Non esistono AI (intelligenze artificiali) empatiche

  • Tempo di lettura:10minuti

Parte sesta, , qui la primaqui la seconda, qui la terza, qui la quarta, qui la quinta

Quando guardiamo, di fatto confrontiamo la percezione con ciò che sappiamo. L’atto del vedere mette allora in campo le nostre conoscenze di base innestando un processo inferenziale, deduttivo e induttivo attraverso il quale formuliamo concetti e costruiamo ipotesi. Il veduto non è la cosa in sé. La cosa in sé, sta in sé, la cosa in sé non ci ri-guarda. Quello che vediamo è il risultato di una relazione e di un processo di ri-conoscimento nel quale intervengono tutti i filtri percettivi che sono dei costrutti culturali, storici e sociali, psichici e materiali (anche politici) che rimandano anche a una configurazione neurale che si è costruita in base alle esperienze precedenti.

Esperienze queste che contengono anche ogni altra relazione diretta e indiretta che teniamo e abbiamo tenuto con gli altri enti. In un certo senso vedere è una forma di discretizzazione della realtà che è anche alle basi della sua digitalizzazione. Ma c’è già una differenza. La discretizzazione non si dà una volta per tutte. Il processo di individuazione delle cose non ha una forma definitiva; si realizza ogni volta ex novo ma ogni volta è semplificato perché non deve lavorare da zero perché ha mantenuto nella cache – ha “tenuto in mente”, dando luogo a una configurazione – la rappresentazione precedente sulla quale il senso percettivo coinvolto, lavora nel processo di individuazione delle cose. La configurazione è però anche il frutto di una concettualizzazione. La nozione di sedia è diversa dalla sedia in sé. Essa “è definita dalla sua funzione: un mobile costruito perché ci si possa sedere. Presuppone l’umanità, che si siede. Non riguarda la sedia in sé: riguarda il modo in cui la concepiamo. Questo non intacca il fatto che la sedia esista lì, come oggetto, con le sue ovvie caratteristiche fisiche, colore, durezza, eccetera” (Rovelli 2020, ed. digit. 66%). Vedere non è allora soltanto l’atto del percepire, ma un’azione partecipata, un’interazione che è anche un’invenzione condivisa. Perdipiù, dicono Hofstadter e Sander (2015, p. 3): “Senza concetti non ci possono essere pensieri e senza analogie non ci possono esseri concetti […]”. Cogliere l’analogia è scovare le differenze dentro le ripetizioni. Senza il concetto di sedia, la sedia diviene trasparente alla vista. Vederla è cogliere il suo pattern concettuale che ce la fa analogicamente riconoscere anche osservandola da punti di vista diversi. La conoscenza, per Mach, e successivamente per Bogdanov, è organizzazione delle sensazioni attraverso le quali percepiamo la realtà (qui)Organizzare le sensazioni è un processo sociale e non individuale. È il contributo dialogico che si dà per la costruzione di una langue (Saussures). È un processo di significazione.

Di tutto questo la macchina non sa niente, la macchina non partecipa. La significazione la macchina la intravede per il fatto che i dati che gli umani le hanno fornito per il suo addestramento erano organizzati secondo certi criteri che la macchina non può capire ma può usare e riprodurre. Ma la macchina non è capace di riprodurre tutte le sfumature del senso ma soltanto quelle che sono ricorrenti e quindi più probabili. Ripeto ancora e ancora: non parliamo di una macchina generica, ma di quella che lavora sulle correlazioni di grandissime quantità di dati e alla base di gran parte delle tecnologie digitali attuali.

La capacità plastica del cervello, la sua possibilità di riconfigurazione per agire con rapidità e agilità in mezzo agli stimoli, tendono a formare figure metastabili che automatizzano e/o “premasticano” alcuni processi. Il pensiero stesso diviene per questo un’abitudine. Il pensiero complesso quello che per esempio risponde a quelle configurazioni profonde e articolate create dall’abitudine alla lettura di testi lunghi e che richiamano processi logici non banali, è reso possibile proprio da questa preparazione formale della rete neurale umana. Senza questo allenamento senza questa pre-figurazione, si ha difficoltà a manipolare concetti, confronti e analogie, a formulare posizioni critiche.

Per questo la rivoluzione digitale, eterodiretta dal capitale, quella della società della sorveglianza e della distrazione, provoca un cambiamento antropologico profondo non soltanto culturale ma anche strutturale nel momento in cui si riversa e si manifesta modulando la complessità e la profondità della rete neurale, divenendo cosi più o meno capace di prendere a carico compiti critici e creativi. Il sapiens digitale avrà perciò configurazioni diverse da quelle del sapiens analogico abituato alla lettura profonda e alla manipolazione di concetti. Una differenziazione morfologica probabilmente più negativa e più pericolosa dello sviluppo accelerato di intelligenze non biologiche. Un sistema di allerta sempre in funzione sarebbe uno strumento stressante. Saremmo sottoposti a un bombardamento insopportabile di stimoli. Per questo alcune reazioni agli stimoli le automatizziamo. Attraverso delle figure dell’abitudine sgrossiamo la realtà e lasciamo che i processi attentivi si dedichino ad altre situazioni. La distrazione digitale oltre a stornare l’orientamento consolidato che alterna abitudini a stati di vigilanza, rinstaura una situazione di sollecitazione continua che non permette di andare in profondità con il pensiero. Impedisce così di creare non soltanto le configurazioni complesse con le quali manipolare i concetti e i processi di significazione, ma anche quelle più semplici utili a creare le configurazioni abitudinarie.

L’interazione tra umani e macchine, le interfacce di collegamento e comunicazione tra queste entità, che culminano nei dispositivi che sta sperimentando neuralink, risentono e acuiscono questi aspetti. Non ci si interfaccia facilmente con una cosa mutevole e metamorfica come la rete neurale umana. Le interfacce tendono perciò a limitare quella plasticità e la sua estensione in profondità e complessità. Non è soltanto l’intelligenza non umana che sta crescendo ma anche quella umana che sta decrescendo. Le interfacce sono le soglie, i limes, le embricature di contatto tra due apparati dove si determina la portata e la direzione del flusso di informazione che alimenta e condiziona la loro ibridazione. In un certo senso si somatizza il sapere e non soltanto dal punto di vista quantitativo ma anche da quello qualitativo, dove questa qualità la si coglie nel complessarsi e nell’intricarsi del disegno della rete neurale. Una persona ricca di strutture configurazionali, sia abitudinarie sia relative a concetti complessi, è proprio per questo meno suggestionabile. Ma non significa che essa sia monoliticamente aggrappata a un’unica visione, anzi. Gli stessi processi creativi hanno bisogno di una piattaforma di lancio; di un confronto continuo con l’altrə; di costruire con l’altrə piattaforme etiche ed estetiche e di cambiarle in base agli stimoli e alle suggestioni che arrivano dall’altrə. L’atto di prendere “parole” ha bisogno di una relazione che continuamente lavora alla formazione di una “langue” (di nuovo Saussure). Un modello di relazionalità che si potrebbe applicare anche alle infrastrutture cognitive con le quali operiamo nel mondo. Più è ricca e profonda è questa struttura, più l’atto cognitivo, l’atto di parole, è capace di esprimersi. È capace nello stesso tempo di profferire parole anche nuove. È capace di trovare un senso alla relazione. È capace di significazione. È più sordo alla voce delle sirene del contemporaneo che veicolano il mantra (TINA) per il quale non ci sarebbero alternative al capitalismo; che veicolano fake in maniera tale da stornare la nostra attenzione dalla costruzione di alternative possibili. Già a partire da un’altra locuzione cognitivamente complessa e liberatoria da poter adottare, come il “preferirei di no” (He’d Prefer Not To) di Bartleby lo scrivano che apre l’orizzonte a un esodo dal capitalismo, a delle forme di diserzione che aprono a percorsi destituenti. Disertate!

La società della distrazione, nella sua accezione negativa, è costruita intorno a un assunto e cioè da quella tendenza delle piattaforme digitali proprietarie a conformarsi in strumenti di cattura dell’attenzione per permettere loro di profilarci, manipolarci in funzione di interessi mercantili per i quali i processi stessi di distrazione sono consustanziali al sistema. Se la lettura di testi complessi “complessava” di pari passo le nostre capacità di ragionamento critico e creativo, egualmente, il tenerci in superfice, ottiene il risultato opposto. Nulla vieterebbe che l’apparato digitale fosse invece programmato per tenere alta l’attenzione e per stimolare inferenze, deduzioni e altri processi logici complessi generando così configurazioni neurali forse superiori a quelle indotte dalla lettura profonda di cui ci ha parlato Maryanne Wolf. Un apparato digitale non incentrato su processi di individuazione profilanti, ma su relazioni proficue intraspecifiche ed extra-specifiche.

Anche il cervello biologico, al pari di quello digitale, lavora per processi di inferenza, deduzione e induzione che possono essere simulati dalla macchina ma per farlo sia noi che la macchina dobbiamo scremare dalla complessità percettiva attraverso un qualche metodo per non operare sulla totalità dei sememi percettivi. Noi lo facciamo attraverso un sapere che abbiamo immagazzinato in una configurazione neurale che filtra l’informazione a partire da accostamenti coerenti con i criteri di significanza che abbiamo costruito storicamente e relazionalmente. Una relazionalità che usa anche processi empatici, etici ed estetici. La macchina che lavora sul modello di apprendimento basato sull’analisi di grandi quantità di dati, usa invece solo e soltanto processi probabilistici. Il fatto che il suo addestramento sia avvenuto su dati estratti dal comportamento umano, fa sì che in misura probabilistica il suo metodo sia subordinato a quegli stessi processi di significanza che informano e caratterizzano – nel bene e nel male – l’esperienza delle intelligenze biologiche. Più dati la macchina metabolizza, più il suo output avrà la probabilità di fornire dei risultati umanamente usabili. Tutto qui. Con una probabilità sempre più ridotta di dare risposte errate e/o non pertinenti. Una probabilità che per quanto piccola rimane presente. Il fatto è che a lungo andare la continua frequentazione con la macchina, con la pervasiva presenza degli algoritmi, crei una alta probabilità che il pensiero umano si riconfiguri su quello macchinico; una convergenza al centro, al senso comune che diventa sempre di più luogo comune. Uno spazio dove la significanza si riduce; dove la devianza è inaccettabile; dove la creatività e la possibilità dell’emersione di novità si riduce sempre di più, collassando in un mondo automatico dove il cervello umano diviene superfluo.

Il mondo smart, l’intelligenza implementata nelle cose, animate e inanimate, che si sovrappone a quella relazionale che proviene dai rapporti che le cose intrattengono con noi e tra di loro, è un’intelligenza priva di empatia. La memoria configurazionale, i neuroni specchio, che si configurano in nome di un’economia relazionale che si sedimenta in queste con-figurazioni affettive che segnano il nostro modo di abitare il mondo, in definitiva le nostre abitudini. Abitudini che non sono processi automatici in-scritti in maniera indelebile da qualche parte del nostro corpo. L’attributo smart diviene allora un processo di sottrazione di mondo. Esemplificativo del funzionamento dell’intelligenza delle cose che le può fregiare dell’attributo smart, è l’auto smart che culmina nel progetto dell’auto a guida automatica. Il pilota automatico degli aerei funziona perché l’aereo si muove in ambiente tendenzialmente uniforme nel quale le varianti si riducono a pochi fattori. Una performance per altro di poca cosa se confrontata con quello di uno stormo di storni che si muovono in sincro in gruppi di centinaia di soggetti. Lo possono fare perché hanno configurazioni empatiche nel corredo comportamentale. Una qualcosa che anticipa in automatico il gesto all’osservazione del gesto dell’altro/altra. È come avere a che fare con un cervello collettivo, con un cervello decentrato in una rete, i cui nodi “pensanti” sono uniti tra di loro da questo legame empatico che prende il comando. Per il motivo opposto l’auto a guida automatica è in terribile difficoltà nel trovarsi immersa in un contesto complesso fatto di un numero esorbitante di variabili e in particolare da quelle varianti costituite dalla presenza umana o animale. Senza un apparato empatico la macchina non sa predire il comportamento delle creature animate che trova nel suo percorso. Senza empatia la AI generative TTI (Text To Imagine) sono in difficoltà a generare delle mani perfettamente plausibili perché sono in difficoltà nel cogliere gli innumerevoli patterns riconoscitivi che caratterizzano la parte più mobile del corpo umano. Esercitiamo una forma di empatia anche nella lettura. La lettura – al di là del carattere freddo del medium se confrontato con il calore della voce, del dialogo faccia a faccia, in presenza – innesca anch’essa dei processi empatici. Il racconto, la storia, scritta o parlata, sono allora dei moltiplicatori di esperienze.

“Il rafforzamento continuo delle connessioni fra i vari processi analogici, inferenziali e empatici e le conoscenze di base [l’insieme delle nostre esperienze] è in grado di operare ben oltre la lettura. Quando impariamo a connettere sempre più spesso questi processi durante la lettura, diventa anche più facile applicarli alla nostra vita, sbrogliando i motivi dalle intenzioni e comprendendo con maggiore perspicacia, e forse saggezza, perché gli altri pensano e provano certe emozioni”. (Wolf 2018, pp. 61-62)

___________________________________________
Mayanne Wolf, Lettore vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale, Vita e pensiero, Milano 2018

Le immagini sono state generate da una AI (Text to Imagine) su prompt dell’autore.

The following two tabs change content below.

Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

Ultimi post di Gilberto Pierazzuoli (vedi tutti)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Captcha *