La ragione Estetica e le AI (Intelligenze Artificiali)

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Come si genera l’estetico?

Estetica viene dal greco αἴσθησις (aisthésis) che sta per sensazione e che rimanda al sentimento. È dunque qualcosa che va al di là della semplice percezione e riguarda, appunto, le sensazioni che una percezione o un evento provocano; un evento che spesso coincide con una percezione sensoriale. È qualcosa che ha a che fare con i sensi. In particolare e originariamente con quello del gusto, termine che si è così successivamente affrancato dalla sua stretta dipendenza dalle papille gustative, prendendo un’estensione più generale che dà luogo alle locuzioni: con gusto, gusto estetico, di buon gusto. Essere di buon gusto è dunque un fatto estetico. In questa accezione e in questa connessione tra estetica e gusto, si aprirà successivamente l’estensione dell’estetico agli altri sensi e in particolare a vista e udito – sensi non prossemici – e soltanto marginalmente all’olfatto, essendo questo un senso di potenza ridotta negli umani, se lo confrontiamo con quello di altri mammiferi. Probabilmente un’estetica canina avrebbe molto a che fare con gli odori, mentre quella umana si è estesa in maniera consistente nel campo delle arti figurative e in quello della musica. Il fatto estetico avviene dunque quando la percezione si evolve in sensazione. In qualcosa che abbia un suo sapore.

Il sapere è una declinazione del sapore. In un certo senso, appunto, la capacità di trasformare la percezione in sensazione. La parola sophós – σοφóς – (saggio), “etimologicamente essa appartiene alla famiglia di sapio, gustare, sapiens il gustante, saphés percepibile al gusto. Noi parliamo di gusto nell’arte: per i Greci, l’immagine del gusto è ancora più estesa. Una forma raddoppiata Sisyphos, di forte gusto (attivo); anche sucus appartiene a questa famiglia”[1]. Da qui lo sviluppo del termine gusto tende a coprire il campo semantico che designa quella forma speciale di sapere che gode dell’oggetto bello e quella forma speciale di piacere che giudica della bellezza[2]. Gusto come interferenza di sapere e piacere, dice Agamben citando Kant. “Un sapere che non può dar ragione nel suo conoscere, ma ne gode”, prosegue. Il gesto estetico è allora la costruzione di un apparato di messa in relazione, di “comunicazione”, continuamente mediato nel rapporto con l’altrə, attraverso il quale provocare nell’altrə, una qualche forma di piacere. Ritornando al sapore, il condimento e la cottura del cibo sono allora tra i primi atti estetici del sapiens (l’animale “sapido”). Non a caso l’indizio che segna mitologicamente la nascita dell’era della tecnica, è il gesto prometeico che dona il fuoco agli umani. Il fuoco che permette un salto evolutivo della specie, riducendo esponenzialmente i tempi digestivi nel passaggio alla cottura degli ingredienti.[3] L’estetica è così fortemente concatenata con le relazioni. L’altrə da sé, che è il simile ma non lo stesso, è la controparte con la quale mediamo nel rapporto una convenzionalità, che porta non soltanto una lingua comune, ma a tutta una serie di abitudini attraverso le quali si definiscono sempre di più l’ambiente e la casa comune tutta. “Ogni modo di espressione di una società poggia […] su un’abitudine collettiva o, ciò che è lo stesso, sulla convenzione” (Saussure, p. 86). Non soltanto strumenti di efficienza ma anche strumenti di piacere. E se a farla da padrone sono inizialmente i sensi prossemici, i corpi desideranti, con l’invenzione delle tecnologie mnestiche con le quali riusciamo a relazionarci in differita (la scrittura e i suoi derivati), si assiste a un progressivo passaggio verso la vista e verso l’arte figurativa. Un passaggio che sposta la relazione dal piano estetico a quello etico, dominato dalla tecnica. Anche il potere evocativo delle immagini perde importanza. È il passaggio della cultura e della grammatica della consuetudine – mediata dal continuo dialogo – alla prescrizione, alla legge scritta. Il passaggio del senso del termine nomos che si riferiva all’uso comune, diffuso e consuetudinario, alla legge. Dal pascolare nei campi comuni, alle recinzioni dell’accumulazione capitalista.

La relazione dialogica degli umani produceva, sistematizzandola in una estetica aperta, strumenti di piacere. La tecnica, padroneggiata dal capitale, riduce quegli spazi di piacere, sistematizzando invece una estetica dell’efficienza alla quale fa da contraltare soltanto un’estetica dell’impotenza. Un processo che culmina nella trasformazione degli oggetti estetici in merci. Nello stornamento della libido dalla relazione con l’altrə verso dei simulacri oggettuali o nella (quasi) improduttività alla Duchamp.

Le lingue umane non sono mai state tassonomicamente efficienti. Il dire non esauriva mai la comunicazione. Lo spazio della comunicazione/relazione era uno spazio aperto: c’era l’impossibilità della sua chiusura, non era circoscrivibile[4]. Era più un campo di forze attraversato da flussi simbolici e di desiderio, da presenze umane e non umane. Il senso si ricostruiva ogni volta, cambiava ad ogni con-testo.

Il contesto può essere definito in generale come l’insieme di circostanze in cui si verifica un atto comunicativo. Tali circostanze possono essere linguistiche o extra-linguistiche. Per riferirsi alle prime, nell’ambito della linguistica del testo si parla anche di co-testo. Più precisamente, il co-testo di una frase è costituito dall’insieme di frasi che la precedono o la seguono in uno stesso testo e nella stessa conversazione. Il co-testo è dunque una particolare componente del contesto d’uso linguistico.

Il contesto d’uso linguistico comprende la situazione fisica spaziale e temporale in cui avviene l’atto comunicativo, il suo co-testo, la situazione socio-culturale entro la quale esso si definisce (status e ruolo degli interlocutori, formalità o informalità della comunicazione, ecc.), la situazione cognitiva degli interlocutori (le loro conoscenze circa l’argomento della comunicazione e altre situazioni comunicative pertinenti per quella in corso, l’immagine che ognuno ha dell’altro e delle sue conoscenze, ecc.), così come la loro situazione psico-affettiva.[5]

Le attuali AI di tipo LLM come ChatGpt o Bard, che hanno sollevato un polverone mediatico incredibile, non fanno niente di intelligente dal punto di vista umano. Certo, esercitano una loro intelligence macchinica. Lavorano soltanto sul co-testo e non sul contesto portandosi dietro dei difetti pesanti come quello di inventarsi le cose. Pescando tra i lemmi probabili possono estrarre anche quelli inopportuni. Gli umani sono pieni di espettorazioni verbali inopportune. Buoni margini di miglioramento ci sarebbero ma sono fuori dalla scorciatoia di cui abbiamo già parlato. Bisognerebbe creare subroutine inferenziali basate su modelli che descrivano i contesti, ma anche per questa strada non si arriverà a destinazione. Il linguaggio umano è ambiguo e deve rimanere tale. In discussione non c’è soltanto il linguaggio ma anche molte concezioni estetiche. In primis lo slittamento del piacere verso un’etica della contemplazione, della figurazione mimetica. “L’arte come imitazione della natura comunica in modo essenziale col tema catartico. […] L’arte non è l’imitazione della vita, ma la vita è l’imitazione di un principio trascendente col quale l’arte ci rimette in comunicazione”[6] diceva Artaud. Certo, le AI linguistiche si affineranno attraverso le tante interazioni con gli utenti e con i dati che gli utenti stessi mettono in rete. Dall’altra parte il sistema tecnico, di cui queste AI sono espressione, tenderà a comprimere l’offerta linguistica in binari tali da rendere computabili le forme linguistiche espresse dagli umani. Per cui, a un arricchimento delle AI, si accompagnerà un impoverimento del linguaggio umano. Il punto di stasi sarà probabilmente più vicino a una meccanizzazione del linguaggio che non a una umanizzazione della macchina.

L’ambiguità è intrinseca al linguaggio umano. La non completa sovrapposizione di voce e scrittura ne testimonia questa lontananza. La legge scritta può così nascere dentro l’apparato scritturale e non nell’arena dialogica. Dentro la scrittura si sviluppano forme culturali che si possono allontanare dal vissuto umano. La lingua parlata ha spinte evolutive e trasformative più intense di quella scritta. Il latino e il volgare tendevano a divergere. La convergenza è stata resa possibile attraverso due operazioni fondamentali che caratterizzano quella che si è chiamata la questione della lingua: l’uso dantesco del volgare e la convenzione manzoniana che riportava la lingua letteraria a confrontarsi con un dialetto a scapito di tutti gli altri. La televisione operò definitivamente in questa direzione.

Non furono uccisi così soltanto i dialetti ma tutta quella cultura che Illich chiamava vernacolare. Si tratta di quella che De Martino chiamò una fine del mondo. Il linguaggio vernacolare manteneva infatti forme ricche di ambiguità. L’elemento dialogico confluiva in una forma di verità autenticata dal consenso che l’aveva generata. Il con-senso è quello che le macchine (queste macchine) non stanno chiedendo. Tutta la retorica, la costruzione e l’espressione metaforica, si basano sulla non univocità del linguaggio. Lo stesso linguaggio simbolico è veicolato da questa ambiguità. C’è poi un’istanza di economicità del mezzo espressivo: l’ambiguità, in linguistica, è una caratteristica delle lingue verbali, per cui la corrispondenza fra significante e significato o fra elementi dell’espressione ed elementi del contenuto non è strettamente biunivoca. Tale condizione, cui si sopperisce attraverso la contestualizzazione dei segni, permette di limitare l’estensione del codice linguistico a un numero di significanti più semplicemente memorizzabile (qui).

L’incontro con l’altrə va verso la costruzione di un noi. Siamo una specie sociale e abbiamo bisogno della collaborazione altrui. L’incontro originario, che poi si ripete e si rinnova all’infinito, non ha come basi la classificazione dell’altrə in amicə-nemicə che sta alla base della dialettica hegeliana di servo signore, ma la costruzione di un noi. Certamente il fatto di essere una specie sociale come le api, le formiche e molte altre, di avere per questo un linguaggio (anche questo non in termini esclusivi), di avere non soltanto la capacità di sviluppo di tecniche, ma di dipendere da questa capacità, ci fa essere la specie che siamo. Non si tratta di caratteri esclusivi, ma di caratteri descrittivi e, in fin dei conti, inclusivi. Questo intreccio non è però un semplice dato genetico, è un percorso che si ripete ogni volta. Si ha così che dove i tre aspetti si incontrano si possono generare forme di sociazione variamente organizzate. Una estetica presuppone un noi, così come un’etica. Quest’ultima è una conseguenza della realizzazione di un rapporto che si muoveva su un piano affettivo dove scorrevano flussi di desiderio, di un piano estetico. Un’etica sistematizzata e consolidata può dare luogo a istituzioni più o meno aperte. Un’estetica è tale perché, come abbiamo visto, si occupa di questioni di gusto, perché in definitiva veicola forme di piacere. A un certo punto si è data la possibilità di una costruzione etica senza un riferimento a un’estetica generativa. Questo è stato possibile nel momento in cui le combinatorie semantiche, i processi di significazione, hanno potuto attuarsi non in presenza, ma nello spazio differito della scrittura. Non che la scrittura, ogni tipo di scrittura, operi in questo senso, va sottolineato soltanto il fatto che questa tecnica rende possibile un’operazione di questo tipo. Se confrontiamo la potenza delle attuali macchine cognitive con la scrittura, abbiamo una misura della possibilità di costruire un’etica totalmente sganciata da ogni forma di affezione. È quello che sta avvenendo sotto il comando capitalistico delle macchine.

Anche la costruzione di un linguaggio si può muovere in questa direzione. L’incontro originario con l’altrə dal quale si costruirà un noi che metterà in atto un processo generativo di una lingua comune, della lingua di quel noi, si articola attraverso forme di comunicazione di tipo gestuale che si basano sul patrimonio empatico che l’incontro con l’altrə provoca. Qui la voce è gesto, non ha ancora un suo apparato convenzionale di riferimento, anzi, questo apparato si mette in moto e viene generato a partire da quelle prime interrelazioni. Da una lallazione primigenia, quella capacità infantile di “accumulare delle articolazioni che non è dato trovare in nessuna lingua particolare o addirittura in nessun gruppo di lingue”[7], da quell’apice del balbettio che dimostrava la mancanza di limiti delle capacità fonatorie del borbottio infantile.

Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. […]. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva […]. (Levi, Primo, Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino 1995, p. 166)

Da questo caosmo linguistico il gesto fonatorio carezza l’altrə, le/gli soffia in un orecchio, reagisce, torce il corpo, accoglie il ritmo, danza. La lingua si forma sulla spinta di un corpo verso l’altro corpo, il corpo altro. Sotto la spinta di un flusso desiderante. Del desiderio che tu mi desideri. Un’articolazione fonatoria che è propensione. È creazione che scaturisce da un’urgenza. Dall’urgenza del noi. Per questo l’approccio statistico basato sui dati, la cosiddetta intelligenza della macchina non ha niente a che vedere con l’intelligenza umana.

Poi tutto fu dato. Ma dentro a tutto il già dato, la grammatica del noi continua nel gioco combinatorio a profferire locuzioni inenarrate, parole sussurrate, versi ambigui che lasciano all’ascoltatore l’onere della decrittazione. Ma la macchina cognitiva capitalista continua a pescare in quel calderone le correlazioni che il già detto ha creato e continuamente le rimette in circolo in un loop parossistico che mette ordine al linguaggio sino a quando il dire non sarà già stato pre-detto dalla macchina.

La macchina non imparerà a parlare con gli umani, non li capisce, non è interessata a capire. Data, il robot di Star Trek che aspira a diventare totalmente umano, è un personaggio, un artificio umano pensato per fare emergere il carattere degli umani. La macchina capitalista è invece totalmente disinteressata. Le AI linguistiche basate sul deep learning lavorano sulle combinatorie di stringhe, così facendo possono riuscire a trasportare molto del senso contenuto nella produzione linguistica umana. Ma ricombinare il già detto conterrà sempre la probabilità di estrarre una combinazione corretta sintatticamente, ma falsa. È la visionarietà delle AI. Un difetto quasi umano. Ma non c’è niente di visionario. È una probabilità intrinseca al metodo. Qui un esempio.

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  1. Nietzsche, Friedrich, I filosofi presocratici. A cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Torino: Adelphi, 1964
  2. Cfr. Agamben, Giorgio, Gusto, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 10-11
  3. Cfr. Pierazzuoli, Gilberto, Mangiare donna. Il cibo e la subordinazione femminile nella storia, Jouvence, Milano 2016
  4. Derrida, Jacques, Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione, in Idem, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971.
  5. https://www.treccani.it/enciclopedia/contesto_(Enciclopedia-dell’Italiano)
  6. Antonin Artaud citato in Derrida, Jacques, Il teatro della crudeltà, op.cit., pp. 301-302
  7. Jakobson citato da Heller-Roazen, Daniel, Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue, Quodlibet, Macerata 2007

Le immagini sono state generate da una AI su prompt dell’autore

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Gilberto Pierazzuoli

Attivista negli anni 70 . Trasforma l'hobby dell'enogastronomia in una professione aprendo forse il primo wine-bar d'Italia che poi si evolve in ristorante. Smette nel 2012, attualmente insegnante precario di lettere e storia in un istituto tecnico. Attivista di perUnaltracittà.

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