Il potere generativo delle ombre. Seconda parte

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Qui la prima

L’orrore non deve essere scrutato ma solo rasentato nell’oscurità
Emily Dickinson

Nel parlare dell’orrore astratto o della fiction speculativa relativi alla raccolta di racconti di Claudio Kulesko, avevo fatto riferimento al concetto di Caosmo di Félix Guattari dove un processo di rallentamento diviene generativo. Ma questa generazione non è un evento originario che ha dato luogo al cosmo, non è il Big Bang, è un fenomeno che si ripete incessantemente. Dallo sfondo indistinto del mondo, infiniti agenti provocano l’emersione di cose che sono tali perché sottoposte allo sguardo. Parlo di sguardo perché l’esempio mi sembra più facile da capire, potrebbe essere qualsiasi altro senso, oltre alla vista, anche un senso extra-umano, un sensore, un recettore biologico o meccanico. Insomma, ogni oggetto è tale nella misura per la quale è percepito da un soggetto, che è soggetto proprio perché, nel continuo interagire con oggetti e altri soggetti, media all’infinito la possibilità di determinazione delle cose, in definitiva della realtà stessa.

“Il soggetto è semplicemente un punto di vista sulle cose, un punto di vista, una prospettiva o un certo ordine nella disposizione delle cose che è generato dalle cose stesse, dalle isole d’ordine, dalle forme che affiorano spontaneamente e oggettivamente dall’informe” (Tarizzo, p. XXXVII) [1].

Ma anche la condizione che distingue l’oggetto dal soggetto, è soltanto una fase di un processo che si ripete anche a parti invertite. Il processo di soggettivazione e quello di oggettivazione sono cioè le due facce dello stesso fenomeno che si può appunto manifestare anche a parti invertite. Sono soggetto in seguito alla mia relazione con un oggetto che così mi fonda divenendo così esso stesso un soggetto, un’entità agenziale. Senza il lavoro che la percezione esercita sul fondale, il potenziale percettore fluttuerebbe nel niente. Il soggetto è così sempre plurale; questo perché un’operazione di individuazione non condivisa lascerebbe letteralmente il tempo che trova. Questo processo generativo è quindi primariamente di tipo estetico e soltanto in seconda battuta può divenire etico.

Dallo sfondo indistinto, dal Caosmo originario, si estraggono così le infinte manifestazioni del reale che coincide con il percepito. Non c’è un’essenza originaria delle cose e se ci fosse la cosa non ci riguarda, proprio nel senso che non ci guarda; e non guardandoci ci rimane estranea, non mette in moto quella relazione – nessuna relazione – che ci fonda e che la fonderebbe. Dalla distesa liscia (ma nello stesso tempo ingarbugliata, una condizione ossimorica derivata da un pregiudizio tridimensionale) del Caosmo, l’emersione degli enti avviene allora per piegature, le pieghe di Leibniz che hanno contaminato il pensiero di Foucault e di Deleuze negli anni ottanta del secolo scorso. Non voglio qui dilungarmi su questo aspetto, lo segnalo per chi avesse voglia di farci un’escursione speculativa. Una speculazione che non è fine a sé stessa, come non lo è il preambolo qui sopra che mette in discussione e fa emergere, oltre agli enti, le contraddizioni di quell’antropo che, riservandosi il monopolio agenziale sulla natura, ha prodotto lo scempio attuale e le discriminazioni intraspecifiche che caratterizzano la fase attuale del Capitalocene.

Pieghe e invaginature, dunque, agiscono sulla distesa dell’indistinto originario. Il processo di piega, e quindi di individuazione, somiglia molto a quella operazione che fanno gli algoritmi di deep learning: confrontando una quantità di dati che non sono altro che un groviglio “indistinto” di zero e uno, cercando di trovare delle sequenze che possano costituire dei pattern riconoscitivi condivisibili dagli umani. Esplicativi in questo senso sono i captcha nei quali dovete individuare i riquadri dove compaiono, per esempio, semafori, biciclette o ponti. Questo perché “la macchina” in quell’immagine vede soltanto una lunga sequenza di pixel di differente colorazione. La macchina chiede allora a noi di segnalarle dove sono i pattern riconoscitivi tali che a noi umani (soggetti di relazione) rivelano e caratterizzano la percezione visiva di una bicicletta. In questo la macchina fa però un’operazione abbastanza coercitiva. Nel momento in cui essa acquisisce questa sapienza, la stabilizza interrompendo il processo dialogico che aveva generato quei pattern. Li congela e li impone. Se così non facesse si autoescluderebbe dal mondo, dal mondo popolato da macchine e umani e molto altro, per vivere un’esistenza macchinica ripiegata su sé stessa. Una vera e propria macchina celibe che non è semplicemente il paradosso metaforico attraverso il quale gli umani – alcuni umani come Duchamp o Roussel – hanno potuto mettere in discussione la visione deterministica degli eventi. Una macchina celibe così originaria che ricorda la velocità infinita pascaliana che caratterizzerebbe il caos primordiale. Per questo gli umani che hanno prodotto quella macchina, i padroni di quella macchina, la fanno girare in questo modo. Escludono il processo estetico che ha creato quei pattern riducendo il tutto a rapporti di produzione che presuppongono un’etica (sovra)umana centrata sul profitto. Qualcunə, a questo punto, potrebbe dire che sto facendo emergere anche qui la mia vena luddista, confondendo il mio anticapitalismo per luddismo gratuito. Basti pensare alla moda digitale del momento. Le immagini che illustrano questo articolo sono state prodotte da delle AI (intelligenze artificiali) o, più propriamente, da delle reti neurali che hanno reagito a una interrogazione (query o prompt) consistente in una stringa alfanumerica, una frase, si parla infatti di “Text to AI” (googlate questa locuzione per trovarvi di fronte a un universo sbalorditivo). Cosa fanno queste reti neurali? Dove aver avuto in pasto quantità enormi di immagini più o meno etichettate (il lavoro di etichettatura è svolto da lavoratori a cottimo sottopagati, i cosiddetti schiavi del clic), cercano delle relazioni costruendosi dei pattern riconoscitivi da confrontare con la stringa che costituisce il prompt in input. Attraverso questo processo generano ex novo un’immagine che corrisponda statisticamente alla richiesta scritta dall’utente. Sembrerebbe un processo creativo che aumenta considerevolmente il patrimonio visivo ed estetico dell’umanità e dei suoi partner. Ma non è così: sono soltanto variazioni del medesimo che tenderanno, invece che alla proliferazione delle immagini e dello immaginario, a una standardizzazione intorno a categorie che, seppur numerose, non sono altro che una ripetizione del medesimo. Niente di male, sembrerebbe, si tratta di uno spostamento della centralità visuale a quella scritturale. Dico scritturale e non discorsiva per un fondato motivo: la scrittura cristallizza il discorso, lo sottrae alla sua vocazione dialogica; fissa una volta per tutte la legge; trasforma il riferimento consuetudinario (il nomos) in legge scritta. La Macchina toglie il pennello agli artisti per consegnarlo in mano ai critici: ai fondatori delle categorie visive, ai normalizzatori di quelle categorie. Ma così non potrà nascere una tecnica nuova. Nessuna spinta etica e quindi politica potrà provocare una rivoluzione visuale. Nessuna AI, seppur guidata da una stringa prodotta dagli umani, inventerà la touche divisée! Adesso puoi chiedere alla rete neurale di produrre un’immagine con un vortice di colori sullo stile di Van Gogh, ma se Van Gogh non l’avesse già utilizzato e se quella tecnica non fosse diventata famosa, con il cavolo che la AI tela avrebbe proposta. Non puoi “spiegare” all’algoritmo di fare finta di usare un pennello così o così, se così non fosse già stato fatto. L’algoritmo non capisce le tue spiegazioni, l’algoritmo non capisce nulla, macina numeri producendo statistiche sulle ricorrenze. L’algoritmo non è intelligente, è soltanto calcolante. L’algoritmo setaccia i dati alla ricerca di quelle ricorrenze in maniera apparentemente simile alla capacità autopoietica dei soggetti pensanti:

“Tra il pensiero e il caos c’è sempre un filtro, c’è come un «setaccio», che non è un a priori del pensiero, ma quella certa prospettiva, quel certo punto di vista sulle cose da cui il pensiero stesso affiora. Ragion per cui, il pensiero non accede mai direttamente al puro caos, ma solo a singole effrazioni del suo punto di vista: eventi, casi, singolarità che fuoriescono dal caos, «pur differendone assai poco» come lo stesso Deleuze sottolinea” (ivi, p. XXXIX)

Ma il setaccio è allora qualcosa che ha a che fare con la relazione, è di nuovo un’estetica e un’etica: non è numerico e tanto meno statistico.

Il valore rivoluzionario di Caravaggio ha consistito anche nel suo uso della luce e delle ombre: Le figure si staccano così dallo sfondo in maniera perentoria. Sembrano avere la capacità di staccarsi dalla tela. La luminosità è così esaltata dalle ombre. Attraverso le ombre le figure risaltano, ti si mostrano. La distesa infinita dell’indistinto si piega e genera cose e ombre. Ad ogni piega corrisponde un’ombra. Non è dallo scontornamento luminoso che le cose prendono “vita”. Esse sono raccontate dalle ombre, dalle pieghe. Strana cosa le ombre. Senza di esse non ci sarebbe nessuna realtà, nessuna emersione dalla distesa infinita del caos. Le ombre scontornano la realtà, in un certo senso, la producono, così come l’oblio permette di memorizzare le cose. Le ombre rivelano. Ma anche trattengono il non rivelato, il non già visto. Anche l’algoritmo, in realtà, produce ombre. Un’enorme massa di dati che non è riuscito a far coagulare in una risposta alle interrogazioni, perché insignificanti dal punto di vista della massimizzazione del profitto che regola la routine maestra e padre (despota) dell’elaborazione, assoggettata al modello capitalista del mondo. Quante cose saranno custodite in queste ombre?!

C’è un caso nel quale il conteggio statistico che individua una ricorsività si camuffa da ombra: l’assassino seriale. L’ignoto è angosciante perché può contenere sia il bene che il male. Ma questo, normalmente, non costituisce un ostacolo se non per il paranoico. Ma quando in una certa area agisce un assassino seriale, la probabilità che si nasconda in questa ombra, in questa ombra qui, quella che mi è davanti o intorno, ammantano l’ombra di un’aura orrifica.

“Il sentire che il mondo che abitiamo è un mondo condiviso è un tratto fondamentale dell’esperienza degli altri e di ciò che chiamiamo empatia. Il mondo non è qualcosa che sta di fronte a noi, un palcoscenico pronto in cui noi agiamo, ma è la rete di senso in cui siamo dal momento in cui possiamo dire ‘io’; rete che, allo stesso tempo, ci struttura e viene strutturata dall’interazione”.

Ci sono molte teorie dell’empatia:

“Alcune trattano il comprendere l’altro come un’operazione teorica di inferenze. Questo significa che lo stato mentale dell’altro viene visto come un’entità a cui non abbiamo accesso diretto, ma che possiamo postulare dalle informazioni che osserviamo nel comportamento”[2] (Sauza, pp. 54-55).

Ma per quanto riguarda i comportamenti criminali, comportamenti desueti per definizione, l’empatia non funziona. E molti serial killer sanno che la loro esperienza esplora mondi sconosciuti: “Io sono al di là della vostra esperienza”, dichiara Richard Ramirez. Che l’ombra possa contenere una minaccia è che questa si muova nell’ombra di una empatia impossibile, è una dimensione con la quale si è costretti a fare i conti. È un enorme potenziale destabilizzante.

Ci si muove in un territorio dove opera il riconoscimento e quindi il desiderio:

“L’uomo si costituisce e si rivela – a sé e agli altri – come un io nel momento in cui desidera essere riconosciuto e viene riconosciuto all’interno dello spazio sociale, diventando a sua volta oggetto di desiderio” (Sauza, p. 76)

Ma quale può essere lo scambio desiderante con un assassino seriale? Si tratta di un rapporto troppo sbilanciato verso il suo punto di vista. Il nostro incontro soddisfa solamente i suoi desideri; questo se non vogliamo giocare con la pulsione di morte che mi è stata sempre antipatica ma che forse sarebbe però possibile scomodare quando cerchiamo di capire il fascino esercitato sull’opinione pubblica dai serial killer. L’esposizione allo sguardo dell’altro rivela adesso soltanto la nostra vulnerabilità. Sino a che il serial killer sarà a piede libero deposita nel mondo, in quella fetta di mondo dove si muove, il fatto che l’esistenza è in pericolo. Lo sguardo del mondo, dell’Altro, su di te, uno sguardo che viene dall’ombra che la mancata empatia costruisce, ci impedisce di trovare casa nel mondo. Al mondo non c’è posto per “la nostra casa”.

“Lo sguardo dal fuori, incarnato dallo sguardo di un omicida seriale amplificato dal medium tecnologico, ci espone a questa contingenza, fa emergere la vulnerabilità che ci costituisce e che costituisce il nostro orizzonte d’esperienza, opera cioè come una destituzione trasformativa di ciò che siamo” (Sauza, p. 90).

Spesso le vittime predefinite dei serial killer sono donne che in qualche modo disertano i comportamenti a loro assegnati dall’apparato patriarcale. Qui, l’assassino seriale rafforza lo sguardo maschile che plasma la sudditanza femminile. E qui si innesta il rovesciamento dei ruoli che porta ad inquisire le vittime e non il serial killer: “Se la sono cercata!” recita il refrain. Oppure l’altro che mette in discussione le sicurezze che hai costruito intorno alla tua identità: è il diverso, il queer, l’omosessuale, l’uomo nero, o meglio: il non umano che è il nero. Si realizza allora la complicità sociale tra il serial killer e il potere.

È l’ombra che ti espone allo sguardo eccessivo dell’altro. C’è infatti un lato umano e uno inumano del desiderio, e quest’ultimo, è quel flusso pulsionale slegato da ogni funzionalità sociale, qualcosa di solamente estetico e non etico. Qualcosa che non ha a che vedere con la riproduzione, sia nel senso della cura che nel senso della sessualità. È quando il desiderio decostruisce le condensazioni identitarie. Qualcosa che ha a che fare con il racconto di Medea, una storia dove il mito di Medea mette in chiaro senza mezzi termini che il desiderio e la cura sono politicamente incompatibili. “Si può naturalmente desiderare, a livello personale, di essere curati (è un desiderio molto comune) ed è possibile desiderare di curare (anche se è un genere di desiderio assai meno diffuso, soprattutto sul lungo periodo), ma è folle pretendere di attribuire un desiderio del genere a una qualsiasi forma di collettività. […]. Medea è la prima voce nella letteratura che si leva per fare piazza pulita dell’associazione “naturale” tra donna e cura” (Lucia Tozzi)[3]. E, aggiunge Isabelle Stengers nello stesso numero della rivista dedicato alla figura di Medea:[4]

“Non parliamo qui di isteria o empatia. Nessuno si sogna di imitare Medea, non imitiamo l’evento, non lo anticipiamo, non lo viviamo per procura: esso produce il suo presente, ogni volta singolare, eppure ogni volta ripetuto. Nessuno sogna di consolare Medea, di circondarla di un affetto che ripara e riconcilia. Nessuno dovrebbe nemmeno osare affermare alcuna solidarietà con Medea. Lei non c’entra, non ci chiede più niente, non chiede più niente a nessuno. Lei è Medea”.

Men, il film di Alex Garland, realizza il terrore al quale devi essere sottoposta ogni qualvolta non corrispondi allo sguardo, del maschio. È un catalogo perfetto del come dovresti essere. La serialità dell’omicida è allora tutta nella moltiplicazione dei possibili killer. Ogni discostamento dal canone patriarcale ti fa essere infatti esposta allo sguardo dell’assassino seriale, ogni uomo, il men del titolo, è candidato a essere il tuo assassino. Qui l’ombra è la quotidianità, è tutto quello che c’è alla luce del sole. L’esposizione allo sguardo dell’altro è un potente dispositivo del consenso. Più l’altro è altro, più il suo sguardo è minaccioso, o imbarazzante. Derrida ci racconta la sua sensazione nell’essere esposto quando nudo, in casa sua incontra lo sguardo del gatto che lo guarda.

Medea

“Lo sguardo d’altri forma il mio corpo nella sua nudità, lo fa nascere, lo scolpisce, lo produce, come è, lo vede come io non lo vedrò mai. L’altro possiede un segreto: il segreto di ciò che io sono […] Così il senso profondo del mio essere è fuori di me, imprigionato in un’assenza”. Dice Sartre (citato da Sauza, p. 86).

Lo sguardo dell’altro, monta e smonta mondi. Produce pieghe (e quindi ombre) e svelamenti. Pli e depli in francese: pieghe e spiegazioni. Uno strutturale essere esposti allo sguardo dell’Altro che ci costituisce a partire dall’ombra che proietta la nostra vulnerabilità.

“Nel momento in cui lo sguardo del serial killer restituisce l’esperienza di crisi di senso che abbiamo definito perdita del mondo, la soggettività, attraverso la ferita e lo smarrimento, dà vita a una nuova genesi di sé; assorbe il negativo in un processo di produzione continua di se stessa” (Sauza, p. 103).

Tutte le immagini sono state realizzate da due diverse reti neurali con diversi livelli di risoluzione su prompt dell’autore.

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  1. Davide Tarizzo, La metafisica del caos, in Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino 1990.
  2. Simone Sauza, Tutto era cenere. Sull’uccidere seriale, Nottetempo, Milano 2022.
  3. Lucia Tozzi, L’ordine dei discorsi, in Medea e la lacerazione della cura, n. 8 di “K. Revue”.
  4. Isabelle Stengers, Ricordati che io sono Medea. Medea nunc sum, K. Trans-European Journal of Philosophy and Arts, 8 – 1 / 2022, pp. 147-151.
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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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