Estratto da “Assembramenti” di Felice Cimatti

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Pubblichiamo, con il gentile permesso della casa editrice Orthotes, un estratto da: Assembramenti di Felice Cimatti, in particolare il primo capitolo intitolato CAMPO. In questo stesso numero, nella rubrica “Kill Billy”, potrete trovare anche la recensione.

Il campo
In un campo
io sono l’essenza
del campo.
È
sempre così.
Ovunque io sia
io sono ciò che manca.
Quando cammino
divido l’aria
e sempre
l’aria fluisce
a riempire gli spazi
in cui era stato il mio corpo.
Abbiamo tutti motivi
per muoverci.
Io mi muovo
per tenere insieme le cose[1].

Un prato, alberi, palazzi sullo sfondo, una giornata di sole. Uno spazio aperto. Aperto vuol dire, ad esempio, che dei ragazzini ci possono giocare a pallone, oppure che delle pecore possono pascolare liberamente mentre il pastore le controlla riparato sotto un albero (a Roma succede più spesso di quanto non si pensi), o ancora che qualcuno ci porti dei cani a correre. Aperto, allora, vuol dire che è un ambiente che permette molte e diverse attività, umane e non. Ma che succede se invece in quel prato non succede niente? In questo caso il campo è forse ‘vuoto’? Un campo può essere vuoto? Chiariamo qual è l’impensato di questa domanda. Se un campo senza umani (e animali) è vuoto, questo significa che il mondo è una sorta di palcoscenico per le azioni degli esseri umani (e, se siamo ecologicamente generosi, degli animali non umani, in particolare i mammiferi, cioè gli unici animali che gli umani prendono in considerazione).

Ma un campo, evidentemente, non è mai vuoto. C’è sempre vita in un campo. Sempre. Anzi, la vita è inseparabile dal campo. In effetti un campo non è propriamente un luogo, ossia un contenitore separato dal contenuto che può accogliere al suo interno. In realtà vale il contrario, se non ci fosse il campo non potrebbe esserci vita. Pensiamo proprio al caso dei ragazzini che giocano a pallone. L’evento ‘gioco a pallone’ non può darsi se non accade in un campo, inteso appunto come spazio disponibile al gioco. C’è di più, perché un bambino senza campo e pallone non è nemmeno un bambino. In realtà il bambino che gioca a pallone è un modo di essere del campo, così come la pecora che bruca è un’altra manifestazione del campo. Perché non esiste il bambino, come essenza astorica e trascendente della ‘bambinità’: esiste un bambino che insegue un pallone in un prato, come esiste un bambino che si annoia in classe (anche la classe è un campo), o un bambino che parla con un altro bambino nel cortile della scuola. Il bambino, cioè, così come la pecora, è un modo del campo. È il campo che si individua in un bambino, o in una pecora appunto, non il bambino che gioca nel campo. In questo senso il campo non è mai vuoto. Ma questo significa che il vuoto non esiste. In effetti se ci fosse il vuoto, come farebbero a incontrarsi e formarsi gli assembramenti, come quello del bambino e del pallone? In generale il campo è come «un alveare pullulante di attività»[2], come scrive il matematico John Barrow (che parla del campo quantistico, ma questa descrizione vale evidentemente anche per quello dei bambini). Il campo, allora, preesiste ai corpi che prendono vita al suo interno e che anzi, come abbiamo appena visto, assumono le caratteristiche che hanno proprio perché ‘emergono’ da quel campo in quella particolare situazione. Per questa ragione il campo non è mai vuoto, nel senso di essere un puro nulla. Al contrario, dobbiamo muovere dall’idea «più modesta» – in quanto meno antropocentrica – «che il vuoto sia ciò che rimane quando dallo spazio è stato rimosso tutto ciò che può essere rimosso»[3]. Togliamo i bambini, il pallone, le pecore, il pastore, i cani e così via. Rimane comunque qualcosa, rimane il campo. Ma che cos’è il campo se non è un contenitore?

In un generico contenitore si possono mettere tutti i ‘contenuti’ che può contenere. Che sia acqua o semi di zucca, il contenitore non influisce sul contenuto. Al contrario, un campo entra nella costituzione delle entità che ‘vivono’ dentro il campo. Il bambino nel campo, ad esempio, non è affatto lo stesso bambino in classe o nel salotto davanti alla TV con i suoi genitori. Il campo ‘partecipa’ della vita delle entità che lo popolano, entità che sono appunto inseparabili dal campo stesso. Ma questo significa che in ogni campo possono succedere eventi inaspettati, ad esempio l’assembramento bambino-pallone, o quello pecora-erba, ma anche quello scarabeo-pallone. Il campo è ‘creativo’. Ed è creativo proprio perché non è un contenitore. Qual è la specifica forza del campo? Si potrebbe sostenere, come vuole una tradizione che risale ad Aristotele, che il campo è potenzialmente il bambino-pallone, oppure la pecora-erba, o ancora il cane-cane. La «potenza», infatti, è la δύναμις che si collega all’«atto», cioè alla ενέργεια: «è atto l’esistenza reale dell’oggetto in un senso diverso da come diciamo che l’oggetto è in potenza. Noi diciamo ad esempio che Ermete è in potenza nel legno» di una statua[4]. L’esempio della statua è chiaro: finché la statua non esiste realmente la «potenza» – la possibilità che ci sia una statua di Ermete – è appunto nient’altro che ‘potenziale’, qualcosa che è soltanto una ‘ombra’ di reale. Infatti, per Aristotele «risulta chiaro che l’atto è anteriore alla potenza»[5] dal momento che qualcosa «in tanto è potenziale in quanto è suscettibile di attuazione»[6]. Secondo questa visione il singolo atto, ad esempio quello del bambino-pallone, esisteva potenzialmente prima di realizzarsi nel campo. Tuttavia, questa ‘esistenza’ potenziale non è altro, come detto, che potenziale, dal momento che l’«atto è anteriore alla potenza»: anteriore in senso metafisico, non cronologico. Questo modo di intendere il campo, tuttavia, è limitante, perché lo priva della capacità di essere produttivo di qualcosa di realmente sorprendente, cioè di assembramenti che non esistevano nemmeno potenzialmente. In effetti non si può sapere in anticipo che cosa succederà nel campo, proprio perché il campo non è mai vuoto, non è mai, cioè, un semplice contenitore. La vita non è qualcosa che esiste in potenza e che poi si realizza praticamente: al contrario la vita ‘nasce’ sempre dall’incontro, dall’assembramento, del campo e di un particolare ente. In questo senso la vita è sempre una sorpresa, una novità.

«Il mondo è carne»[7], scrive Merleau-Ponty nel Visibile e l’invisibile: la «carne» è quello che qui chiamiamo «campo», cioè il sostrato vitale e vitalizzante di ogni assembramento: «il mondo è campo, e a questo titolo sempre aperto»[8]. Il concetto di «carne» non è pensabile attraverso la coppia potenza/atto. In questo schema l’atto presuppone una corrispondente potenza, e questa, a sua volta, esiste solo in vista della sua attualizzazione. In questo modo, però, si priva il campo di ogni autonoma agentività, appunto perché la potenza è subordinata all’atto. In questo caso, invece, ci interessano quegli assembramenti che appaiono del tutto imprevisti, ossia quelle potenze che non implicano alcun atto. Deleuze si riferisce a questo elemento che sfugge alla coppia metafisica potenza/atto come al «virtuale», che infatti «non è subordinato al carattere globale che involge gli oggetti reali, dato che non solo per la sua origine ma nella sua propria natura, il virtuale è brandello, frammento, spoglia, non rispetta la propria identità»[9]. È per questa ragione che il «virtuale» non è in attesa dell’atto, perché non ha bisogno, per esistere, di rispettare «la propria identità». Questo significa che ogni assembramento che si effettua nel campo non preesisteva come potenza da realizzare, al contrario, ogni assembramento è un evento che accade in quel momento, e che un istante prima nulla annunciava che potesse accadere proprio in quel momento. Per questo l’assembramento non ha nessuna identità da rispettare, perché prima che accadesse non aveva nessuna preesistente identità, nemmeno potenziale. Per questa stessa ragione il «virtuale» è un «brandello», cioè appunto non è già (pre)formato come una certa determinata entità, dotata di particolari caratteristiche; è solo un «frammento», un pezzo di qualcos’altro. Per questo, ancora, «il solo pericolo è di confondere il virtuale con il possibile, dato che il possibile si oppone al reale, e il processo del possibile è quindi una “realizzazione”. Il virtuale, viceversa, non si oppone al reale, possiede di per sé una realtà piena, e il suo processo è l’attualizzazione»[10]. La differenza fra “realizzazione” e “attualizzazione” è la differenza che passa fra qualcosa che esiste solo come «prodotto a posteriori» (dal reale si risale al possibile) a qualcosa che, invece, esiste non come fantasma del reale. Al contrario «l’attualizzazione del virtuale avviene sempre per differenza, divergenza o differenziazione. […] In questo senso l’attualizzazione, la differenziazione è sempre un’autentica creazione, non si dà per l’imitazione di una possibilità preesistente»[11]. Il campo è l’accadere del nuovo. Ogni assembramento è una novità. Si tratta ora di capire come possano formarsi degli assembramenti inaspettati e sorprendenti. La «carne» di cui scrive Merlau-Ponty è questo ambito creativo:

La carne non è materia, non è spirito, non è sostanza. Per designarla occorrerebbe il vecchio termine “elemento”, nel senso in cui lo si impiegava per parlare dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco, cioè nel senso di una cosa generale, a mezza strada fra l’individuo spazio-temporale e l’idea, specie di principio incarnato che introduce uno stile d’essere in qualsiasi luogo se ne trovi una particella. In questo senso la carne è un “elemento” dell’Essere. Non è un fatto o una somma di fatti, e tuttavia aderisce al luogo e all’adesso. Di più: è l’inaugurazione del dove e del quando, possibilità ed esigenza del fatto, in una parola fatticità, ciò che fa sì che il fatto sia fatto. E, contemporaneamente, è ciò che fa sì che essi abbiano senso, che i fatti parcellari si dispongano attorno a “qualcosa”[12].

L’analogia con gli “elementi” aiuta a comprendere come intendere la «carne» del mondo. Pensiamo all’acqua, l’elemento fondamentale del mondo per Talete di Mileto. Secondo la testimonianza di Aristotele per Talete «ci dev’essere una sostanza […] da cui le altre vengono all’esistenza, mentre essa permane»[13]. L’acqua è l’elemento che troviamo in ogni fenomeno vivente, e senza il quale non ci può essere vita: «egli ha tratto forse tale supposizione», dice Aristotele nella Metafisica, «vedendo che il nutrimento di tutte le cose è l’umido […] (e ciò da cui le cose derivano è il loro principio [ἀρχή]): di qui, dunque, egli ha tratto tale supposizione e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida»[14]. L’acqua non è un’entità individuata, che sta da qualche parte, al contrario, c’è dell’umido in tutte le cose. L’acqua è dovunque, partecipa in modo continuo di tutte le entità del mondo. L’acqua, propriamente, è il mondo stesso; infatti «sosteneva che anche la terra è sull’acqua»[15]. Allo stesso modo la «carne» pervade ogni entità e aspetto del mondo, come l’acqua per Talete rende possibile la vita sulla terra. Per questa ragione per Merleau-Ponty per capire che cos’è la «carne» si deve «prendere per modello dell’essere lo spazio topologico»[16], cioè quello basato sulle nozioni di vicinanza e di continuità. Al contrario «lo spazio euclideo è il modello dell’essere prospettico», cioè di quello considerato come separato dal soggetto, dello spazio ‘vuoto’ di fronte allo sguardo umano; infatti «è uno spazio […] positivo, trama di linee rette, parallele e perpendicolari secondo le tre dimensioni, che regge tutte le ubicazioni possibili – Profondo accordo di questa idea dello spazio […] e dell’ontologia classica dell’Ens realissimum […]. Lo spazio topologico, viceversa, ambito in cui si circoscrivono rapporti di vicinanza, d’involgimento ecc. […]»[17]. Nello spazio topologico, retto dall’idea della continuità, non c’è alcuna posizione privilegiata, quella che assume la pretesa antropocentrica e presuntuosa «di avere sul mondo un potere di sorvolo assoluto»[18]. Nello spazio topologico si è sempre dentro, mai fuori, sempre situati, mai esterni, sempre nell’immanenza del corpo, mai nella trascendenza del pensiero: «è questo essere selvaggio o grezzo che interviene a tutti i livelli per superare i problemi dell’ontologia classica (meccanicismo, finalismo, in ogni caso: artificialismo)»[19]. Siccome è la continuità a definire un campo topologico, allora un corpo va inteso come un modo di darsi del «campo» stesso. Non c’è un’entità da una parte e il campo dall’altra. Questo vuol dire che le entità sono sempre situate. Ma questo significa anche che quello che un corpo è dipende dal campo attraverso cui si articola; per questa ragione per Deleuze un’entità virtuale «non rispetta la propria identità», perché prima di ‘nascere’ in un campo non ne aveva nessuna. La sua ‘identità’ si istituisce nel momento in cui ‘emerge’ nel campo e dal campo:

La filosofia non ha mai parlato – io non dico della passività: noi non siamo mai degli effetti – ma direi della passività della nostra attività; come Valery parlava di un corpo dello spirito: per nuove che siano, le nostre iniziative nascono nel cuore dell’essere, sono tutte innestate sul tempo che, in noi, defluisce, poggiano sui cardini o sulle cerniere della nostra vita, il loro senso è una “direzione” – L’anima pensa sempre: e questa è, in essa, una proprietà del suo stato, essa non può non pensare perché è stato aperto un campo in cui si inscrive sempre qualcosa o l’assenza di qualcosa. Non dobbiamo vedere qui un’attività dell’anima […] non sono io a farmi pensare più di quanto sia io a far battere il mio cuore[20].

Merlau-Ponty parla del corpo umano, ma quanto dice in realtà si può applicare all’insieme delle entità che prendono forma nel «campo del mondo», cioè ad ognuno degli assembrementi bambino-pallone, pecora-erba, albero-ombra e così via. In ciascuna di queste entità si può trovare una «passività» dell’«attività», ma anche il contario, una attività della passività. D’altronde la figura fondamentale del campo della «carne» è, per Merleau-Ponty, il «chiasma» che consiste nel «cogliere ciò che fa sì che l’uscire da sé sia rientrare in sé e viceversa»[21]. L’accettazione del «chiasma» segue direttamente dall’esclusione della possibilità che esista qualcosa come «un sorvolo assoluto», cioè una posizione esterna al campo stesso. Una volta che è il campo ad essere originario, e non più il soggetto umano, allora possono emergere una molteplicità di agenti virtuali, allo stesso tempo attivi e passivi, proprio perché ci si è liberati dell’ingombrante posizione privilegiata del punto di vista umano. In effetti questo punto di vista ha bisogno, per giustificare la propria eccezionalità, di assumere un mondo di cose passive a sua disposizione. Una volta che non c’è più necessità di salvaguardare la posizione umana, possono venire al mondo tutte le altre agentività che Homo sapiens non tollera: finalmente si può accettare che «non siamo noi a percepire, è la cosa a percepirsi laggiù […]. Divenire natura dell’uomo che è il divenire uomo della natura – Il mondo è campo, e a questo titolo sempre aperto»[22].

  1. Mark Strand, Tenere insieme le cose, in L’uomo che cammina un passo avanti al buio, Mondadori, Milano 2011, pp. 11-13.
  2. John Barrow, Da zero a infinito. La grande storia del nulla, Mondadori, Milano 2002, p. 237.
  3. Ivi, p. 247.
  4. Aristotele, Metafisica, a cura di A. Russo, Laterza, Bari 2002, Θ, 1048a, 31-34.
  5. Ivi, 1049b, 4.
  6. Ivi, 12-13.
  7. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993, p. 154.
  8. Ivi, p. 202.
  9. Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 132.
  10. Ivi, p. 273.
  11. Ivi, p. 274.
  12. M. Merleau-Ponty, Il visibile, cit., p. 156.
  13. Gabriele Giannantoni, I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 1969, p. 90.
  14. Ibidem.
  15. Ibidem.
  16. M. Merleau-Ponty, Il visibile, cit., p. 225.
  17. Ibidem.
  18. Ivi, p. 42.
  19. Ibidem.
  20. Ivi, p. 235.
  21. Ivi, p. 215.
  22. Ivi, p. 202.

Le immagini sono state prodotte utilizzando una AI su input testuale di Gilberto Pierazzuoli

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