Scrittura, continuità, frammentazione: riflessioni sulla critica al capitalismo digitale in Gilberto Pierazzuoli

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Pubblichiamo qui la prefazione di Igor Pelgreffi al doppio volume di prossima uscita della nostra casa editrice “perUnaltracittà” che ha pubblicato in precedenza diversi ebook militanti, snelli e graffianti e che inizia perciò l’avventura di cimentrsi anche in libri cartacei come questo doppio volume che completa la trilogia Per una critica del capitalismo digitale iniziata con la pubblicazione di Il soggetto collaborativo uscito nel 2022 per “ombre corte” di Verona.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato
Eugenio Montale

Come scrivere in modo tale che il flusso continuo della scrittura lasci spazio ad un intervento fondamentale dell’interruzione come senso e della rottura come forma?
Maurice Blanchot

Scrittura “del” mondo

Vorrei partire dal mezzo: dal medium espressivo, dalla techne compositiva di Gilberto Pierazzuoli. Se vogliamo, dalla “sua” scrittura: la scrittura “di” Gilberto e, assieme, la scrittura “del” libro stesso, il suo svolgersi e dispiegarsi in quanto produzione. Partire, cioè, dalla forma e dalla materia di cui il libro è fatto, in cui esso si sostanzia e prende corpo. La forma e la materia, assieme. Nei due ampi volumi, Ecologie e Tecnica. Per una critica del Capitalismo Digitale 2 e Dalla parte di Epimeteo. Per una critica del Capitalismo Digitale 3, nei suoi quasi sessanta paragrafi, il libro punta lo sguardo sul mondo che si propone di criticare, in primis quello del capitalismo digitale nelle sue forme composite e talvolta “impreviste”, per usare un termine caro a Ubaldo Fadini. Mi interessa, però, rimarcare la leva strategica di un certo modo “di scriversi” del libro: se mai esiste critica, infatti, essa prende corpo attraverso una strumentazione di scrittura “del” mondo (genitivo soggettivo/oggettivo) che restituisce, a sua volta, una scrittura consustanziale (quasi…) al mondo osservato, alla materia osservabile di cui noi siamo parte (una quasi reversibilità soggetto/oggetto).

Sino a che punto il libro esprime questa spinta verso il fuori, verso il “non” dell’astrazione? Sino a che punto si attua, qui, una certa potenza di esplorazione dell’esistente, ovviamente sul crinale di una decisa, radicale critica del capitalismo digitale? Difficile dirlo. Quel che sappiamo è che qui emerge una scrittura del datum storico, come registrazione/ripetizione di dati, cioè come traduzione in parole di una moltitudine di sondaggi esplorativi in falde e terreni anche molto diversi tra loro; e che tutto questo si struttura, pagina dopo pagina, passo dopo passo, secondo una ritmica che vorrebbe essere appunto il tempo, il passo di una critica del capitalismo digitale. Impresa non di poco conto, come ovvio. Al pari di ogni critica al Capitale, su un piano intellettuale, come anche Marx sapeva e ricordava spesso, l’elemento da criticare non è mai semplice presenza oggettuale: esso simultaneamente si nasconde e si esprime nel mondo storico. Quel mondo storico che, con Pierazzuoli, rintracciamo, mappiamo, inseguiamo (senza mai raggiungerlo: sempre indietro o inattuali) nell’infosfera, nel lavoro subordinato del 4.0, nella reticolare e drammatica “idea fissa” che è internet, nell’esaurimento dei corpi, sovraesposti e spesso impotenti attori nello sfruttamento che li coinvolge, li fa essere, li nutre o li illude.

Ecco il punto, la leva: la scrittura – dunque la forma e la materia, assieme – quale asse centrale di un’istanza di contestazione o, se si vuole, di una forma di critica immanente, soprattutto nel senso in cui le dinamiche che uniscono e separano forma e materia, se pensate come “dinamiche di scrittura”, sono dinamiche di composizione, di agglomerazione: di produzione, per stare su uno dei temi chiave che attraversa l’intero libro. Ma di che tipo di scrittura si tratta? In che rapporto essa viene posta, rispetto al rischio di essere dominati dal linguaggio che si usa, di essere solamente, come automi, parlati dalla parola dominante? Si tratta di una scrittura complessa, è il meno che si possa dire, in quanto essa risulta sospesa, direi meglio “in tensione”, tra il frammentario e il flusso.

Esplorazione critica del mondo storico-esistenziale

La tensione tra il continuo e il frammento, l’insistenza dello stare tra i due, nell’entredeux, rappresenta la principale qualità filosofica della produzione di ragionamento di Pierazzuoli. Ripetiamolo: il libro si presenta come un viaggio nel presente, un’esplorazione del mondo economico-sociale o, il che è lo stesso, un sondaggio intensivo sulle disarmonie del mondo storico-esistenziale. Ma questo suo essere è assimilabile a un ritmo, forse a una danza: registrazione e contrappunto; analisi distaccata e, assieme, esperienza dell’attrito, dello sforzo (conatus?), del dissenso del nostro stare dentro. Dentro/contro il Capitale, potrebbe forse dire l’autore, posizione ibrida che il libro davvero esprime nelle sue mille articolazioni: dall’arte in senso ampio alla dimensione estetica connessa al digitale; dagli organismi microbiologici (il libro si apre con un’illuminante analisi dei funghi, dal libro di Anna L. Tsing) a Elon Musk; dall’ecosocialismo di Michael Löwy alle posizioni di Timothy Morton; dal concetto di tecnocene alla letteratura utopico/dispotica sui robot da compagnia, come in Klara e il sole, romanzo recente di Ishiguro. E potrei/dovrei continuare… ma è davvero arduo, in poche pagine, stare sui molteplici contenuti di questo libro. Posso solo ricordarne qualche elemento, non dopo aver detto del suo impianto, a mio parere, molto solido: una chiara coscienza della necessità di tornare, ogni volta, alla struttura del Capitale e alle sue figure, coscienza che attraversa – in misura variabile – l’intero testo. La figura del Capitale come entità caratterizzata da crisi strutturali, periodiche e necessarie al suo sviluppo, è uno dei vettori di senso onnipresenti nella trattazione. E, dunque, lo scopo delle tecnologie digitali e del loro costante rinnovarsi, a ritmi non sostenibili per noi umani, di cui lungamente Pierazzuoli disquisisce, ad esempio le applicazioni recenti dell’intelligenza artificiale come le Chatbox, è quello di “concentrare ancora di più la ricchezza e ricreare ancora una volta una crisi da sovrapproduzione in rapporto al crollo della domanda diffusa” (p. 215), come già evidenziato da Marx e Engels nel Manifesto del partito comunista del 1848. In altri termini, se si vuole ragionare (in chiave critica) sul “come funziona” l’intero apparato del Machine Learning, estesissimo dispositivo epocale che da ChatGPT (generatore automatico di testi) arriva oggi a Midjourney (generatore automatico di immagini) sino all’ormai (solo apparentemente) banale Google Translator, non ci si può che disporre lungo quel solco, che è teorico-politico e non meramente tecnico-ingegneristico. Un solco cui pertiene anche, altro aspetto tipico del libro, l’appello a tenere nel dovuto rilievo il pratico rispetto al teorico, come nella distinzione, in relazione alle macchine “intelligenti”, tra “capire” un testo e “dedurre”, su base statistica, un testo (p. 217), quindi tra generare insensatamente una scrittura testuale e l’opzione del collocarsi “altrove” rispetto a tale flusso statistico-automatico. Quasi come in una sorta di empirismo radicale, lo spazio del teorico, dell’explainibility di “che cosa fa l’algoritmo” (come noto, i programmatori del Machine Learning confessano oggi di non avere il pieno controllo razionale degli output) tende a ridursi: così, le sorprendenti/sconvolgenti implementazioni degli algoritmi, nonché il gioco di specchi tra noi e loro, spingerebbe sino alla ipotesi di un mondo “Theoryless” (p. 218), uno scenario di assenza totale di teorie sul comportamento futuro. Della macchina, ma anche dell’umano.

Ora, il problema è che questo, assieme a molte analisi del libro, può essere colto solo auscultandone attentamente il basso continuo: in ogni pagina, in ogni curva o sorpasso di parole, in ogni pausa o ripetizione, l’atmosfera critica – se posso dire così – è ben chiara: tutto, sia quel che “vediamo”, sia quel che “non vediamo”, è completamente inscritto nella “logica” capitalistica: le frasi, le pause, le virgole, le stesse ripetizioni apotropaiche del danno futuro, della sostituzione o dell’esonero, l’ovvietà del ruolo causale dei rapporti tra sfruttatore e sfruttati nelle produzioni digitali, a vari livelli, piani, intersezioni… Per restare ancora nell’elemento “caldo” della scrittura e della tecnica compositiva, proseguiamo con un piccolo esempio. Il fatto che l’intera dimensione tecnologica sia (da sempre) implicata nella dimensione della “lotta”, trova espressione in una reiterazione, da parte dell’autore, di passaggi come il seguente: “lo strumento tecnico non è neutrale, è anch’esso l’espressione dei rapporti di forza che la società espri­me” (p. 223), che scivola poi in mille altri rivoli, e poi in analisi raffinatissime, acute e improvvise nella pagina: tutto accade come se pensasse a voce alta (ma chi? l’autore o il lettore?) o, meglio, immergendo il lettore in una sorta di stream of consciousness.

Non potrebbe questo flusso rappresentare una nuova forma plastica di “presa di coscienza critica”, necessaria quanto fragile? Dispiegata e poi subito perduta, nei tornanti digitali che sono storici ed esistenziali al contempo? Ma non c’è sosta: enunciata quella proposizione, quel frattale concettuale, subito il testo discende altrove e lascia emergere altri motivi, tra cui quel voler ricordare al lettore il non è come sembra quale chiave di analisi dello user friendly. In fondo, questa è un’altra forma, attualizzata (cioè attiva ora, nel mondo digitale) del concetto del capitalismo come seconda natura, ovvero del suo “sembrare naturale’’, che già Marx indicava, anche, nel Manifesto. Ma, appunto, subito dopo quel frattale concettuale, quel frammento significante, diviene differente, immediatamente messo in connessione con ulteriori scenari. Per esempio, il ruolo della matematica nella critica al digitale:

Lo strumento tecnico non è neutrale, è anch’esso l’espressione dei rapporti di forza che la società espri­me. La matematica del capitale è infatti un formalismo apollineo, ma la generazione delle forme, dei pattern, forse di altri pattern rispetto a quelli che scovano gli al­goritmi del capitale, non avviene nello stesso modo. È al contrario un processo non lineare, forme dai contorni cangianti, un’ibridazione continua che alimenta modi di individuazione metastabili. Condensazioni ed evane­scenze. Epifanie che si liquefano e sublimano. La danza di uno stormo di uccelli. Assembramenti (Cimatti 2022) e concatenazioni (agencement). Polluzioni dal magma del caosmo guattariano. Una morfogenesi/cosmogenesi che fa re-incontrare la matematica e la filosofia e che non può non opporsi al riduzionismo capitalista dell’infosfera attuale (p. 223).

Si nota qui un riferimento ad alcune linee di tendenza della riflessione contemporanea, recentissime peraltro, come quella dell’eterogenesi differenziale di Sarti, Citti, Piotrowski[1], su una linea post strutturalista (che è poi anche quella di Pierazzuoli), post-deleuziana e guattariana. Ed è poi su tale sentiero che precipitano sulle pagine a seguire, via via, i criteri per quella critica del capitalismo digitale altra, più radicale ancora e, al contempo, più difficile, perché rara. Rara, come rari sono, per esempio, gli assemblaggi davvero produttivi di “novità”, in quanto accadono in condizioni particolari, sporadiche. Come la rivoluzione, per Deleuze.

I modi di ripetizione automatica nelle “macchine intelligenti” dovranno comunque prendere in carico alcune questioni, che Pierazzuoli analizza in dettaglio un po’ ovunque, ma in particolar modo nel Capitolo 5 – Intelligenze artificiali. Per esempio, la differenza tra addestramento e apprendimento. Capire questo scarto, è assolutamente fondamentale per orientarsi negli attuali dibattiti. La straordinaria capacità generativa di algoritmi come Midjourney o ChatGPT resta legata a una forma di apprendimento meccanico, mai “senziente” (in senso olistico), quindi un addestramento stimolo-risposta che porta la macchina a un apprendimento comportamentale sostanzialmente deprivato di “senso” benché efficace su base statistico-pragmatica. Tutt’altra cosa, seguendo Pierazzuoli, è l’apprendimento da parte dell’organismo umano, che concerne l’acquisizione di schemi e automatismi, è vero, ma da parte di un corpo, di più corpi, di una corporeità diffusa e aperta, con il suo carico di affetti, di attrito, di tendenze imperfette e devianti dalla ripetizione calcolabile. Un attrito che alberga nella natura dei corpi, che si rivelano dunque, come introduttori di clinamen, di elementi casuali e non calcolabili, nella ripetizione. La macchina, insomma, pensa diversamente: senza un corpo caldo. Ma sono proprio gli attriti corporei gli elementi necessari alla costruzione di pensiero critico: il corpo, l’ambiguità, i ritardi e i rallentamenti: l’attrito del pensiero, di cui parlava, anche se in modi e tempi diversi, Aldo Giorgio Gargani.

Solo un ultimo elemento, che merita di essere ancora riportato, e cioè la compresenza costante della questione ecologica e della questione tecnica, meglio: dell’emergenza ecologica sistemica e dell’emergenza digitale sistemica. Non si può immaginare una critica seria del capitalismo digitale senza ingaggiare anche la questione ecologica. Certo, in prima apparenza sembrano due questioni agli antipodi, ontologicamente, o quantomeno epistemologicamente, separate. In realtà, i due lemmi vanno giustapposti, quasi assemblati, direi. E Pierazzuoli impone tale coesistenza: scrive e ci restituisce questa contemporaneità orizzontale di ecologia e tecnologia. Si tratta, infatti, di due emergenze che hanno uno stesso ceppo d’origine, cioè lo sfruttamento capitalistico della natura, dei corpi, delle vite, delle macchine, persino. Le due cose assieme: o le si pensa assieme, o non capiremo nulla delle crisi attuali e future[2].

 

Scrittura come critica del capitale digitale: qualche appunto

Ma torniamo al motivo iniziale. Che cos’è la scrittura “di” Pierazzuoli, la scrittura “del” mondo che si vorrebbe criticare? Essa è un attraversamento: esplora l’esistente e in ciò percorre, supera, rileva le diversità formali (di figure e di casistiche) del Capitale odierno. Scrittura che pervade e cuce, annodandoli senza neutralizzarli, i mille riflessi del mondo e che, in questo suo essere sia continua che frammentaria, anela a divenire il vero elemento (la materia) della critica. Leggete Pierazzuoli, e avrete l’impressione di un lungo, interminabile flusso che non finisce dopo la chiusura del libro, che probabilmente era incominciato prima della sua apertura, dunque un raisonnement ininterrotto, insistente e densissimo, fatto di una prosa che rasenta spesso il “non finito” del tema osservato: in progress, come fosse una verbalizzazione involontaria di ciò che accade, di ciò che registriamo dell’esperienza del mondo “in crisi”. E il lettore, il suo cervello e la sua emozione, con lui. Certamente, però, la scansione nei quasi 60 paragrafi, e l’articolazione ulteriore, precisa, nitida, al loro stesso interno, riporta invece la scrittura alla dimensione dell’aforisma lungo, se non a quella del frammento. Un po’ come, mutatis mutandis, la scrittura in Nietzsche. Tale dinamica irrisolta tra l’argomentazione esibita a tratti (quanto basta, ma non troppo…) e l’omogeneità e la continuità di un carattere complessivo della spinta critica, nietzschianamente diremmo di uno stile, costituisce di per sé una dinamica di sicuro interesse. E questo per la ragione che, innanzitutto, tale scrittura è sporgenza sul mondo, diario e scannerizzazione delle sue crepe e delle sue interruzioni: una scrittura che pone se stessa quindi, in simbiosi con quella modalità frammentata e digitalizzata – ma anche drammaticamente continua – dell’esperienza della lettura e della scrittura, del lavoro e del riposo, dell’attività ma anche della passività, rintracciabile in molti dispositivi di comunicazione attuali.

Non può esservi critica al capitalismo digitale senza una preliminare immersione nella materia da criticare. Una materia, ecco il problema, che è informe, metamorfica, “altri-forme” e sempre altrove: eterodossa ma, contemporaneamente, contaminata dallo user friendly ed anche molto precisamente costruita, sul piano del suo perfetto funzionare, dal capitale in quanto basamento delle tecnoscienze e del mondo totalmente amministrato.

Materialmente, Pierazzuoli, per molte pagine, per decine di pagine, probabilmente per l’intero libro, assembla e compone: monta note di lettura, le fa propagare acusticamente e le porta in risonanza, elabora recensioni, giustappone analisi di altri autori, riunifica “registicamente” contenuti blog, brani da portali o, alternativamente, discussioni polimorfe che possono persino toccare, talvolta, il grado zero della scrittura, che forse è oggi quello di Facebook e analoghi social network. Tutto questo, inutile dirlo, è un vero e proprio lavoro, uno stare dentro la contraddizione, vivendola e scrivendola: una presa in carico estremamente seria di quella “dimensione materiale” troppo spesso trascurata, se non snobbata. Parlando di dimensione materiale mi riferisco, vorrei ripeterlo, non al singolo blog o alla singola webpage, né ai loro fragili frammenti, intesi come “opzioni formali”, ma mi riferisco a una dimensione di assemblaggio – non calcolabile da alcuna equazione – di questo set di stimoli esterni, di microtestualità che deborda ogni possibile frame teorico preordinato, di questa realtà come partes extra partes digitali compenetrantesi incessantemente tra loro. Si badi: parti eterogenee e spesso disarmoniche, quanto a tempi e modi sia di produzione che di fruizione/consumo, e che vanno forse oggi pensate come “brodo primordiale” di larvali forme materiali, che poi diventano mentali, che poi diventano lavorative, che poi ridiventano esistenza, base politica, ma anche sogno, inganno, realtà… e così via all’infinito (e non mi pare un elemento secondario, quello del rapporto con il “senza fine”, nella scrittura di Pierazzuoli). E se fosse questo “Zibaldone digitale” (non me ne vogliano gli studiosi del Leopardi) la forma davvero utile alla critica del capitale digitale, oggi? Se fosse là che ci si dovrebbe “sporcare le mani”, magari per intercettare finalmente, se ciò è possibile, anche (ma non solo…) le giovani generazioni, così allergiche alla pagina scritta tradizionale, alla sua struttura e al suo valore “dato per scontato”? per non parlare del caro e vecchio “libro”?

Mi tornano alla mente alcune osservazioni di Maurice Blanchot, segnatamente quelle ne L’infinito intrattenimento, libro uscito nel 1969[3]. Altri tempi, altra temperie culturale: libro molto lontano. Troppo? Non saprei… C’è qualcosa, anche nei percorsi di studio, di vita e di ricerca di Pierazzuoli, che risale al decennio immediatamente dopo il Sessantotto, e che rappresenta un’eco, sorda o invisibile, di quegli anni? Quasi un corrispondervi segretamente? Forse che le riflessioni di Blanchot sulla scrittura frammentaria colgono qualcosa nel movimento immanente della scrittura – dunque della produzione materiale – in Pierazzuoli? Me lo domando, e riporto, così, al lettore:

Una delle questioni che si pongono al linguaggio della ricerca è dunque legata a questa esigenza di discontinuità. Come parlare in modo da rendere la parola essenzialmente plurale? Come può affermarsi la ricerca di una parola plurale fondata non più sull’uguaglianza e la disuguaglianza, non più sul predominio e la subordinazione, non sulla mutualità reciproca, ma sulla dissimmetria e l’irreversibilità, in modo che tra due parole non esista sempre un implicito rapporto di infinità che sia come il movimento del significato stesso?[4]

Mi pare che sia esattamente questo “nesso (im)possibile” o “(im)presentabile” per la logica lineare, questa congiuntura tra pluralità e continuità della linea di scrittura, o di “pensiero critico”, l’elemento – la materia, appunto – che sostanzia il lavoro di Pierazzuoli. In altri termini: se il linguaggio esprime, nel suo fondo informe ma sostanziale (nel suo Grund come Ab-grund: fondo senza fondo…) null’altro che i rapporti di potere, in esso sedimentati; se il linguaggio reduplica, più o meno silenziosamente, gli assetti del potere istituito, la violenza trattenuta dei rapporti economici e sociali, insomma lo “stato storico” delle cose, come uscirne? Come cogliere quel valore “infinito”, seguendo Blanchot, dell’analisi, dell’indagine, della ricerca, senza che tutto questo divenga improduttivo nella storia e nei corpi? “Come scrivere in modo tale che il flusso continuo della scrittura lasci spazio ad un intervento fondamentale dell’interruzione come senso e della rottura come forma?”[5]. Sono domande che risuonano nel testo di Pierazzuoli, che ne ingombrano il ragionamento che pure si sviluppa, nei contenuti e nelle analisi, anche in un suo piano oggettivo (a cui, come dicevo, ho solamente potuto fare un rapido cenno) che il lettore troverà lungamente elaborato, nelle pagine che seguono. Ma resta, a mio avviso, questa tensione implicita: una intensità (come avrebbe forse detto Deleuze) come spinta informe che cerca forma, cioè una parola che, nello stesso movimento, frammenta ma ri-forma il senso. Il senso? Il senso del digitale oggi; il senso – se ve ne è uno – di una sua critica, sempre più urgente ma i cui spazi paiono restringersi progressivamente, se è vero che viviamo, pensiamo, costruiamo forme di dissenso stando dentro una società automatica, ricordando Bernard Stiegler.

Qualche cosa che, forse, ha che vedere con quanto Blanchot argomentava a proposito di Nietzsche:

La parola frammentaria è parola solo al limite. Ciò non vuole dire che parli solo alla fine; tuttavia essa accompagna e attraversa, in ogni tempo, ogni sapere e ogni discorso con un altro linguaggio che lo interrompe attirandolo, sotto forma di raddoppiamento, verso il fuori dove parla l’ininterrotto, la fine che non finisce[6].

Per concludere. È forse la mia soltanto una sensazione, ma la scrittura di Pierazzuoli, la scrittura “della” crisi come “metodo” di produzione, in una certa misura prende in carico quella sorta di écriture du désastre, per proseguire sui riferimenti blanchottiani, interpretandola però in senso davvero critico, quindi col sapore di un naufragio positivo, “dolce” (Leopardi), diversamente affermativo. Un disastro anche creativo, dove cioè è il lettore a dover costruire il proprio orizzonte e, assieme, la propria zattera di sopravvivenza. L’autore si limiterà – non è poco – a consegnare al lettore le condizioni di possibilità/impossibilità della critica: non chiederci la parola che squadri da ogni lato…, scriveva Montale. Ma, assieme a Montale, occorre assumere anche Beckett, e il suo “continuare”:

Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna continuare, e allora continuo, bisogna dire delle parole, intanto che ci sono, bisogna dirle, fino a quando esse non mi trovino, fino a quando non mi dicano, strana pena, strana colpa, bisogna continuare, forse è già avvenuto, forse mi hanno già detto, forse m’hanno portato fino alla soglia della mia storia, davanti alla porta che si apre sulla mia storia, ciò mi stupirebbe, se si apre, sarò io, sarà il silenzio, là dove sono, non so, non lo saprò mai, dentro il silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuerò.[7]

  1. Cfr. A. Sarti, G. Citti, D. Piotrowski, Differential heterogenesis and the emergence of semiotic function, “Semiotica”, Vol. 230, 2019, pp. 1-34 e il volume recentissimo, Cfr. A. Sarti, G. Citti, D. Piotrowski, Differential Heterogenesis. Mutant Forms, Sensitive Bodies, Springer 2022.
  2. Sia permesso, su questi aspetti, un rinvio a I. Pelgreffi, È possibile una tecnica ecologica? Ipotesi su incorporazione, ripetizione, differenza, in (a cura di M. Pavanini) Tecnica. Figure e strutture dell’artificio, KE Edizioni, Pompei (NA) 2020, pp. 159-196; Id., Il corpo come soglia tra ecologia e digitalizzazione. Ripetizione e apprendimento critico, in “Eco/logiche”, Millepiani n. 42 (a cura di T. Villani e U. Fadini), Manifestolibri, Roma 2021, pp. 47-59 e Id., Ecologia, tecnica, corpo: un milieu necessario, in (a cura di B. Bonato e R. Kirchmayr) la filosofia e la crisi ecologica, Mimesis, Milano 2023, pp. 89-99. Più in generale, per la questione critica di un’ecologia che deve prendere in conto anche la tecnica, e viceversa, quale momento non accessorio alla costruzione di uno sguardo filosofico che si voglia realmente critico, si rimanda il lettore ai lavori del Gruppo di Ricerca Officine Filosofiche, ad esempio, M. Iofrida (a cura di) Scienza tecnica capitalismo. Una prospettiva ecologica, “Officine filosofiche” vol. 5, Mucchi, Modena 2020 o, anche, M. Iofrida (a cura di) Ecologia, decrescita, dispositivo, “Officine filosofiche” vol. 4, Mucchi, Modena 2018.
  3. M. Blanchot, L’infinito intrattenimento (1969), nuova tr. it. di R. Ferarra, da cui si cita, La conversazione infinita. Scritti sull’“insensato gioco di scrivere”, Einaudi, Torino 2015.
  4. M. Blanchot, La conversazione infinita, cit., p. 11.
  5. Ivi, pp. 11-12.
  6. Ivi, p. 197.
  7. S. Beckett, L’innominabile, tr. it. A. Tagliaferri, Einaudi, Torino 20182, p. 172.

Le immagini sono state generate da una AI Text To Image su prompt di Gilberto Pierazzuoli

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Igor Pelgreffi

Igor Pelgreffi (Ravenna, 1971), è un ricercatore dalla doppia formazione: ingegnere e filosofo. Attualmente insegna nelle Scuole Superiori a Bologna e all’Università di Verona. Tra i suoi libri recenti: Filosofia dell’automatismo. Verso un’etica della corporeità (2018), Figure dell’automatismo. Apprendimento, tecnica, corpo (2022)

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