, figure forse semi divine (eroine) in quanto portatrici di un sapere e di una conoscenza non comune che rimandano a un passato prerazionale: Diotima e Medea. Sono figure di maghe o di sacerdotesse o di un insieme dei due aspetti, i quali d’altronde, in ambito arcaico, in un certo senso si sovrapponevano. E se su Diotima esiste una cospicua letteratura attuale di tipo critico e interpretativo, sulla seconda ci sono invece principalmente interpretazioni di tipo figurale e rappresentativo. Medea è una figura e un personaggio dell’eccesso. Una figura più da stigmatizzare che da capire. Medea è quella figura femminile che mette in discussione all’origine il tema della cura. Non a caso il numero 8 1/2022 di K. Revue trans-européenne de philosophie et arts interamente dedicato a Medea riporta questa titolazione: “Medea: la lacerazione della cura”. Medea è il punto di vista privilegiato del femminile.

Come sottolinea Eva Cantarella nell’intervista pubblicata sul medesimo numero di K. Revue, il mondo di Medea era senza nomos, senza legge sia essa scritta o soltanto una convenzione, non rispetta certamente quello della polis, ma nemmeno l’universo simbolico della legge. La condizione delle donne in Grecia era destinata solo e soltanto alla maternità. E Medea ha questo tratto caratteristico, quello di non rassegnarsi a nessun destino. Le sue scelte sono perfettamente coscienti, sono scelte in un certo senso razionali, frutto di un logos monopolizzato dai maschi:

«Medea infatti, possiede il logos, il ragionamento e la parola maschile, ed è capace di usarlo contro gli uomini» (in K. Revue). Medea è alterità pura. È l’alterità del femminile contro l’addomesticamento sociale di tutte le donne. Medea è soggetto di desiderio, ha un rapporto con il desiderio che la fa essere irriducibile: «perché passioni come le sue, incondizionate, non possono avere cittadinanza dentro la polis greca» (ivi). È un’alterità a partire dal fatto che pur nell’eccesso inaudito delle sue scelte, fa emergere il lato razionale delle stesse.

«A me non pare che nel suo modo di agire e nella gestione delle sue scelte si legga quella irrazionalità che di regola le si attribuisce, in particolare nella decisione di uccidere i figli. È piuttosto il lucido, freddissimo, ragionamento sulla sorte che li avrebbe aspettati se fossero sopravvissuti che la conduce a quella decisione. Non a caso nei suoi discorsi torna quasi ossessivamente la domanda sul loro eventuale futuro. Se verranno cacciati da Corinto: dove andranno? Cosa ne sarà di loro? Meglio che muoiano, è la risposta, anche se mai esplicitamente formulata» (ivi).

Attenzione, Medea non è un soggetto di raziocinio nel senso moderno del termine. È un soggetto che proviene da un fondo arcaico dove l’individuazione avvenniva a seguito di spinte e tensioni che agivano continuamente e quindi non è un soggetto individuale. In questo ambito l’agenzialità precipua del soggetto ha poco senso. Medea è un soggetto che pur essendo travolto dal thumos, dalla passione è capace di non mettere in discussione la sua alterità. In Medea è l’alterità stessa che agisce. Medea è così la figura iconica dell’alterità femminile. Irriducibile ad altro, e quindi ancor più irriducibile a un ruolo di cura. La cura in Medea è lo sfondo morale, il luogo di confronto che Medea continuamente trasgredisce.

«Punto di congelamento, la cui domanda insiste attraverso la travagliata fluidità delle nostre emozioni. Non parliamo qui di isteria o empatia. Nessuno si sogna di imitare Medea, non imitiamo l’evento, non lo anticipiamo, non lo viviamo per procura: esso produce il suo presente, ogni volta singolare, eppure ogni volta ripetuto. Nessuno sogna di consolare Medea, di circondarla di un affetto che ripara e riconcilia. Nessuno dovrebbe nemmeno osare affermare alcuna solidarietà con Medea. Lei non c’entra, non ci chiede più niente, non chiede più niente a nessuno. Lei è Medea» (da qui).

Pura alterità.
L’autocoscienza – ritornando all’inizio di questo brano – è frutto di un movimento, di questo rispecchiamento che si nutre della esistenza dell’altro. Non c’è soggetto senza l’altro da sé. La verità stessa è dialogica non soltanto perché occorre che sia condivisa, ma proprio perché ha bisogno dell’altro da sé per costituirsi, ha bisogno: «che il soggetto si modifichi, si trasformi, cambi posizione, divenga cioè, in una certa misura e fino a un certo punto, altro da sé, per avere il diritto di accedere alla verità. La verità è concessa al soggetto solo alla condizione che venga messo in gioco l’essere stesso del soggetto, poiché così come egli è, non è capace di verità» (Foucault, p. 17). Forse è in discussione lo stesso “come-egli-è”. Senza questo estraniamento il soggetto non può esistere, non può cioè essere portato alla coscienza. La verità non può essere immanente al soggetto, non c’è un soggetto astratto e individualizzato, non c’è una materialità pura del soggetto. Ed ecco che si ripresenta l’incontro con l’altro da sé che permette al soggetto di costituirsi.

Eros meccanico

Ma cosa succede quando si incontra un altro da sé, incapace di desiderare? Nel momento in cui i flussi di scambio sono pura informazione? Nel momento in cui la verità è determinata e proposta da un algoritmo che l’ha estratta statisticamente dall’analisi di una grande mole di dati? Il soggetto stesso vacilla. Certo, oggi come non mai, c’è bisogno di un decentramento, di un ridimensionamento del soggetto, di togliere al soggetto, quello umano in particolare, il monopolio delle agency. Ma oggi ci troviamo di fronte all’azzeramento del soggetto a partire dall’azzeramento del desiderio. Non rimane allora altro che un soggetto automatico, quel “soggetto” che sempre di più popola i social.
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Emile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol I, Einaudi, Torino 1976.
Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996
Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al college de France (1981-1982), Feltrinelli Milano 2003-2011
Judith Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2007
Judith Butler e Catherine Malabou, Che tu sia il mio corpo, Una lettura contemporanea della signoria e della servitù in Hegel, Mimesis, Milano-Udine 2017
Gilberto Pierazzuoli, Il lavoro è una cosa “seria”. Apologia della festa, ombre corte, Verona 2020
Tutte le immagini sono state generate da una AI su input di testo dell’autore

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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