Alessandro Sarti al Viesseux su “Differential heterogenesis. Mutant Forms, Sensitive Bodies”

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Invece di un estratto di un libro, peraltro molto interessante, che il filosofo e matematico Alessandro Sarti ha scritto insieme a Giovanna Citti e David Piotrowski: Differential Heterogenesis. Mutant Forms, Sensitive Bodies, pubblichiamo qui la trascrizione – riveduta e corretta dallo stesso Sarti – del suo intervento nell’occasione di un incontro che il gruppo Quinto Alto ha organizzato al Gabinetto Vieusseux. Pensiamo infatti che una sintesi di questo tipo sia più preziosa di una piccola parte di un testo in lingua inglese. L’argomento poi non ha un’astrattezza speculativa tutta interna all’accademia, ma è anche di fondamentale importanza per indagare le forme di individuazione dell’umano (e non solo) sia dal punto di vista di un ridimensionamento della dannosa visione antropocentrica, sia per fare emergere le infinite trame relazionali che invece innervano l’ambiente. Un’operazione forse indispensabile anche per ripensare la soggettività politica contemporanea.

Alessandro Sarti è un matematico ed epistemologo, Direttore di Ricerca all’EHESS di Parigi. Si occupa di emergenza e mutazione delle forme nell’ambito delle scienze cognitive e delle scienze del vivente. È interessato soprattutto all’eterogeneità delle condizioni di generazione delle forme e di quei processi che vanno sotto il nome di eterogenesi differenziale capaci di produrre dinamiche immaginative, indeterminate e della mutazione. Dirige il seminario “Dynamiques post-structurelles” all’EHESS e il seminario “Neuromathématiques” al Collège de France. È tra i fondatori e membro del gruppo di matematici eterodossi Cardano ed editor in chief della collana di libri Springer Lecture Notes in Morphogenesis.

Incontro del 13 marzo

Oggi ci occuperemo di forme, del divenire di forme, dal punto di vista di una certa matematica e di una certa filosofia post-strutturale francese degli anni ’70-80, pensiamo a Simondon, Deleuze, Deleuze e Guattari. Questo incontro tra matematica e filosofia avviene perché, sia nella matematica, sia nella filosofia si comincia a pensare alle forme come a delle morfogenesi, cioè alle forme nella loro dimensione generativa, nel loro divenire. Simondon è il primo che comincia a dire, bene, le forme che divengono, divengono perché c’è un passaggio da un piano intensivo all’espressione di questo piano alle forme estese nello spazio e nel tempo. È l’idea, per niente banale anche oggi, che esista un piano di forze, un piano che Simondon chiama preindividuale, la cui espressione dà luogo alle varie forme. Simondon dice che l’individuo non esiste, l’individuo è un processo, un processo di individuazione mai finito, che significa che è un passaggio continuo da questo piano preindividuale che si trasforma nelle forme, appunto, estese. E Deleuze fa un’operazione simile, perché rilegge Simondon, rilegge questa idea simondoniana del divenire delle forme, riprende questa idea di piano intensivo che si esprime nelle forme estese, ma a questo piano dà il nome di virtuale, virtuale che si attualizza per dare luogo ai fenomeni estesi nello spazio e nel tempo. Qui c’è un’attualizzazione del virtuale. Ecco però che, a differenza di Simondon, per Deleuze, questo passaggio assume le dimensioni di un problema, un vero e proprio problema da risolvere. E quindi lui riprende il calcolo differenziale di Leibniz e dice, bene il problema del divenire delle forme non è altro che l’integrazione di una costellazione di differenziali.

Quindi il piano intensivo per Deleuze diventa una costellazione di differenziali e la trasformazione dal virtuale all’attuale, cioè l’attualizzazione, diventa l’integrazione di questi differenziali. Ecco il termine chiave: differenziale. Cosa vuol dire differenziale? Non è semplice definirlo. Il differenziale è un rapporto di differenze, un rapporto di differenze che al limite vanno a zero, ma la cosa straordinaria è che, benché queste differenze nel loro rapporto vadano a 0, il rapporto non va a 0.

Quindi quando tutto va a zero. il rapporto, al limite, non scompare, quindi tende verso qualcosa che è qualcosa di eccezionale è qualcosa di straordinario sia a livello matematico che a livello filosofico, perché si tratta di una grandezza intensiva.

Questo è la nascita di una grandezza intensiva e a questo proposito, nelle sue lezioni, nei suoi corsi a Paris 8 nei primi anni 80, Deleuze definisce il differenziale così. Cito:

“Queste quantità intensive sono espresse, definite unicamente dalla loro distanza da zero. Pertanto è del tutto normale che se le essenze sono quantità intensive, siano espresse in relazioni differenziali, poiché la quantità intensiva è inseparabile da una definizione rispetto allo zero, e che la relazione differenziale è proprio quella.”

E lui chiude questa sua definizione di differenziale dicendo, “a questo punto tutto diventa luminoso. “. A questo punto una volta che abbiamo capito come si forma una grandezza intensiva, tutto si spiega, abbiamo capito qual è l’idea di emergenza delle forme, appunto come integrazione di quantità intensive.

Siamo proprio di fronte all’idea che ogni morfologia, ogni forma che si percepisce non è altro che l’attualizzazione, l’integrazione di un differenziale. Questa cosa lancia, diciamo così un ponte verso le scienze fisiche, verso le scienze naturali dove il divenire delle forme è pensato proprio come un piano di forze che viene integrato, che dà luogo alle forme che evolvono. Questa è l’idea del divenire delle forme nelle scienze naturali a partire da Leibniz, a partire da Newton. Ma, a partire dalla metà degli anni ’50 con Alan Turing, quest’idea non si riferisce più solo alla fisica, ma si riferisce anche alle forme viventi, alla biologia, al divenire del vivente. Quindi, diciamo, il differenziale davvero è il linguaggio della fisica e del divenire delle forme naturali, e a partire dagli anni 50 in poi, anche delle forme del vivente. Ecco, questa è la congiuntura che ci interessa indagare tra filosofia intensiva e matematica contemporanea.

Sia la filosofia a questo punto, sia le matematiche cominciano a pensare il divenire in modo molto simile. Turing scrive Il primo articolo sulla morfogenesi nel 1952. In questo articolo lui scopre come fanno le forme a emergere da un substrato omogeneo. C’è un substrato assolutamente omogeneo, eppure, dopo la perdita di stabilità di questo substrato, possono emergere delle forme. Turing fa vedere come emergono per esempio, i pattern sulla pelle degli animali, i pois nel leopardo, le strisce della zebra etc. E se guardiamo le sue simulazioni, (lui ha utilizzato il suo computer che aveva appena scoperto per fare delle simulazioni molto semplici, molto rudimentali) , vediamo delle forme che evolvono nello spazio e nel tempo.

Vediamo forme quasi amorfe, astratte, forme che si muovono continuamente, che sono quasi vicino al caos, ma la cosa che ci interessa notare è che sotto queste forme c’è sempre una legge, c’è sempre un differenziale che è fissato. Questo è il punto importante. C’è sempre una legge che genera queste forme sebbene che variano nel tempo, sembrano assolutamente anarchiche, sembra che vadano per conto loro, al limite del caos, eppure c’è una legge dinamica sottostante. Ecco questa idea di morfogenesi alla Turing, che è quella della fisica-matematica, che permette di pensare all’emergenza delle forme del biologico, sebbene sia stata un’invenzione, una scoperta straordinaria, la possiamo guardare oggi da un punto di vista critico.

Perché in queste forme, in questo divenire dal differenziale alla sua attualizzazione, il differenziale che detta la dinamica è omogeneo nello spazio e nel tempo, cioè è invariante.

Si tratta di una legge, come le leggi della fisica, come le equazioni di Schrodinger nella meccanica quantistica, le equazioni della relatività generale di Einstein, eccetera. Quindi abbiamo delle leggi universali e, rispetto all’idea deleuziana di divenire differenziale di forme, nel caso della fisica matematica il virtuale è bloccato.

Il piano intensivo che permette ogni generazione di forma, nel caso della fisica matematica è fissato e bloccato. È una legge, fissata, non cambia. Le forme attualizzate possono cambiare, diventare caotiche, anche imprevedibili, abbiamo delle forme imprevedibili, dei divenire imprevedibili, ma il piano virtuale è bloccato.

Quindi ogni dinamica nella fisica matematica, è un automatismo. Benché le onde del mare o le fiamme del fuoco possano assumere forme che cambiano continuamente, forme imprevedibili, eppure c’è una legge di generazione sotto, che rimane fissata. Questo è l’automatismo, perché la legge sottostante non cambia.

Ecco perché diciamo che siamo di fronte a una dinamica invariante, in cui il virtuale è invariante. E ci viene da chiederci, a questo punto, (e questo è un po’ il tema che ci interessa), se nelle scienze del vivente, se nelle scienze sociali, se nelle scienze dell’uomo, la dinamica delle forme si possa ricondurre a questa definizione.

Se così fosse, saremmo nella prospettiva di una Naturalizzazione o meglio, per essere precisi, di una Naturalizzazione fisicalista, dove le dinamiche sono ridotte a delle leggi invarianti. Vorrebbe dire che stiamo cercando le leggi che sottostanno alle dinamiche del vivente, alle dinamiche dell’uomo, alle dinamiche sociali.

È possibile sicuramente modellare diversi tipi di dinamiche di questo tipo. Per esempio il comportamento della folla (soprattutto se la folla è in una situazione di panico) è modellabile in modo molto facile. Così come si può modellare la cosiddetta swarm intelligence, cioè il comportamento degli insetti, l’intelligenza degli insetti. Così come si possono pensare modelli del volo di uno stormo di uccelli, eccetera. Tutte queste dinamiche che si fondano su un’idea di naturalizzazione non sono per niente banali, sono dinamiche complesse, ( se ne occupa per esempio, il nostro premio Nobel Giorgio Parisi) , sono dinamiche di grande rispetto ma lo scopo del nostro percorso è cercare di mostrare come possiamo e dobbiamo allontanarci da questa idea di divenire differenziale e come possiamo pensare invece diversamente il piano intensivo, il piano proprio che Deleuze aveva pensato come il piano del differenziale per avere qualche possibilità di uscire dall’automatismo. Fino a qui siamo nell’automatismo, non possiamo farci nulla, la natura, se così fosse, sarebbe una grande macchina, un automatismo generato da regole predeterminate.

Per prendere le distanze da questo punto di vista, in primo luogo prendiamo in considerazione l’esperienza dello strutturalismo dinamico di René Thom e Jean Petitot negli anni ’80, che cominciano, anche se parzialmente, a pensare come può essere possibile uscire dalla dinamica obbligatoria, dalla dinamica automatica. Vedremo come attraverso la teoria delle catastrofi di René Thom si riescono a introdurre delle variazioni sul piano intensivo per modificare il corso della dinamica.

Poi andremo a definire una vera e propria eterogenesi di derivazione deleuziana/guattariana, dove invece il piano differenziale diventa componibile, dove il piano intensivo diventa un piano di composizione in cui possiamo pensare a dei vincoli differenziali che mutano nello spazio e nel tempo, in modo da dare vita al piano intensivo.

Ecco, giusto poche parole per ricordare come René Thom e Jean Petitot affrontano questo tema per cercare di andare oltre l’automatismo, tramite quello che loro chiamano lo strutturalismo dinamico. Allora, al cuore di questo concetto di strutturalismo, c’è l’idea di poter controllare la dinamica con dei parametri, in modo tale da poter scegliere fra una dinamica e un’altra. Quindi, invece di avere una dinamica fissata, abbiamo dei parametri che possono variare e con questi parametri possiamo scegliere se far andare la dinamica verso un attrattore o un’altro. Cominciamo ad avere un minimo di possibilità di scelta. In quegli anni lì, parliamo della fine degli anni ’70 e primi ’80, tutto il pensiero strutturalista classico, quello che si rifà a Levi Strauss in antropologia culturale, Jacobson in linguistica, Greimas e Saussure in semiotica, eccetera, è ormai arrivato a compimento, almeno nella sua dimensione teorica.

E rispetto a questa elaborazione teorica, l’intervento di Thom e Petitot è proprio da leggere come una traduzione delle strutture in dinamiche materiali. Quello che loro fanno è spiegare le opposizioni strutturali in termini di dinamiche materiali attraverso la teoria delle catastrofi in modo che le strutture diventano dei dispositivi di controllo dinamico.

Quindi nel caso dello strutturalismo il piano intensivo, che era un piano bloccato nella fisica, diventa un piano di controllo. Il piano differenziale diventa un piano di controllo delle dinamiche. Tutta la dinamica diventa un gioco di controllo e così, per esempio, il segno di Saussure diventa un gioco tra due attrattori (ricordiamolo: Saussure ci dice non può esistere un segno solo, come minimo ce ne servono due perché si definiscono l’un l’altro per opposizione). Thom e Petitot non fanno altro che mettere in opposizione delle dinamiche: il parametro di controllo permette di orientare una dinamica verso un certo attrattore piuttosto che un altro (proprio come nel teatro dei pupi, se vogliamo, dove i fili controllato il movimento). Le variabili di controllo definiscono l’opposizione tra le dinamiche e così Petitot modella il quadrato semiotico di Greimas con quattro stati stabili, invece che con due stati stabili come nel segno di Saussure e così ancora Thom e Petitot modellano la formula canonica del mito di Levi-Strauss, entrando direttamente nell’antropologia culturale, con una catastrofe con otto stati stabili.

Ecco, l’insieme di tutti i possibili stadi stabili di questa dinamica è proprio la struttura. Quindi la struttura cos’è? È la partizione dello spazio di possibilità delle dinamiche in attrattori che rappresentano le categorie. Abbiamo uno spazio, lo spazio che viene categorizzato dagli attrattori, e in più c’è un dispositivo che permette di passare da un attrattore a un altro. La struttura è questa, per Petitot e René Thom, che vuol che hanno sostituito l’invariante differenziale della fisica matematica, con un altro invariante che è lo spazio delle possibilità.

Quindi, nello strutturalismo dinamico, abbiamo che le dinamiche possono cambiare attraverso questo gioco. Ma lo spazio di possibilità, all’interno del quale le dinamiche esistono non cambia. È fissato. Quindi lo spazio di possibilità, con tutta la sua partizione, diventa il nuovo invariante.

Quand’è che questo modello strutturale entra in crisi? Quando si presentano nei nuovi osservabili. Per esempio se pensiamo alla dinamica planetaria dell’ultimo secolo è comparso un nuovo osservabile fondamentale per il divenire del pianeta: il riscaldamento globale

Ecco nessuna configurazione di parametri di un modello strutturale fatto degli anni 50/60, poteva tener conto, ovviamente, di questa dinamica indotta dal nuovo osservabile e da allora molti altri osservabili si sono fatti avanti in modo imprevedibile, per esempio, siamo in una situazione non solo di pandemia ma di pandemia di pandemie. Così come assistiamo a crollo straordinario della fertilità maschile, solo per citare alcuni nuovi osservabili del nostro tempo. Siamo entrati quindi in un regime dinamico in cui non possiamo più pensare il divenire del pianeta all’interno di un certo spazio di possibilità. Ma dobbiamo cercare di comprendere come funziona una dinamica che è capace di cambiare questo spazio di possibilità. Ecco perché il modello strutturale della dinamica non è più sufficiente e di fronte a questo tipo di eventi non è più sufficiente fa variare dei parametri. Stiamo proprio definendo una nuova dinamica che potremmo definire una dinamica della mutazione, una dinamica dell’evento. E qui mi fermo. Con questa nuova dinamica quello che si trasforma non sono più semplicemente le forme, non sono più semplicemente dei parametri all’interno di uno spazio, ma sono davvero le leggi stesse del divenire. Che vuol dire che è la costellazione stessa di vincoli differenziali che si trasforma e che la dinamica non è più all’interno di uno spazio di possibilità dato a priori. Si tratta di una dinamica in cui si trasformano le forme e gli spazi, non solo le forme, ma le forme e gli spazi in cui le forme sono in divenire. Questa dinamica Deleuze e Guattari la chiamano eterogenesi. Eterogenesi perché appunto, a differenza della fisica matematica e dello strutturalismo, queste dinamiche si caratterizzano proprio da un virtuale eterogeneo, da costellazioni di differenziali eterogenei che cambiano nello spazio e nel tempo dove le forze mutano, le regole di generazione mutano, in modo continuo e immanente.

Questo é , diciamo così, il motivo per cui a un certo punto nel 2017 e 2018 (nel periodo in cui a Parigi si preparava l’insurrezione dei gilet jaunes), con due amici, Giovanna (Citti) et David (Piotrowski), abbiamo cominciato a pensare a queste dinamiche non solo come a delle affascinanti idee filosofiche ma anche in termini di processi materiali. Ci siamo chiesti se fosse possibile fare un’ operazione simile a quella che Thom e Petitot avevano fatto negli anni ’70-’80 sulle strutture, facendo diventare lo strutturalismo uno strutturalismo dinamico, materiale, se fosse possibile fare la stessa operazione sulle eterogenesi deleuziane-guattariane e fare diventare queste dinamiche davvero anche materiali, davvero utilizzare il linguaggio con cui anche le scienze naturali descrivono il divenire delle forme per cercare di capire queste dinamiche capaci di superare la fissità dell’automatismo fisicalista e le forme del controllo strutturalista. Questo è il problema che ci siamo posti.

Alessandro Sarti

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