Chi ha paura della letteratura Working Class?

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I tre giorni del Festival della Letteratura Working Class che si è tenuto dal 31 marzo al 2 aprile nella sede di una fabbrica occupata, la ex GKN di Campi Bisenzio, con quasi 3000 partecipanti e decine di dibattiti e performance, sono stati un evento unico, che lascerà il segno sia nella storia delle più recenti lotte operaie sia nel panorama di una produzione letteraria cancellata quando non demonizzata dalla critica ufficiale.

Working Class”, un termine scelto non a caso, che include non solo la classe operaia in senso stretto ma anche persone sottoccupate, disoccupate, mal pagate nei lavori a chiamata, precari dei servizi e della ristorazione, in sostanza l’enorme bacino di sfruttati – in prevalenza donne – dai meccanismi perversi del Capitale.

Ma cosa si intende per letteratura Working Class? E’ quella scritta da chi appartiene a quei ceti sociali? Che è rivolta a quel pubblico? O, ancora, che rappresenta quelle condizioni di vita? Credo di poter dire che neppure tutte e tre insieme queste condizioni sono sufficienti a definirla. Perché da questa scrittura traspare non solo l’intento di rappresentare l’ingiustizia sociale – cosa già magistralmente fatta nei grandi romanzi realisti dell’Ottocento – ma di smuovere gli animi verso un cambiamento dei rapporti di forza, in una parola, emerge un invito più o meno esplicitato alla lotta di classe. Fare scrittura working class significa – dice Prunetti, che insieme alla casa editrice Alegre e il collettivo di fabbrica della GKN ha organizzato il Festival – “soffiare sul fuoco, raccontare il conflitto, alimentarlo con le parole scritte”.

Direi che l’orgoglio di appartenenza di classe è l’elemento unificante delle narrazioni e delle poesie di cui si è parlato al Festival. Una scrittura che sfida l’idea tradizionale dell’Autore singolo con la A maiuscola, in cui l’io del racconto assume una dimensione collettiva, che racconta in prima persona come si vive, o sopravvive, nella working class, demolendone gli stereotipi. Con forme narrative in cui si mescolano autobiografia, storie di famiglia, inchieste operaie, materiali d’archivio. Sono voci che esprimono in prima persona il disagio sociale, l’ingiustizia, e soprattutto la spinta al riscatto di classe. Insomma una letteratura che mette in discussione non solo le forme del testo letterario ma il sistema stesso che fino a quel momento lo ha prodotto. Quindi testi potenzialmente pericolosi.

Nel pregiudizio verso questa letteratura, e nella sua cancellazione dai circuiti culturali, la critica letteraria ha avuto un ruolo fondamentale. Stiamo parlando della critica ufficiale, di quegli intellettuali che scrivono saggi e recensioni, rilasciano interviste, fanno parte di giurie di concorsi letterari, sono autorevoli consulenti di grossi gruppi editoriali, e dunque legati al mercato. In sintesi una voce della cultura dominante, che stabilisce quali libri vadano pubblicati e quali scartati, con operazioni di marketing che finiscono per “spingere” specifiche categorie e autori.

Prendiamo come esempio significativo quanto è avvenuto in Inghilterra, dove la letteratura working class ha prodotto forse il numero maggiore di testi. E in particolare consideriamo il decennio degli anni ‘30 del Novecento, che ha visto l’esplosione di una scrittura che nasceva dall’interno di ceti sociali sfruttati e ne raccontava il quotidiano di privazioni e sofferenze. Chi ha sentito parlare dei numerosi scrittori gallesi che hanno descritto la vita delle famiglie dei minatori di carbone? O ancora, di scrittori anche notevoli come James Hanley, membro di una famiglia della classe operaia che ha scritto una serie di lavori basati sulle sue esperienze in mare? E chi ha letto i romanzi dei non pochi scrittori che raccontano la loro esperienza di vita nei lavori più umili della marina mercantile, come Jim Phelan, George Garrett, John Sommerfield? Tutti nomi rimasti sconosciuti, le cui opere sono state apriori bollate dalla critica come testi senza alcun valore artistico.

La cosa non ci stupisce più di tanto, se ancora agli inizi degli anni Sessanta, F. R. Leavis, il critico che con la sua “scuola” ha dominato per trent’anni la scena culturale britannica e non solo, in una conferenza pubblica trasmessa in televisione, esprimeva apertamente il disprezzo con cui i custodi della “Grande Tradizione” consideravano la classe operaia britannica. Con osservazioni che la  liquidavano come spiritualmente vuota e sconsideratamente materialista. Una classe che non può capire l’arte, figuriamoci realizzarla.

E’ interessante notare che nel corso degli stessi anni Trenta emerge anche una generazione di scrittori e poeti impegnati politicamente contro il nazismo e il franchismo. Si tratta della cosiddetta Auden Generation di cui fanno parte appunto Auden, Spender, MacNiece, Isherwood e altri che non rappresentano la letteratura working class, ma la cui vicenda ci pare significativa. Sono scrittori impegnati, di sinistra, molti dei quali, come fece anche Orwell, partirono volontari per la guerra di Spagna nel ‘37. Perché ci interessa parlarne qui? Perché le loro opere vennero definite un esperimento fallito, inquinate dall’impegno sociale. Con loro la critica sancisce una volta per tutte in modo esplicito la contrapposizione tra arte e politica, e così facendo esclude automaticamente la scrittura della classe operaia – o meglio l’esperienza stessa della classe operaia – dal corso della letteratura.

Questo disvalore della scrittura impegnata era così pervasivo da venir introiettato dagli stessi autori, che si dicono consapevoli di aver rinunciato alla vera Arte, per il bisogno etico di trasmettere un senso politico nelle loro opere. Stephen Spender, ad esempio, insiste sul fatto che la sua generazione sa di essersi privata di valori che continuava a considerare esteticamente superiori, e che si trovavano nelle pagine di Joyce, Yeats, Eliot, Lawrence, Virginia Woolf. Come se il distacco dal Modernismo, con la sua indagine introspettiva sul soggetto e la noncuranza verso il contesto sociale, coincidesse con il rifiuto dell’arte stessa.

Del resto, qualche decennio dopo, negli anni Cinquanta e Sessanta, la scrittura in cui affioravano la rabbia e la frustrazione sociale dei cosiddetti “Giovani arrabbiati” Osborne, Braine, Wain, Sillitoe fu considerata più un fenomeno sociologico che letterario; da questa angolatura vennero letti i loro romanzi, che trattavano gli effetti prodotti sui giovani di estrazione operaia che avevano avuto accesso agli studi universitari e si trovavano poi a non avere le stesse opportunità lavorative dei loro compagni, rampolli dell’upper class.

Con l’inizio di questo secolo mi sembra di poter dire che è in atto un mutamento positivo nel panorama critico, specialmente in area angloamericana. Si riscontra un nuovo interesse dei critici per la produzione letteraria della working class, con stimolanti riflessioni e nuovi approcci teorici che intrecciano classe sociale, genere, provenienza etnica; si crea così un circuito positivo che può aprire maggiore spazio e visibilità agli aspiranti scrittori, rafforzando ed estendendo una tradizione a lungo penalizzata. Ci si presenta ora l‘occasione per un ripensamento su cosa si intenda per letteratura working class, in un’ottica comparativa e internazionalista.

Mi pare interessante che si cominci per esempio a riflettere su questa letteratura considerandola non come una categoria fissa, cioè non come un genere, (il romanzo storico, il romanzo sentimentale, il romanzo sociale) o peggio un sottogenere svalutato di narrativa realista, ma come una forma mai statica, mutevole perché così interna a esperienze di una classe che si trasforma nella sua composizione, con l’impoverimento di alcune fasce, il maggiore sfruttamento di altre, la nascita dei nuovi poveri e la disoccupazione che colpisce anche chi prima viveva con un salario sicuro. 

Si sono di recente attivate connessioni internazionali tra gli studiosi, facendo al contempo confronti transnazionali tra le diverse realtà culturali. Penso ai due volumi Working-Class Literature(s) Historical and International Perspectives (il secondo uscito nel 2020), che mappano questo tipo di letteratura in 13 diversi paesi, facendo emergere la specificità delle singole realtà geografico-culturali ma anche la connessione o meglio l’uniformità di fondo: perché in un mondo globalizzato i rapporti di potere pur declinati in diverse modalità rispecchiano comunque la gerarchia tra chi sfrutta e chi è sfruttato.

La letteratura è una forza potente quando si tratta di creare un nuovo immaginario di classe. Nella continua tensione tra forma, autenticità e obiettivo politico, il gran numero di memoir e autobiografie di recente pubblicazione hanno riportato in superficie la parola classe”, a lungo sommersa nell’indicibile. Riaffermandone l’esistenza, con tutte le sue problematiche, le ingiustizie, i suoi valori e disvalori e la voglia di riscatto, hanno mostrato senza fare sconti cosa significa oggi vivere senza diritti e senza tutele in una realtà che, per citare l’ultimo Prunetti, no, Non è un pranzo di gala.

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Ornella De Zordo

Ornella De Zordo, già docente di letteratura inglese all'Università di Firenze, e attiva per anni nei movimenti, è stata eletta due volte in Consiglio comunale - dal 2004 al 2014 - per la lista di cittadinanza 'perUnaltracittà', portando dentro il palazzo le istanze delle realtà insorgenti e delle vertenze antiliberiste attive sul territorio. Finito il secondo mandato di consigliera di opposizione ai sindaci Domenici e Renzi, prosegue con l'attività di perUnaltracittà trasformato in Laboratorio politico, della cui rivista on line La Città invisibile è direttrice editoriale.

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