Scrivo mosso dall’articolo, ormai di qualche anno fa, intitolato “Dove andiamo?” (La Città invisibile, 29 settembre 2020). Propongo qui alcune riflessioni che scaturiscono dalla mia partecipazione al gruppo “Statuto in Transizione”, un piccolissimo gruppo informale nato qualche anno fa a Firenze nella zona di Statuto e ispirato al movimento delle “Transition Towns” di Rob Hopkins. Il gruppo propone attività di quartiere tentando di rafforzare le relazioni di vicinato e proponendo riflessioni su tematiche ecologiche nel tentativo di immaginare insieme su un futuro diverso.
Sì, è vero siamo in un momento di forte spaesamento, la strada da seguire nel tentativo di fare una “vita buona” si perde nella nebbia pochi passi davanti a noi. Forse questa nebbia si è addirittura infittita negli ultimi anni e questo nonostante tutti gli sforzi, tutte le denunce accorate di situazioni ingiuste e tutte le lotte vinte. Alcune volte sembra addirittura che le energie spese si dissolvano andando ad alimentare quella nebbia che ci confonde. Forse il motivo di questo fenomeno è che in realtà ogni tentativo di fermarsi a riflettere proponendo alternative all’attuale modello socioeconomico, effettivamente danneggia il sistema produttivo capitalistico globalizzato (la megamacchina) di cui noi, come consumatori, facciamo integralmente parte.
Siamo tutti consumatori. Dal professionista con SUV e vestiti firmati al ciclista ostinato con lo zainetto di Decatlon. Il livello di consumo può variare per possibilità economica o per scelta personale ma l’essenza della questione non cambia: siamo consumatori. Siamo legati a doppio filo al sistema che ci mette a disposizione tutto quello di cui abbiamo bisogno, dal più sofisticato degli strumenti all’ultima briciola di pane sulla nostra tavola. Per sua costituzione la megamacchina può esistere solo se in costante crescita, se il PIL non aumenta ogni anno l’economia collassa. Come un centometrista che scatta dai blocchi di partenza, può rimanere in equilibrio solo se in costante accelerazione. È in questo contesto allora che le lotte, il fermarsi un attimo per riflettere su cosa sia meglio fare (inceneritori, aeroporti, TAV) diventano atti che minano alla base il sistema e con questo, come consumatori obbligati, la nostra stessa capacità di sopravvivenza. È questa la dinamica che forse non permette a nessuno di iniziare una vera critica, di pronunciare parole alternative senza perdersi nella nebbia: “Sto combattendo quello che non voglio o sto combattendo me stesso?”. In fondo percepiamo chiaramente che essendo parte integrante di un apparato produttivo così enorme, veloce ed instabile non facilitarne la corsa significa mettere in discussione la nostra stessa esistenza. Questo crea inevitabilmente un intimo cortocircuito, da una parte il cambiamento climatico, il collasso ecologico, il malessere sociale e umano e dall’altra la sensazione latente che ogni critica, ogni manifestazione di dissenso, ogni pausa di riflessione ci porti, in definitiva, a negare noi stessi.
E quindi “dove andare?” per migliorare il mondo, per contribuire positivamente all’armonia del tutto, per “essere felici senza rendere infelici gli altri” (Nausicaä della valle del vento, H. Miyazaki 1984), per avere qualcosa da raccontare ai nostri nipoti quando ci chiederanno: “Ma te cosa hai fatto mentre accadeva tutto?”. Forse per inventarci una destinazione realmente nuova sarebbe necessaria una diversa sensibilità, un altro tipo di capacità relazionale con la natura, di concezione del limite e del sacro, in definitiva dei nuovi presupposti culturali. Oggi decidere “dove andare”, proporre un nuovo obiettivo, vorrebbe dire solamente moltiplicare ancora, dopo i centinai di progetti passati, la nostra attuale “idea di mondo” con conseguenze ormai prevedibili (cosa è se non questo l’attuale proposta di risolvere tutti i problemi mediante sempre nuove tecnologie salvifiche?). Dobbiamo ricordare che siamo arrivati dove siamo, non per caso, per una incomprensibile sequela di errori o per un qualche complotto, ma come risultato di un lungo processo portato avanti dai noi stessi e dai nostri cari, in massima parte in buona fede e con speranza in un futuro migliore. Oggi però il cambiamento climatico, se per una volta riusciamo a comprenderlo nella sua tremenda essenza, ci dice a chiare lettere che tutto quello che abbiamo creato e a cui ogni giorno contribuiamo con impegno: il sistema economico capitalistico globalizzato, non è sostenibile per radicale incompatibilità ecologica e, se guardiamo intono a noi le malattie psichiatriche e psicologiche, l’uso continuo psicofarmaci e droghe, anche umana. Allora facciamo un atto di umiltà, se con gli strumenti culturali che oggi abbiamo non è possibile capire dove andare possiamo forse solo decidere di prendere una direzione, senza la pretesa di capire dove questa ci porterà. Come quando persi in un bosco non sappiamo dove dirigerci e decidiamo la direzione in base alle condizioni a contorno. In quel frangente abbiamo il batticuore ma al contempo procediamo con passo sicuro avendo però la consapevolezza che la direzione potrà essere più e più volte aggiustata seguendo le nuove tracce che di volta in volta si paleseranno. Nessun obiettivo quindi ma una direzione.
La “direzione del consumo”, quella che oggi abitualmente percorriamo, implica la creazione di disabilità sempre nuove. Questo non è un piano perverso di qualche mente malvagia è semplicemente un dato di fatto. Chi vende ha bisogno di supplire a delle mancanze, delle carenze del consumatore. In questo contesto la direzione del consumo porta inevitabilmente verso un uomo sempre più difettoso, che manca sempre di qualcosa che quindi deve essere fornito dall’esterno, dal mercato. Il “marketing”, ambita materia di studio, altro non è che il continuo tentativo del mercato di trasformare ogni singolo bene in una merce: l’acqua trasformata in merce, i “social network” che trasformano la socialità in merce, “Vinted” che trasforma un abito usato da potenziale dono in una nuova merce, le bici “smart” a noleggio che rendono obsoleta la nostra vecchia bici e la trasformano in una nuova merce pagata al minuto, i monopattini elettrici che trasformano il percorso di una passeggiata in una nuova opportunità di mercato, questo solo per elencare alcuni dei più recenti traguardi raggiunti o in via di perfezionamento; nuove merci che suppliranno a nuovi bisogni di un uomo sempre più fragile.
Siamo tutti coinvolti, ricchi e poveri, intellettuali, populisti e militanti di sinistra, siamo radicalmente parte dell’“idea di mondo” che ci ha portato fino a qui. Ci sono voluti più di 150 anni per arrivare a questo punto, per forgiarci come intimamente siamo, tutti uniti da una vitale dipendenza con il sistema produttivo capitalistico globale. Essere consumatori significa in fondo essere incapaci di comprendere e di leggere il mondo. Significa valutare ogni nostro atto di acquisto in relazione al nostro stipendio. Il “Quanto costa?” equivale a “Quanto lavoro ho dovuto impegnare per potermelo permettere?”, è questo in definitiva il mio unico vero legame con la realtà. Superato questo scalino possiamo accedere a tutto: viaggiare ovunque, nutrirtici di qualunque cibo, consumare qualunque bene, tutto senza avere una effettiva percezione delle ricadute che queste azioni avranno sul mondo. Quindi, dal punto di vista della consapevolezza personale diretta, tutto può essere unicamente riportato all’esperienza del lavoro, spesso iperspecializzato e “puntiforme”, che ci ha permesso di avere accesso a quei beni e a quei servizi, tutto il resto per noi non può avere importanza significativa perché effettivamente non potremo mai conoscerlo. Possiamo avere notizia, essere informati, che esistono le isole di plastica, che le microplastiche invadono il mondo, che le foreste primarie vengono abbattute, che quei vestiti vengono prodotti sfruttando bambini, ma noi questi bambini, le isole, le microplastiche, le foreste primarie non li abbiamo visti e non li vedremo mai; il prezzo in fondo è buono e nuovamente acquistiamo. In un contesto globalizzato, date le enormi distanze (geografiche e culturali) in gioco, non può esistere “retroazione”, non è possibile comprendere la relazione tra i beni che consumiamo e le conseguenze che questi provocano; se l’isola di plastica fosse davanti al nostro ombrellone probabilmente considereremmo la questione in maniera diversa. È vero, oggi c’è un grande, e molto umano, bisogno di consapevolezza che è stato però subito intercettato dal “marketing” come l’ennesima merce preziosa; impressionante in numero di etichette presente sul cibo che compriamo: BIO, “vegan ok”, no OGM, 100% italiano, no olio di palma, “gluten free”, allevato a terra e chi più ne ha ne metta. È possibile che, in quanto meri consumatori, siamo in realtà la genia più informata e al contempo più profondamente ignorante che abbia mai messo piede sul pianeta. In questo contesto il “consumatore informato”, il “consumo consapevole” sono forse i più grandi degli ossimori moderni; un consumatore che tenti di informarsi al massimo può diventare nevrotico e poi, in una seconda fase, auto-consolato dalle tante etichette presenti sulle sue confezioni o dall’adesione a modelli di consumo alternativo (mi scuso con chi fatica ogni giorno nel tentativo di fare spese ragionate).
Un’alternativa a questa dinamica è l’autoproduzione: la “direzione dell’autoproduzione”. Autoproducendo si riduce il nostro ruolo di consumatori e il mondo inizia di dischiudersi ai nostri occhi. Autoprodurre significa plasmare la materia, conoscere la qualità delle cose e le relazioni che le legano, significa comprendere i propri limiti nel mondo, capire la dimensione delle forze in gioco nel processo creativo. Significa vivere in un mondo di relazioni continue, vissute in prima persona e per questo profonde. Se decido di autoprodurre uova, ogni volta che mi nutrirò con un mio uovo immediatamente mi troverò in relazione con un mondo complesso. Percepirò la simpatia per le mie galline, penserò al contadino che me le ha vendute, al lavoro fatto per costruire il pollaio con l’aiuto di mio figlio, mi ricorderò della mia amica Luana che per prima mi ha fatto avere l’idea di produrre uova, penserò e alla Nunzia che da piccolo mi portava con lei a governarle. Tutto questo sarà dentro di me nel momento in cui mi nutrirò dell’uovo. Al contrario un uovo, magari BIO, comprato al supermercato ha da comunicarmi un po’ di numeri e qualche informazione priva per me di un senso profondo: 1,44 €, scadrà tra 5 giorni, il suo contenuto di calorie, proteine, grassi, carboidrati e sale è xy, allevato a terra, no antibiotici; dati buoni per una statistica, per il calcolo della mia dieta, ma che non possono riempire il mio cuore. Quando l’avrò mangiato, consumato, di quest’uovo comprato non rimarrà nulla tranne una piccola passività (1,44 €) nel mio bilancio familiare e, nuovamente, del lavoro da fare per recuperare la spesa. Oggi, abituati a beni di consumo usa e getta, non è facile immaginare la ricchezza di una vita vissuta contornati da beni autoprodotti o prodotti da e con persone che conosciamo. Autoproducendo ci rendiamo immediatamente conto che da soli si fa poco, che servono amici per farsi coraggio, per lavorare insieme. Avendo un orto si capisce presto che più specie diverse riusciremo a mettere in relazione (piante, animali, funghi, batteri) più la nostra produzione di ortaggi avrà successo. La Vita è relazione, quando parliamo dell’importanza della biodiversità sosteniamo giustamente che maggiore è il numero delle specie che interagiscono più gli ecosistemi sono solidi e adattabili (resilienti come si dice oggi).
L’autoproduzione, al contrario del mero consumo, ci accompagna quindi verso un mondo più vivo perché continuamente intrecciato di molte e mutevoli relazioni. Anche il significato di “consumare” ci porta su questa strada, la parola racchiude in realtà due concetti: il significato di “ridurre a nulla”, che è quello che più comunemente usato (consumare gli pneumatici, benzina), nonché il modo in cui ci definiamo consumatori, e il significato di “portare a compimento” che è quello che diamo alla parola nelle espressioni “consumare il matrimonio” o “un delitto”. Quindi si, autoproducendo si consuma, come nell’esempio dell’uovo, “portando a compimento” processi complessi e non più “riducendo a nulla” il mondo che ci circonda.
Così autoprodurre diventa immediatamente un atto di lotta radicale e non violenta alla megamacchina capitalistica globalizzata. Una rivoluzione silenziosa, atomizzata, che può essere fatta a vari livelli. Posso decidere di autoprodurre solo poche cose o tutto quello che posso ma in tutti i casi è un atto capace di aumentare la mia consapevolezza del mondo, di approfondire le mie relazioni con gli altri e con la natura, di farmi sentire più forte delle mie capacità. Per autoprodurre c’è bisogno di tempo che sarà sottratto ad attività di consumo o all’attività lavorativa prevalente. Autoprodurre richiede una scelta di povertà. Una povertà che ci permetta di scoprire il mondo e di esserne finalmente parte (Il rimedio è la povertà, G. Parise 1974). Davanti agli enormi e urgenti problemi che ci sovrastano può sembrare una scelta puerile ma è in realtà una scelta potente in grado di cambiare gradualmente la “struttura” del sistema (l’economia) e, come sosteneva Marx, solo cambiando la struttura si può cambiare la “sovrastruttura”, cioè i nostri attuali presupposti culturali. È poi una scelta che può essere fatta singolarmente o in piccolissimi gruppi senza la necessità di grandi aggregazioni. Questo è fondamentale perché oggi qualunque movimento di massa realmente capace di critica verrebbe automaticamente, e in completa buona fede, distrutto dal sistema mediatico vigente che è parte integrante della megamacchina produttiva. È infine una scelta che non propone promesse per il futuro ma è capace di renderci più felici “qui e ora” grazie alla sua apertura alle relazioni e, in definitiva, alla vita. Qualcuno con un sorriso potrà dire che, comunque sia, per una comunità e tantomeno per un singolo, autoprodurre tutto il necessario è impossibile, ma ancora una volta, come siamo educati a fare, stiamo parlando di obiettivi, di grandi progetti, non di una direzione: la “direzione dell’autoproduzione”.
Tommaso Martinelli
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