Ricordati che io sono Medea. Medea nunc sum

  • Tempo di lettura:10minuti
image_pdfimage_print

Questo testo è stato scritto da Isabelle Stengers in occasione del programma “Médée” di Marc-Antoine Charpentier all’Opéra du Rhin nel maggio 1993 e pubblicato in volume in “Les empêcheurs de penser en rond”, Synthélabo, Paris, 1993 – Ripubblicato poi da: K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 8 – 1 / 2022, pp. 147-151

Questa la traduzione di Gilberto Pierazzuoli:

Isabelle Stengers

Ricorda che io sono Medea – Medea nunc sum

Né Hegel né Freud né Lacan né alcun altro creatore di sistemi ha osato impadronirsi di Medea per illustrare una delle sue tesi. Euripide, Seneca, Pierre Corneille, poi suo fratello Thomas, autore di libretto dell’opera di Charpentier, altri ancora le si si sono avvicinati, ma è lei che li afferra, impone loro il suo enigma, la spaventosa sfida di una donna che uccide i suoi figli e non muore.

Lo stesso Euripide subì l’enigma di Medea. La sua storia è nota, non può alterarla. Erodoto, un suo contemporaneo, racconta addirittura che Medea, fuggendo da Atene, si rifugiò in Asia Minore, nella regione i cui abitanti ora portano il nome di Medi. La donna che commise l’omicidio più raccapricciante non solo sopravvisse, ma divenne la “madre” di un popolo glorioso, prima rivale, poi alleato sottomesso ma onorato dell’impero persiano. Ed è proprio un’eroina quella che Euripide crea, una donna capace di esitare, poi di accusarsi senza prendere le distanze dal proprio delitto, “Vergogna della mia codardia”, capace di vibrare di dolore fino alle più piccole fibre, ma anche di dire “Piangerai dopo!”. La Medea di Seneca è molto più vicino a qualsiasi immagine di una donna pazza e furiosa, ma ha questa strana parola, che fa esitare il senso, “Medea nunc sum”.

“Ricordati che io sono Medea”, risponde, attraverso i secoli, la Medea di Charpentier all’ “Ora io sono Medea” di Seneca. Come se ogni autore, qualunque cosa voglia fare di Medea, potesse solo ripetere ciò che Medea stessa si costringe a essere. “Essere Medea” è molto più di un destino, o forse lo è essere l’esatto contrario di un destino, che subiamo, che a volte cerchiamo di assumere in modo esemplare. Il dover “essere Medea” è all’ordine del giorno. Potrebbe Medea, in qualsiasi momento, fuggire da Corinto sul drago alato che vola sopra il palazzo in fiamme? Oppure questo drago, che all’improvviso segnala la sua quasi divinità, è il segno di ciò che Medea, la donna, ha spogliato – spaventosamente scorticato – i legami umani che la intessono, e divenne colei che aveva dimenticato, la donna tradita per diventare greca e femmina, è diventare questa verità che ha il suo nome, Medea?

Medea sarebbe morta di disperazione se non fosse diventata Medea, se non avesse trovato, nel momento dell’umiliazione più grande che una donna possa conoscere, l’accesso a ciò che in lei era stato negato per fare esistere una donna amorevole e leale. Chi sarà così stupido da chiamare Medea gelosa! Gelosa di una giovane principessa ignorante e vanitosa? Gelosa di un uomo codardo e senza spina dorsale, bugiardo e vanitoso? In nessun momento, Medea invidia a Creusa il suo misero trofeo. È in gioco il senso della sua vita, non il possesso di un Giasone. E vendetta è una parola molto povera per designare il suo atto. Se Medea si fosse vendicata, come noi comuni mortali, avrebbe pagato il prezzo della sua vendetta. Ha fatto un contratto con l’umanità e il contratto è stato rotto. “Piangi per sempre per i mali che la tua fiamma ha causato”, dice a Giasone alla fine dell’opera di Charpentier. E nessuno le dà la risposta che ristabilirebbe l’ordine morale, nessuno è lì a confortare Giasone o, almeno, ad annunciare che l’assassino sarà perseguitato dal rimorso. Giasone è punito, Medea resta impunita. Giasone credeva che il suo potere maschile avesse trasformato la maga in una donna, che può essere ingannata e abbandonata. Ha sbagliato e ha creato il calvario attraverso il quale l’Altra, quella che si era negata per amore, ha riacquistato il potere di esistere.

Piuttosto che vendetta, forse dovremmo introdurre questo ricco termine greco, “panico”. Quando Medea capisce che Giasone sta per lasciarla, che la loro dolorosa storia criminale sta per essere cancellata senza lasciare traccia se non quelle, intollerabili, nella sua stessa memoria, un vero e proprio panico la invade. “Non è possibile! “. “Che prezzo per il mio amore! Quale frutto dei miei delitti!” canta la Medea di Charpentier. Questi crimini, per lei, erano come legami gloriosi che proclamavano un amore commisurato al suo essere. E all’improvviso il mondo si svuota, la memoria diventa nemica, beffarda, oscena. Medea, la donna, sa che morirà se non fa appello all’Altro. “Per chi cerca la mia morte, posso essere barbaro”. Di fronte al panico, bisogna poter rispondere, non mediocremente, colpo su colpo, ma ricreare un altro mondo, sproporzionato rispetto a quello che manca. “Essere barbaro”. “Essere Medea”. Il panico, presso i greci, non designa uno stato psicologico ma un momento mitico. Il dio Pan, maestro del “panico”, è colui attraverso il quale l’ordine sociale può crollare, una comunità pacifica trasformarsi in un’orda barbara e disumana. All’improvviso tutto cambia come se ciò che creava un legame tra gli umani si rivelasse all’improvviso capace di dar vita a un collettivo completamente diverso, di generare ciò che l’ordine sociale sembrava, per sua natura, escludere[1]. L’attacco di panico sarebbe quindi una sorta di transizione di fase, come tra liquido e cristallo, un cambio di identità. La crisi di Medea, quando esita, quando dubita, quando si sente morire, è forse di questo ordine. E la soluzione che lei inventa, “Essere Medea”, spezza i legami che la condannano e creano un mondo dove nessuno può compatirla o pensare di “perdonarla”, la crea come un enigma che tutti, Giasone in primis, dovranno prendere in considerazione.

Nel senso che non è più “una di noi”, per negoziare, analizzare, interpretare, ma dove l’Altro che è diventata ci costituisce noi stessi, atterriti, in poli di riflessione, ritornando di secolo in secolo, come un raggio di luce – impassibile per le diffrazioni causate dagli ambienti che attraversa -, la domanda: che cosa è divenuta?

Medea è un’eroina, ma non ha nulla di esemplare. Non è greca, non è una di noi, umani civilizzati. Attraverso Erodoto, attraverso Euripide, è, memoria o ossessione, un altro mondo che insiste, un mondo forse barbaro, ma formidabile, un mondo in cui gli stessi Dei seguono altre leggi. Medea si definisce una discendente del Sole ed è, nell’Opera di Charpentier, l’abito che prende dal Sole, suo nonno, che Giasone osa chiederle perché ha suscitato l’invidia dell’egoista e troppo umana Creusa. Le figlie nere dello Stige gli devono obbedienza. Le furiose Eumenidi che inseguirono Oreste, chiedendo giustizia del matricidio, nulla possono contro di lei. L’inferno gli è sottomesso e il paradiso gli è aperto. Con la tragedia di Euripide, la città greca celebra una strana esteriorità, minacciosa, sfuggente, Che esteriorità è allora? Cosa significa Medea? Per alcuni, ci sono prove storiche di un mondo dimenticato. Un mondo “matriarcale” che i greci achei distrussero ma ancora temono. Un mondo dove regnavano le donne, sacerdotesse di una temibile Dea, Madre e Morte allo stesso tempo. Medea tradì la sua patria, la Colchide, consegnando a Giasone il vello d’oro, uccise il fratello minore di cui disperse le membra in mare per rallentare gli inseguitori. Ma ora è il momento in cui forse avverrà il più grande, l’unico vero tradimento, il momento in cui potremo compatirla, dire che per Giasone non è mai stata altro che un trofeo, segno del trionfo di Afrodite la Greca sulla Madre arcaica. Lo afferma il Giasone di Euripide: “Ti dispiacerebbe ammettere che l’amore ti ha costretto, che non potevi parare le sue frecce, e per questo mi hai salvato”. Questo è il momento più difficile, quello in cui la storia è in sospeso. Medea, donna semplice, schiava d’amore? Ma quando Medea diventa Medea, l’ordine divino dei Greci crolla. Il Sole non è più Apollo, è legato alla morte, la sorgente luminosa della vita si afferma improvvisamente tutt’uno con le tenebre infernali. E le leggi della colpa, del rimorso e della giustizia si sgretolano. In un solo atto, Medea, infanticida, viene scagionata dal suo tradimento. Diventa di nuovo Madre, riscopre la sovranità a cui ha rinunciato per diventare greca.

Si tratta della memoria, oppure dell’espressione per eccellenza della paura dell’uomo di fronte alla donna, alla madre? Madre divorante che deve, a tutti i costi, sottostare ai vincoli dell’amore coniugale e della rispettabile maternità. Per i freudiani, Medea appartiene all’ordine della fantasia, perché sanno benissimo che la donna non è così, che chiede sottomissione, che chiede all’uomo ciò di cui la nascita l’ha irrimediabilmente privata. La paura, l’odio della donna onnipotente, castrante, che lega la vita alla morte, in nome della quale tante streghe sono state uccise, non designa le donne in quanto tali, ma l’enigma che insegue il piccolo maschio, aggrappato disperatamente ai simboli di la sua differenza. Pertanto l’enigma di Medea non appartiene solo ai maschi. Segnala anche alle donne che vibrano al suo panico, ai suoi ululati di rivolta, che riconoscono bene, troppo bene, cosa può essere la codardia dell’uomo che improvvisamente dimentica. Forse è questa verità, che offusca le carte del fantasma, che ha fatto arretrare Freud ei suoi successori. Medea parla troppo alle donne per essere immobilizzata in un’interpretazione viennese. Dà luogo a una possibilità troppo presente, quella forse di questo “continente oscuro” che lo stesso Freud non poteva fare a meno di riconoscere, come per sbaglio, quando tutta la sua teoria sembrava garantire la somiglianza della donna con il rispettoso nativo che desidera la legge dell’uomo bianco, la sottomissione alla sua impronta civilizzatrice. L’enigma di Medea persiste, attraversa la psicoanalisi, che non lo risolve. Di quale conoscenza testimonia allora Medea? Perché, tra tutte le eroine tragiche, il suo dolore, la sua rabbia, il suo panico hanno echi così attuali, che attraversano i millenni che ci separano dal mondo greco? Perché, soprattutto, il suo atto orrendo ci è immediatamente comprensibile, come se la risorsa da cui attinge, l’Altra Medea impassibile e terribile che fa rivivere dove una volta c’era una donna, la conoscessimo segretamente, sapessimo chi è? Come se suscitasse un’eco, creasse in noi un riflesso che ne ripete l’enigma. L’enigma riguarda meno l’atto che il divenire a cui questo atto dà origine. Dovremmo forse osare pensare che Medea congelata, purificata, slegata, “impersonale e riflessiva, sentimentale e soprasensuale”, fosse diventata l’Altra, non avesse più odio per Giasone, quella “che non ci odia, nella morte, ma che ci tende sempre questo triplice volto freddo, materno, severo”. Le parole precedenti non sono state create per raccontare l’enigma di Médée, sono quelle di Gilles Deleuze quando presenta l’ideale masochistico, “fredda alleanza di sentimentalismo e crudeltà femminile, che fanno riflettere il maschio”. Riflettere, nel senso che non si tratta di darsi un oggetto di riflessione, come Cartesio afferra un pezzo di cera per rifletterne l’identità, ma dove si improvvisa una riflessione, dove risuona un enigma, che, freddo, fa di voi il suo specchio. Ricorda che io sono Medea.

Medea non è una donna mediterranea, è una donna venuta dall’oriente e che, secondo Erodoto, tornerà in oriente, verso quei popoli che si possono immaginare ancora nomadi, gli unici dove ora la vedo dal vivo, così come è diventata, “Medea”. Ed è anche lì, verso una steppa insieme vera, mitica e presente, segretamente, in noi, che Deleuze si rivolge per far esistere la figura ideale e crudele della carnefice che si individua nel masochismo. “Nell’identità della steppa, del mare e della madre, si tratta sempre di far sentire alle persone che la steppa è sia ciò che seppellisce il mondo greco della sensualità, sia ciò che respinge il mondo moderno del sadismo, come un potere rinfrescante che trasforma il desiderio e trasmuta la crudeltà. Questo è il messianismo, l’idealismo della steppa. Non crederemo che la crudeltà dell’ideale masochistico sia inferiore alla crudeltà primitiva o alla crudeltà sadica, inferiore alla crudeltà del capriccio [quella di Creusa e di Giasone?] o alla crudeltà della malvagità… Ciò che definisce il masochismo e il suo teatro è piuttosto la singolarità della crudeltà nella donna carnefice: questa crudeltà dell’Ideale, questo punto specifico di congelamento e di idealizzazione.[2]

Punto di congelamento, la cui domanda insiste attraverso la travagliata fluidità delle nostre emozioni. Non parliamo qui di isteria o empatia. Nessuno si sogna di imitare Medea, non imitiamo l’evento, non lo anticipiamo, non lo viviamo per procura: esso produce il suo presente, ogni volta singolare, eppure ogni volta ripetuto. Nessuno sogna di consolare Medea, di circondarla di un affetto che ripara e riconcilia. Nessuno dovrebbe nemmeno osare affermare alcuna solidarietà con Medea. Lei non c’entra, non ci chiede più niente, non chiede più niente a nessuno. Lei è Medea.

Le immagini di questo articolo sono state prodotte con una rete neurale su prompt del traduttore.
___________________________

  1. Vedi su questo argomento, Jean-Pierre Dupuy, La Panique, coll. «Les empêcheurs de penser en rond», Les Laboratoires, Delagrange, 1991
  2. Gilles Deleuze, Présentation de Sache Masoch, Paris, Minuit, 1967, p. 49. Trad. it. Id. Presentazione di Sacher Masoch, Bompiani, Milano 1978
The following two tabs change content below.

Isabelle Stengers

Isabelle Stengers è una filosofa. Scienziata di formazione (fisica e chimica), insegna filosofia della scienza all'Université libre de Bruxelles. È membro del comitato di orientamento della rivista di ecologia politica, Cosmopolitiques. Nel 1990, con Philippe Pignarre, ha creato la casa editrice Les Empêcheurs de penser en rond. Già collaboratrice del premio Nobel per la chimica 1977 Ilya Prigogine, è direttore del Dipartimento di studi costruttivisti all'Université Libre de Bruxelles. Utilizzando una prospettiva interdisciplinare, sul terreno della filosofia e della storia della scienza ha analizzato la natura delle pratiche scientifiche mirando a conciliare la dimensione oggettiva della verità con la sua intrinseca dimensione sociale. In Italia sono stati tradotti: Medici e stregoni, con Tobie Nathan, Bollati Boringhieri; La nuova alleanza con Ilya Prigogine, Einaudi; Tra il tempo e l’eternità sempre con Prigogine, Bollati Boringhieri; Cosmopolitiche, Luca Sossella; Le politiche della ragione, Laterza; Stregoneria capitalista – Pratiche di uscita dal sortilegio, Ipoc; Scienze e poteri: bisogna averne paura?, Bollati Boringhieri.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Captcha *