Urbanistica nella stagione del disincanto. “L’Italia era bellissima”, di Vezio De Lucia

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La lunga e fervida attività di Vezio De Lucia come urbanista è difficilmente riconducibile a un unico ruolo. Nella sua esperienza, infatti, si ritrovano e convivono in modo coerente le diverse figure del funzionario pubblico, dello studioso, dell’amministratore e dello scrittore. Per questa ragione, l’ottica dalla quale provare a restituire i molti contenuti del suo ultimo libro (L’Italia era bellissima. Città e paesaggio nell’Italia repubblicana, DeriveApprodi, Roma 2022) può risultare dispersiva e rischiare di perdere di vista le vere peculiarità di questo saggio.

Occorre quindi, per prima cosa, provare a delimitare il campo della trattazione e differenziare gli obiettivi del libro rispetto a quelli che erano presenti in altre monografie che hanno segnato i momenti cruciali della produzione di questo autore.

Innanzitutto, non si tratta di un libro di storia, perché la ricostruzione di esperienze e accadimenti che hanno segnato l’urbanistica italiana non ha l’intenzione né di restituirne le basi documentali, né le coordinate del contesto socio-economico. Il libro inoltre non assume nemmeno la forma di un memoriale, come invece era accaduto per un suo precedente saggio (Le mie città, Diabasis 2011), nel quale si ritrovava una vivace restituzione delle esperienze che De Lucia aveva condotto come servitore delle istituzioni presso il Ministero dei lavori pubblici. Infine, non si può nemmeno affermare che ci troviamo di fronte a una galleria di ritratti di autori e di figure cardine, anche se il racconto è scandito nei suoi momenti di svolta da un insieme di figure di riferimento: si comincia da Michele Martuscelli e si termina con Italo Insolera, toccando nel mezzo un ventaglio di studiosi, assunti come esemplificativi per i loro temi di elezione (qui è doveroso menzionare Giorgio Ruffolo, protagonista della stagione della programmazione economico-territoriale e primo ministro dell’ambiente, scomparso pochi mesi addietro).

Per le ragioni esposte, si può quindi intendere il libro come una rassegna di temi cruciali, di valori-guida che hanno condizionato il pensiero e le pratiche della politica urbanistica del nostro paese e che, per la loro influenza e persistenza, possono essere ancora assunti come coordinate di riferimento ideali, rispetto alle quali vedere la pertinenza degli strumenti disciplinari per come sono mutati nel tempo. Questo può essere fatto con una duplice finalità: per vedere come questi contenuti si legano coerentemente a un nuovo ventaglio di temi emergenti (tra i quali spiccano i temi dell’emergenza ambientale, dei bilanci dei cicli d’uso delle risorse territoriali, delle disuguaglianze); per metterne alla prova la possibilità di un effettivo perseguimento da parte di forme dell’azione pubblica e di apparati normativi che rispondono a un quadro istituzionale profondamente mutato e che per questo devono necessariamente essere rimodellati.

Se i valori da perseguire possono essere quindi ritenuti permanenti e tuttora ben presenti nell’agenda delle politiche urbane (salvaguardia e difesa storico-monumentale, difesa del suolo e sicurezza degli insediamenti, contrasto agli squilibri e rafforzamento della città pubblica, mobilità e giustizia spaziale, politiche di accompagnamento allo sviluppo), molto più incerti sono gli strumenti cui fare ricorso per dare sostegno a questa griglia valoriale.

De Lucia sembra avere piena consapevolezza di questo aspetto, dal momento che (come è logico ci si aspetti da parte di un grande funzionario pubblico) da considerare come irrinunciabile il riferimento a un quadro legislativo considerato quale solida garanzia per l’azione istituzionale sul territorio, ma di cui si caldeggia un impiego accorto e prudente (p. 14).

Tutto il libro, pertanto può essere letto come la restituzione di questo dissidio: il rifiuto di abbandonare una concezione del piano urbanistico come strumento “pubblicistico-unilaterale” (p. 48), cui si accompagna però contraddittoriamente il racconto di come invece le migliori esperienze dell’urbanistica italiana abbiano trovato fondamento nella responsabilità della decisione politica e in una sapiente e pragmatica prassi tecnico-gestionale dei processi reali (p. 60).

A costo di fare un parziale torto all’autore del libro e a rischio di disarticolarne la coerente compattezza di argomenti, sembra in questa sede utile estrarre alcuni di questi temi cruciali, che hanno segnato gli avanzamenti della disciplina urbanistica dal secondo dopoguerra a oggi, e provare a farli dialogare con un insieme di esperienze che lo stesso De Lucia ritiene portatrici di un approccio del tutto diverso e forse anche avverso. Lo scopo di un simile esercizio, nel quale si cercherà comunque di fare emergere in modo preminente la posizione dell’autore del libro, è avanzare l’ipotesi che il perseguimento di un insieme di irrinunciabili valori per l’azione pubblica sul territorio non può solo affidarsi all’elaborazione dei documenti urbanistici. È infatti nella concreta formulazione delle decisioni collettive, più che nella sola presenza del piano urbanistico, che si può comporre un equilibrio tra leggi, politiche e prassi (il “buongoverno del territorio”, richiamato da De Lucia in più passi del libro: p. 38; p. 48-49).

Proviamo quindi a estrarre questi nodi disciplinari e a vederne sia le opportunità, sia il loro contraddittorio controcanto.

La produzione legislativa come garante dell’interesse pubblico nella gestione del territorio. Il libro apre con la menzione alla irripetibile storia giuridico-amministrativa della Legge urbanistica nazionale del 1942 (pp. 13 e 100 ss.), per poi ricordare alcune delle tappe con le quali i pubblici poteri si sono dotati di capacità di intervento e guida delle trasformazioni urbane (tra tutte la “Legge Ponte” e il D.I. 1444/68 sugli standard urbanistici) (pp. 30-31 e 94-95). Altrettanti sono però gli apparati normativi che per De Lucia hanno introdotto elementi distorsivi, dal c.d. “Piano Casa” del 2009, alle molte discipline giuridiche sull’urbanistica contrattata. Quest’ultima, che l’autore vede come inaugurata da un momento critico della vicenda urbanistica di Firenze (la ben nota telefonata di Achille Occhetto del 1989, che blocca la grande variante Fiat-Fondiaria di Novoli), viene poi messa in relazione con un approccio degenerativo della disciplina urbanistica, che rinuncia a ricondurre le diverse trasformazioni a uno schema di piano coerente. Simbolo di questa deriva sarebbe il Documento di inquadramento delle politiche urbane di Milano, la cui formulazione si deve a Luigi Mazza, tra i più autorevoli studiosi di urbanistica, scomparso di recente. In realtà, all’interno di quella proposta, Mazza disponeva uno schema di scelte politiche che avrebbe portato certamente a fare emergere il momento negoziale rispetto a quello strettamente pianificatorio, ma avrebbe reso trasparenti ed evidenti queste scelte, in un quadro nel quale alcune fondamentali linee di assetto pubblico della città dovevano essere garantite. Prendere l’urbanistica negoziata come portatrice di scelte perverse, a fronte delle garanzie date dal piano urbanistico ci pone di nuovo di fronte alla questione (che De Lucia stesso richiama, p. 49) di come un piano urbanistico compiuto e maturo possa essere ugualmente portatore di un uso squilibrato del territorio (come emerge drammaticamente dalle vicende ultime del dissesto in Emilia-Romagna, la regione più pianificata del paese). La sola redazione del piano urbanistico non esime da un confronto con le responsabilità politiche, con gli interessi e con i contenuti delle scelte collettive.

La qualità dei progetti, la qualità delle politiche e la qualità dei decisori. De Lucia ci ricorda come le prove migliori dell’urbanistica italiana siano riferibili a interventi frutto di una stagione che ha unito chiarezza di indirizzi politici, rispondenza rispetto alla domanda sociale, capacità di approfondimento scientifico-culturale e, come innesco, un acceso impegno civico. Gli esempi richiamati (le varianti urbanistiche di salvaguardia del centro storico e della collina di Bologna, i piani toscani per proteggere il litorale e le aree archeologiche di Populonia, il piano paesistico di Roberto Pane per la Costiera amalfitana e, infine, il progetto di Petroselli-Benevolo-La Regina per l’area dei Fori) (pp. 36-37, 60 e 109) rappresentano ancora oggi oggetto di studio e ammirazione, anche se rischiano di svolgere ormai una finzione consolatoria. A questi esempi di riuscita progettualità pubblica De Lucia contrappone un approccio all’urbanistica basato su “cose che sostituiscono la città” (p. 58), legittimato dal punto di vista culturale con la famosa ricerca su Roma La metropoli spontanea (di Clementi e Perego; pp. 42-43) e sancito dal punto di vista legislativo con gli strumenti dei c.d. “programmi speciali di intervento urbano” (p. 42). In realtà, l’impostazione di un approccio alla qualità del progetto urbano come necessariamente legata al coerente inserimento nelle linee di sviluppo del piano urbanistico è contraddetta da una inesauribile serie di interventi distorsivi all’interno delle nostre città, pur legittimati dalla legge di piano (a cominciare dalle c.d. Nuove centralità romane, alle scelte trentennali dei c.d. “piani della qualità” riformisti dell’Emilia-Romagna). De Lucia stesso è ben cosciente di questa indeterminazione, visto che è stato il promotore della più profonda e impegnativa operazione di riqualificazione urbana che le nostre città abbiano tentato negli ultimi tre decenni, cioè la riconversione dell’Italsider di Bagnoli. Un progetto che, da assessore della giunta napoletana di Bassolino (1993), De Lucia ha elaborato con competenza, dedizione e coscienza dell’interesse pubblico, ma che non aveva un riferimento nelle previsioni del piano urbanistico, visto che lo stesso De Lucia ne stava avviando la redazione in parallelo con il progetto Bagnoli (piano che arrivò in approvazione, ma con scelte molto cambiate, nel 2004). Anche in questo caso, la garanzia della qualità contenutistica, della coerenza urbanistica e della tutela dell’interesse pubblico poggiavano sulla capacità dei funzionari e sulla competenza, abilità gestionale e sensibilità degli amministratori (da identificarsi prima di tutto con De Lucia stesso). L’autore del libro, per il garbo che lo contraddistingue e per il fatto di essere stato protagonista di questa esperienza, ovviamente non menziona in modo esplicito il nodo cruciale sulla qualità dei decisori: ovvero il fatto che anche in questo caso risultava decisiva la levatura di chi rappresenta i pubblici poteri (oltre che il coinvolgimento della società civile e, non trascurabile, la lungimiranza dell’imprenditoria e degli investitori).

Il riordinamento dei livelli di governo del territorio e il riemergere della necessità di un’urbanistica statale. Il libro richiama i momenti formativi della disciplina amministrativa regionale, a partire dal DPR 616/1977 (p. 97), mettendo in rilievo come questa lunga stagione abbia prodotto una frammentazione e dispersione di approcci, nonché una inesauribile moltiplicazione di norme. Su alcuni temi (ad esempio le politiche abitative o le politiche di tutela del paesaggio e dell’ambiente) (p. 42) non c’è dubbio che il recupero di un livello nazionale di programmazione sia necessario (p. 71). Lo stesso autore, però, menziona alcune delle peggiori prove del nostro governo del territorio come frutto dell’urbanistica statale (su tutte la perversa ricostruzione de L’Aquila, ma anche un insieme di discutibili e inattuali realizzazioni infrastrutturali) (pp. 56-58). Anche in questo caso, non sembra esserci uno strumento risolutivo, che possa offrire una sufficiente garanzia di buongoverno territoriale, se non guidato da responsabilità politiche e capacità amministrative.

La tutela del paesaggio, il consumo di suolo, il rischio territoriale. In un quadro così avaro di certezze per il ruolo e l’utilità della disciplina urbanistica, è sulla centralità di questi argomenti che De Lucia prova costituire la soglia ultima per un rinnovato impegno della funzione pubblica di governo del territorio. La frontiera disciplinare che pone l’arresto del consumo di suolo quale obiettivo prioritario sembra oggi godere di consenso unanime tra studiosi, operatori, pubblici funzionari e politici. De Lucia, nell’auspicare un recupero delle funzioni dell’urbanistica statale almeno su alcuni settori e materie specifici, menziona pertanto il Codice dei beni culturali e del paesaggio come lo strumento legislativo cui fare ricorso con competenza e intelligenza, per ricomporre un quadro di minime e fondamentali garanzie di coerenza delle politiche urbane sui temi della difesa del suolo. Nel dare questa prospettiva, che è culturale e metodologica assieme, l’autore del libro affronta in modo diretto una delle questioni più spinose della pianificazione territoriale: la difficoltà a fare dialogare un insieme di discipline specialistiche (il paesaggio, la difesa del suolo, la tutela del patrimonio storico) con gli apparati ordinari di amministrazione delle città, piani o programmi che siano. Nella prassi gestionale e programmatoria, i contenuti diversi di questi temi in agenda non si compongono in una politica attiva, ma solo in una meccanica sovrapposizione di competenze, legate dalla sola conformità delle diverse disposizioni vincolistiche. Si tratta invece di rendere la difesa del paesaggio, in base a come il Codice la definisce estensivamente negli artt. 143 e ss., la spina dorsale di una politica di salvaguardia e difesa, mettendo a fuoco un insieme di criteri inderogabili di cura e reintegrazione dei territori. Si tratterebbe di una visione minimalista delle funzioni che l’urbanistica nazionale ha inteso darsi nella sua lunga e variegata storia, ma attraverso queste poche attribuzioni si potrebbe reintegrare una ben definita competenza al livello statale di governo (p. 112).

Oltre a questo, un uso attento e sensibile di questi pochi e mirati dispositivi normativi, potrebbe consentire di recuperare, in forme mutate e in un’arena pubblica molto più frammentata e dispersa, quell’insieme di fondamentali valori che De Lucia e il suo Pantheon di autori/amici (a cominciare da Antonio Cederna) hanno trasmesso a questa stagione di disincanto.

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Luca Gullì

Luca Gullì ha studiato al Politecnico di Milano e all'Università di Bologna, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in ingegneria edilizia e territoriale. Funzionario del Ministero per i beni culturali, si occupa di pianificazione territoriale e di tutela del patrimonio monumentale

2 commenti su “Urbanistica nella stagione del disincanto. “L’Italia era bellissima”, di Vezio De Lucia”

  1. Salve sono molto interessato a parlare con Luca Gullì per i suoi interessi sugli ulktimi interventi urbani a Bologna e Milano, attendo fiducioso un contatto

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